Corte di Cassazione Civile Sezione lavoro 7/10/2008 n. 24732; Pres. De Luca, M., Est. Balletti, B.

Redazione 07/10/08
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Il danno da dequalificazione può essere accertato in via presuntiva, anche in base alla durata e all’entità del demansionamento .

 

(Omissis)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ex art. 414 c.p.c. dinanzi al Pretore-Giudice del lavoro di Roma S.A. conveniva in giudizio il BANCO DI SICILIA s.p.a. alle cui dipendenze prestava lavoro con la qualifica di funzionario dal 1987 – esponendo: -) che fin dall’assunzione era stato assegnato al Servizio studi presso l’Ufficio econometria e ricerca operativa, costituito ai fini dell’applicazione delle metodologie statistiche avanzate e sofisticate rientranti nel novero della ricerca operativa, in considerazione della sua specifica qualificazione, essendo egli laureato in scienze statistiche; -) che la sua attività nell’ambito dell’Ufficio si concretava nell’applicazione di tematiche proprie dell’analisi statistica multidimensionale, dell’econometria e della ricerca operativa alla soluzione di problemi creditizi, occupandosi egli in particolare di sperimentare e verificare le varie soluzioni proposte mediante l’utilizzo di un calcolatore elettronico; -) che, oltre all’attività lavorativa, esso ricorrente svolgeva anche attività scientifica collaborando con istituzioni universitarie e realizzando numerose monografie pubblicate a cura del Banco; -) che nel 1978, al ritorno da una trasferta a New York – dopo che gli fu diagnosticata una grave malattia che lo aveva reso non deambulante – il Banco iniziò ad assegnargli non più compiti di carattere operativo-aziendale, ma solo compiti di studio e di ricerca pura, limitandosi a pubblicare le monografie prodotte, ma disinteressandosi di curarne un ritorno applicativo; -) che tale situazione proseguì senza sostanziali variazioni nonostante egli fosse stato promosso “primo segretario” nel 1984 e “funzionario” nel 1987; -) che nel 1992, soppresso l’Ufficio di econometria e ricerca applicativa, egli venne assegnato al Servizio studi costituito presso la sede di (OMISSIS), pur conservando la sede di servizio a (OMISSIS), dove lavorava dal 1986; -) che da allora non aveva mai ricevuto dai superiori gerarchici nè assegnazioni di compiti nè direttive; -) che nel 1993, dopo aver rappresentato le sue rimostranze per lo stato di forzata inoperosità, era stato assegnato presso il Servizio finanziario esteri cambio, senza ricevere compiti o direttive, pur avendo egli proposto la realizzazione di alcuni specifici lavori senza ricevere però riscontro alcuno; -) che nel 1995 fu assegnato all’Area finanza, conservando però la medesima ubicazione nella sede di (OMISSIS), ancora senza ricevere alcun incarico e rimanendo senza esito le sue proposte, sollecitate dai responsabili dell’Area finanza, implicanti il ricorso alla metodologia statistica, così che egli, spontaneamente, per tenersi occupato, aveva messo a punto uno specifico progetto per migliorare il supporto informativo necessario agli operatori finanziari; -) che, in definitiva, da quattro anni, egli si trovava in una situazione di forzata inattività lavorativa, attuata a seguito di una progressiva sottrazione di mansioni iniziata nel 1978, dislocato in un ufficio ubicato in un’ala del palazzo diverso da quello in cui aveva sede l’Area finanza, a lui fisicamente inaccessibile poichè raggiungibile mediante un ascensore troppo stretto. Tanto premesso “in fatto”, il ricorrente assumeva:

-) che egli, a causa del grave demansionamento, aveva subito danni alla professionalità, comprovati anche da una compressione dei suoi sviluppi di carriera, alla dignità ed alla personalità morale;

-) che il Banco aveva violato le norme in materia di sicurezza e salute dei lavoratori poichè lo aveva collocato in un ufficio ubicato in modo non confacente alla sua condizione di invalido, e, inoltre, perchè i servizi igienici erano posti a notevole distanza e raggiungibili solo attravensando un lungo e tortuoso corridoio e, ancora, in caso di emergenza (come per un incendio), non vi erano adeguate vie di fuga, permanendo barriere architettoniche.

Il ricorrente, richiedeva, quindi, che, accertata la illegittimità del comportamento del BANCO DI SICILIA, il medesimo fosse condannato a reintegrarlo in mansioni proprie della qualifica di appartenenza, nonchè al risarcimento dei danni alla professionalità ed alla personalità morale, da liquidare anche in via equitativa, ed altresì ad adottare tutte le misure di sicurezza necessarie ed idonee a consentire la sua autonoma mobilità, il corretto funzionamento e la regolare manutenzione dei servizi sanitari e di igiene personale.

Si costituiva in giudizio il BANCO DI SICILIA s.p.a. che impugnava la domanda attorea e ne chiedeva l’integrale rigetto.

L’adito Giudice del lavoro – dopo avere ammesso ed espletata prove testimoniali -, con sentenza del 27 novembre 1998, accoglieva parzialmente la domanda accertando il demansionamento dal 1992 e condannando la società alla reintegrazione del lavoratore nelle mansioni proprie della qualifica di appartenenza; ma – su appello principale dello S. e appello incidentale del BANCO DI SICILIA – il Tribunale di Roma (quale giudice del lavoro di secondo grado), con sentenza del 1 marzo 2004, così provvedeva: “1) in parziale accoglimento della impugnazione incidentale, dichiara cessata la materia del contendere quanto alla domanda di condanna alla reintegrazione in mansioni proprie della qualifica di appartenenza; 2) in parziale accoglimento dell’appello principale nonchè di quello incidentale, condanna il BANCO DI SICILIA s.p.a., al risarcimento dei danni, in favore di S.A., determinati in misura pari al 40% (quaranta per cento) della retribuzione netta corrisposta dal gennaio 1992 al dicembre 1997, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalle singole scadenze (ultimo giorno di ciascun mese) fino al soddisfo; 3) dichiara interamente compensate tra le parti le spese di questo grado di giudizio”.

Per la cassazione della cennata scadenza la s.p.a. BANCO DI SICILIA propone ricorso affidato a tre motivi.

L’intimato S.A. resiste con controricorso e propone ricorso incidentale affidato a due motivi, a cui resiste la s.p.a.

BANCO DI SICILIA con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Deve essere disposta la riunione dei due ricorsi in quanto proposti contro la medesima sentenza (art. 335 cod. proc. civ.).

2 – Con il primo motivo di ricorso principale la società ricorrente – denunciando “violazione degli artt. 414 e 2103 cod. civ., nonchè vizi di motivazione” – rileva che “contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale di Roma, la vaga, generica e indeterminata descrizione delle mansioni svolte dallo S., con riferimento, soprattutto, al periodo antecedente al 1992, non ha consentito di effettuare, in alcuna maniera, quella necessaria e imprescindibile valutazione comparativa tra il lavoro materialmente espletato da quest’ultimo prima e dopo l’asserito demanionamento e, quindi, di giudicare compiutamente sul merito delle sue domande, sicchè è quanto mai evidente l’errore commesso dal Tribunale di Roma, che ha respinto l’eccezione di nullità del ricorso sollevata dalla ricorrente ed accolto (sia pure limitatamente al periodo 1992-1997), addirittura, la domanda proposta dallo S., senza compiere alcuna indagine e senza considerare che quest’ultimo, in verità, non aveva addotto un solo elemento atto ad individuare le mansioni concretamente svolte”.

Con il secondo motivo la ricorrente “principale” -denunciando “violazione degli artt. 112 e 342 cod. proc. civ. e artt. 2103 e 2697 cod. civ., nonchè vizi di motivazione” – censura la sentenza impugnata in quanto “il Giudice di appello, pure di fronte ad una specifica impugnazione del BANCO DI SICILIA, non ha compiuto quell’indagine comparativa costantemente richiesto dalla giurisprudenza di legittimità”, rimarcando che dalle risultanze probatorie si evidenziava “non solo che il BANCO aveva sempre agito con lealtà e buona fede, ma che lo S. era stato costantemente tenuto nella massima considerazione e non aveva mai subito alcuna persecuzione o emarginazione, nè aveva mai veramente subito il contestato demansionamento”.

Con il terzo motivo del ricorso principale la ricorrente – denunciando “violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., artt. 2103 e 2697 cod. civ., nonchè vizi di motivazione” – rileva, in relazione al capo della sentenza sulla quantificazione del risarcimento del danno subito dallo S., che i Giudici d’appello hanno fondato la decisione richiamando quell’orientamento di giurisprudenza, secondo cui il risarcimento del danno da demansionamento può essere suscettibile di valutazione anche equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., attesa la lesione dei diritti fondamentali della persona derivanti dalla violazione dell’art. 2103 cod. civ. e considerato, in ogni caso, il carattere immateriale di qualsivoglia pregiudizio correlato al “fondamentale diritto di esplicazione della personalità del lavoratore” e censura “la soluzione adottata che non appare assolutamente condivisibile, perchè contraria alla più diffusa giurisprudenza e non aderente al caso in esame”.

Con il primo motivo del ricorso incidentale S.A. – denunciando “violazione degli artt. 112 e 155 cod. proc. civ. e artt. 2509 cod. civ., nonchè vizi di motivazione” – rileva che “quantificando il risarcimento del danno al 40% della retribuzione netta mensile, il Tribunale è incorso in un evidente vizio di motivazione, nonchè in omesso esame delle risultanze di causa, dal momento che non ne ha spiegato la correlazione con lo stato di totale inerzia cui lo S. è stato costretto ed i compiti di modesto rilievo sporadicamente assegnatigli”.

Con il secondo motivo il ricorrente in via incidentale – denunciando “violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e vizi di motivazione” – rileva criticamente che “avendo il ricorrente reiterato la domanda di condanna alla reintegrazione nelle mansioni, il Tribunale non avrebbe potuto dichiarare la cessazione della materia del contendere se non incorrendo in un vizio di ultrapetizione, (in quanto), mancando l’accordo del lavoratore, il Tribunale non avrebbe potuto emettere pronunzia di cessazione della materia del contendere”. 3/a – I primi due motivi del ricorso principale – da valutarsi congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi – si appalesano infondati.

In merito all’eccezione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio – che erroneamente sarebbe stata disattesa dal Giudice di appello – si rileva, in linea generale, che l’interpretazione operata dal giudice di secondo grado in ordine al contenuto e all’ampiezza della domanda giudiziale è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della motivazione e, a tale proposito, il sindacato della Corte di Cassazione comporta l’identificazione della volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite, in un ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale volontà si ricostruisce in base a criteri ermeneutici assimilabili a quelli propri del negozio, diversamente dall’interpretazione riferibile ad atti processuali provenienti dal giudice, ove la volontà dell’autore è irrilevante e l’unico criterio esegetico applicabile è quello della funzione obiettivamente assunta dall’atto giudiziale (cfr.

Cass. n. 17947/2006).

In particolare, in sede di legittimità, occorre tenere distinta l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso esame di una domanda, o la pronuncia su domanda non proposta, dal caso in cui si censuri l’interpretazione data dal giudice di merito alla domanda stessa:

solo nel primo caso si verte propriamente in tema di violazione dell’art. 112 c.p.c., per mancanza della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato, prospettandosi che il giudice di merito sia incorso in un error in procedendo, in relazione al quale la Corte di cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti giudiziari onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiestale; nel caso in cui venga invece in contestazione l’interpretazione del contenuto o dell’ampiezza della domanda, tali attività integrano un tipico accertamento in fatto, insindacabile in cassazione salvo che sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto (Cass. n. 16596/2005). Più specificatamente, rientra nella nozione di error in procedendo, a fronte del quale la Corte di Cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti onde acquisire gli elementi necessari ai fini della richiesta pronuncia, la censura di omesso esame della domanda e di pronuncia su domanda non proposta, ma non la censura di erronea interpretazione del contenuto o dell’ampiezza della domanda, nè la censura di omessa, contraddittoria o insufficiente motivazione; tuttavia, qualora la censura relativa alla motivazione lamenti un vizio procedurale in cui sia incorso il giudice di merito (una sorta di error in procedendo indiretto, o di secondo grado), ciò consente alla Corte di Cassazione l’esame degli atti del giudizio di merito, al limitato fine di verificare che l’errore procedurale in cui sia eventualmente incorso il giudice di merito si sia tradotto in un vizio di motivazione (Cass. n. 9471/2004): vizio di motivazione che – nonostante le censure sollevate sul punto dalla società ricorrente – per la sentenza impugnata non sussiste, in quanto il Tribunale di Roma, quale giudice di secondo grado, ha fornito sul decisum concernente l’idoneità del contenuto del ricorso a introdurre correttamente la domanda giudiziaria dello S. una completa motivazione nel senso che, dopo avere indicato sia le funzioni proprie dell’ufficio cui era stato assegnato sia quelle sue proprie consistenti “nell’applicazione di tematiche proprie dell’analisi statistica multidimensionale, dell’econometria e della ricerca operativa alla soluzione di problema creditizi”, ha concluso che “la pur sintetica descrizione delle mansioni svolte, prima e dopo l’asserito demansionamento, consente di effettuare la valutazione comparativa e quindi di giudicare sul merito della domanda sicchè, sotto tale profilo, l’atto introduttivo non è viziato”. 3/b – Circa la congruità del cennato percorso motivazionale, la verifica dello stesso riguarda anche la valutazione delle risultanze probatorie (la cui critica connota le censure formulate specie con il secondo e nel terzo motivo di ricorso) è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito non sindacabile in cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento (Cass. n. 322/2003).

Pervero, il giudice di merito, è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello stesso e di disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata, essendo sufficiente, ai fini della congruità della motivazione, che da questa risulti che il convincimento si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi processualmente acquisiti, considerati nel loro complesso, pur senza un’esplicita confutazione degli altri elementi non menzionati e non accolti, anche se allegati, purchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, a quelli utilizzati.

Comunque, ove con il ricorso per cassazione venga dedotta l’incongruità o illogicità della motivazione della sentenza impugnata per l’asserita mancata valutazione di risultanze processuali, è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata (o insufficientemente valutata), che il ricorrente precisi – mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso (nella specie non avvenuta) – la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte di cassazione, alla quale è precluso l’esame diretto degli atti di causa, di delibare la decisività della risultanza stessa (Cass. n. 9954/2005).

Con riferimento, quindi, ai pretesi vizi di motivazione – che, secondo la società ricorrente, inficerebbero la sentenza impugnata – vale rilevare che: a) il difetto di motivazione, nel senso d’insufficienza di essa, può riscontrarsi soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice e quale risulta dalla sentenza stessa emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero l’obiettiva deficienza, nel complesso di essa, del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, – come per le doglianze mosse nella specie dalla società ricorrente – quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati; b) il vizio di motivazione sussiste unicamente quando le motivazioni del giudice non consentano di ripercorrere l’iter logico da questi seguito o esibiscano al loro interno non insanabile contrasto ovvero quando nel ragionamento sviluppato nella sentenza sia mancato l’esame di punti decisivi della controversia – irregolarità queste che la sentenza impugnata di certo non presenta -; c) per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse.

Benvero, le censure con cui una sentenza venga impugnata per vizio della motivazione non possono essere intese a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte – pure in relazione al valore da conferirsi alle “presunzioni” la cui valutazione è anch’essa incensurabile in sede di legittimità alla stregua di quanto già riferito in merito alla valutazione delle risultanze probatorie (Cass. n. 11906/2003) – e, in particolare, non vi si può opporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5: in caso contrario, il motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, id est di una nuova pronuncia sul fatto sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.

3/c – A conferma della pronuncia di rigetto dei motivi di ricorso in esame vale, infine, riportarsi al principio di cui alla sentenza di questa Corte n. 5149/2001 (e, di recente, di Cass. Sezioni Unite n. 14297/2007) in virtù del quale, essendo stata rigettata la principale assorbente ragione di censura, il ricorso deve essere respinto nella sua interezza poichè diventano inammissibili, per difetto di interesse, le ulteriori ragioni di censura.

4 – Il terzo motivo del ricorso “principale” – da valutarsi congiuntamente al primo motivo del ricorso “incidentale” in quanto intrinsecamente, se pure con conclusioni specularmente opposte, connesso – non appare siccome il motivo “connesso”, meritevole, di accoglimento.

Infatti, in merito alla misura del risarcimento del danno dovuto a seguito di dequalificazione o di demansionamento del lavoratore, il Giudice di appello ha rilevato che “nella fattispecie, non sembra possa negarsi che una lesione alla personalità morale ed al bagaglio di capacità professionali si sia verificato sia in considerazione del notevolmente lungo tempo in cui il demansionamento si è protratto (1992-1997), sia per l’elevata qualificazione raggiunta dal lavoratore, sia per la considerevole anzianità di servizio, con presumibile raggiungimento di un alto livello di esperienza specifica, sia per il fatto che non sono state semplicemente attribuite mansioni inferiori, ma il lavoratore è stato lasciato quasi in totale inerzia, salvo lo svolgimento di compiti di scarso impegno qualitativo e quantitativo. A diverse conclusioni, invece, può giungersi quanto al più specifico danno all’immagine professionale poichè lo S. non ha dedotto specifici elementi di fatto da cui possa desumersi che l’immagine professionale e cioè la stima e la considerazione di cui il lavoratore godeva innanzi tutto nel suo ambiente di lavoro, potesse essere diminuita per effetto del demansionamento, non essendo a ciò sufficiente il fatto in sè della dequalificazione”.

Nella specie, come si evince chiaramente dal testo della motivazione, la Corte di merito ha, nell’ambito dell’apprezzamento di fatto di sua competenza, desunto la sussistenza di un danno (di natura professionale) da demansionamento dall’osservazione che la sostanziale ed assoluta diversità delle mansioni assegnate rispetto a quelle in precedenza svolte determina un grave nocumento all’esperienza, alla professionalità ed alle attitudini del lavoratore, in relazione soprattutto alla “quasi totale inerzia” provocata illegittimamente allo S. dalla BANCA datrice di lavoro.

A tale riguardo questa Corte ha di recente statuito che “in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell’art. 2103 cod. civ., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno determinandone anche l’entità in via equitativa con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova anche presuntiva in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto”. (Cass. n. 14729/2006 e n. 14302/2006). Giurisprudenza questa che si è sviluppata con riferimento al principio affermato dalle Sezioni Unite secondo cui “il danno esistenziale (provocato da demansionamento) – da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed inferiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno e all’esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) – il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico – si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove” (Cass. Sez. Unite n. 6572/2006).

Il Giudice di appello ha correttamente applicato il cennato principio per cui restano incensurabili in sede di legittimità l’apprezzamento del danno subito dal lavoratore -apprezzamento che resiste alle censure sia del ricorrente principale che del ricorrente incidentale – atteso che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata , in quanto una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.

Pervero l’art. 360 cit., non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formule e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass., Sez. Un. 11 giugno 1998 n. 5802), non incontrando, al riguardo, lo stesso giudice, alcun limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. n. 11933/2003).

Vanno, pertanto, respinti sia il terzo motivo del ricorso principale che il primo motivo del ricorso incidentale.

5 – Anche il secondo motivo del ricorso incidentale non può essere accolto.

Infatti, con riferimento alla pronuncia di cessazione della materia del contendere – che costituisce, nell’ambito del rito contenzioso ordinario, una fattispecie di estinzione del processo creato dalla prassi giurisprudenziale (Cass. n. 10478/2004) -, la censura formulata dal ricorrente in via incidentale si rivela inammissibile, in quanto con il motivo di ricorso non sono stati dedotti, nè specificamente indicati, i criteri di interpretazione che sarebbero stati violati dal giudice del merito in relazione alla denunciata situazione processuale, mentre – in base alla giurisprudenza di questa Corte che qui si conferma anche per la parte motiva – “in tema di interpretazione degli atti processuali la parte che censuri il significato attribuito dal giudice di merito deve dedurre la specifica violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale di cui all’art. 1362 cod. civ. e segg., normativa questa avente portata di carattere generale” (Cass. n. 8960/2006, Cass. n. 16888/2005).

6 – In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, debbono essere respinti integralmente sia il ricorso principale che il ricorso incidentale.

Ricorrono giusti motivi (id est, reciproca soccombenza) per dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di Cassazione.

Redazione