Corte di Cassazione Civile Sezione lavoro 5/11/2010 n. 22561

Redazione 05/11/10
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Ove sia stato indennizzato dall’Inail, il lavoratore che abbia subito un infortunio può chiedere all’azienda solo il risarcimento del danno non patrimoniale, in base all’art. 74 del d.P.R. 1124/1965.

 

(Omissis)

Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Perugia, depositato in data 1 febbraio 1999, B.P., premesso di essere dipendente della Deltafina s.p.a. con mansioni di operaia, addetta con contratto stagionale alla cernita delle foglie di tabacco, e premesso di aver subito in data 13.5.1997 un infortunio sul lavoro che le aveva provocato lo schiacciamento del piede destro essendo stata investita mentre si recava da un reparto all’altro da un carrello elevatore condotto da un dipendente della società, chiedeva la condanna della società datoriale al risarcimento dei danni subiti, ed in particolare del danno biologico, morale, patrimoniale, quest’ultimo in via differenziale rispetto alla rendita già costituita dall’Inail, in considerazione della perdita della capacità lavorativa e della capacità lavorativa di casalinga.

Con sentenza n. 1087 depositata il 7.6.2003 il Tribunale adito, ritenuto che la causa del sinistro era da ravvisarsi nella condotta colposa del conducente del carrello e nella mancata adozione da parte della Deltafina s.p.a. delle misure e cautele che avrebbero potuto evitare il sinistro, condannava la datrice di lavoro al risarcimento del danno biologico quantificato in Euro 65.106,70, del danno morale quantificato in Euro 16.277,00, del danno patrimoniale da riduzione della capacità lavorativa quantificato in Euro 17.802,00, e della somma di Euro 991,60 per esborsi.

Avverso tale sentenza proponeva appello la Deltafina s.p.a. lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo il rigetto delle domande proposte da controparte con il ricorso introduttivo; e proponeva altresì appello incidentale la lavoratrice in relazione all’entità della quantificazione del danno.

La Corte di Appello di Perugia, con sentenza in data 16.5/21.9.2007, in parziale accoglimento dell’appello proposto dalla società datoriale, rigettava la domanda della B. in ordine al risarcimento del danno patrimoniale da incapacità lavorativa;

confermava nel resto l’impugnata sentenza.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione B. P. con cinque motivi di impugnazione.

Resiste con controricorso la società intimata.

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Col primo motivo di gravame la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 2043, 2056, 2697, 2727 e 2729 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Col secondo motivo di gravame lamenta omesso esame di documenti e di prove testimoniali, travisamento dei fatti, vizio di omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Rileva in particolare la ricorrente che erroneamente la Corte territoriale aveva rigettato la domanda volta al risarcimento del danno patrimoniale da riduzione della capacità lavorativa specifica argomentando dal fatto che, svolgendo la stessa attività di operaia generica, l’infortunio subito a seguito del quale aveva riportato una perdita della capacità lavoro specifica nella misura del 20%, non le impediva lo svolgimento di mansioni lavorative diverse, tant’è che la società datoriale le aveva offerto (peraltro con esito negativo) di riprendere il lavoro.

Osserva per contro la ricorrente che tale proposta le era stata rivolta nel periodo in cui versava in condizioni di inabilità temporanea al lavoro, di talchè era stata costretta a declinare la detta offerta, la quale per di più concerneva gli stessi compiti in precedenza svolti, che in realtà non potevano essere più espletati in quanto le lesioni riportate a seguito dell’infortunio le impedivano di rimanere in posizione eretta per lungo tempo e di sollevare o trasportare pesi.

Ha lamentato pertanto che la Corte territoriale, omettendo di valutare i fatti e le circostanze di cui sopra, ed assumendo con affermazione generica che la limitazione della capacità lavorativa poteva essere superata mediante ricollocazione della stessa in altre mansioni, aveva trascurato la circostanza che essa ricorrente a causa dell’incidente aveva perduto il proprio unico lavoro ed il reddito consequenziale omettendo di affrontare la problematica relativa alla risarcibilità del danno riverberatesi sulla capacità lavorativa futura.

I motivi non possono trovare accoglimento.

Osserva il Collegio che la responsabilità del datore di lavoro in materia di infortuni è fondata sul disposto dell’art. 2087 c.c., in base al quale l’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro; la norma suddetta impone pertanto al datore di lavoro un obbligo generale di diligenza; nel sistema della tutela delle condizioni di lavoro prevista dal legislatore, la disposizione di cui all’art. 2087 c.c. ha una funzione integratrice della normativa che prevede le singole misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro, ponendo a carico del datore di datore un obbligo generale di garanzia delle condizioni di sicurezza del lavoro.

Orbene, posto che nella fattispecie ci muoviamo in tema di responsabilità contrattuale, osserva il Collegio che il D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 74, nel prevedere la corresponsione da parte dell’Inail di una rendita rapportata al grado di inabilità allorchè sia accertato che dall’infortunio è derivata una inabilità permanente tale da ridurre l’attitudine al lavoro in misura superiore al dieci per cento, configura una ipotesi di esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni di natura patrimoniale occorsi al lavoratore infortunato o tecnopatico, versandosi in ipotesi di danno coperto dalla suddetta assicurazione obbligatoria. Pertanto la possibilità per il lavoratore di agire nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento del cosiddetto danno differenziale riguarda non già l’ulteriore danno patrimoniale asseritamente subito, bensì esclusivamente, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte (Cass. sez. lav., 12.8.2008 n. 21544; Cass. sez. lav., 11.4.2006 n. 8386; Cass. sez. lav., 20.6.2003 n. 9909; Cass. sez. lav., 17.2.2003 n. 2357; Cass. sez. lav., 29.1.2002 n. 1114), il danno non patrimoniale o morale (di cui all’art. 2059 c.c.) ed il danno alla salute o biologico (sia pure limitatamente alle fattispecie sottratte "ratione temporis" – come quella dedotta nel presente giudizio – all’applicazione della disposizione sopravvenuta di cui al D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, che ha esteso la copertura assicurativa obbligatoria, appunto, al danno biologico).

Il ricorso sul punto non può pertanto trovare accoglimento, dovendosi comunque altresì evidenziare, siccome rilevato dalla Corte territoriale nell’impugnata sentenza, che, essendo stata alla lavoratrice riconosciuta dal consulente d’ufficio una perdita del 20% della capacità di lavoro specifica ed avendo il giudice di primo grado già assegnato alla stessa una rendita a carico dell’Inail di importo superiore al 20% del reddito in precedenza percepito, non residuava comunque alcun danno patrimoniale a carico del datore di lavoro essendo stato il detto danno già risarcito dall’ente assicuratore.

Neanche sotto tale profilo il proposto gravame può pertanto trovare accoglimento.

Col terzo motivo di gravame la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 37 Cost., artt. 143, 1223, 1226, 2043, 2056, 2697, 2727 e 2729 c.c., artt. 112 e 437 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Col quarto motivo di gravame lamenta omesso esame di documenti e di prove testimoniali, travisamento dei fatti, vizio di omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 260 c.p.c., comma 1, n. 5).

In particolare rileva la ricorrente che la Corte territoriale erroneamente aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno per la perdita della capacità lavorativa di casalinga.

Premesso che anche tale lavoro ha un proprio valore economico, rileva la mancata ammissione delle prove dedotte nel corso del giudizio di merito ed il rigetto della domanda con l’affermazione generica ed apodittica che i postumi riportati non incidevano su tale attività.

Detti motivi si appalesano inammissibili per violazione del principio di specificità e autosufficienza del ricorso, in base al quale è necessario che nello stesso siano indicati con precisione tutti quegli elementi di fatto che consentano di controllare l’esistenza del denunciato vizio senza che il giudice di legittimità debba far ricorso all’esame degli atti. Ciò in quanto, pregiudiziale ad ogni statuizione in ordine alla lamentata omessa o insufficiente motivazione da parte del giudice di appello su una specifica determinata questione, si appalesa l’accertamento della effettiva sottoposizione di tale questione al vaglio del suddetto giudice.

E pertanto nel caso di specie parte ricorrente, nel far riferimento alla eccepita assenza di motivazione da parte del giudice di appello in ordine alla questione concernente il risarcimento del danno dalla stessa subito per la perdita della capacità lavorativa di casalinga, avrebbe dovuto riportare (ovvero allegare al ricorso) il contenuto dell’appello proposto sul punto, onde consentire a questa Corte di valutare l’effettività della denunciata omissione riscontrando preliminarmente l’effettiva proposizione della domanda in parola nell’appello ed il preciso contenuto della stessa; tale omissione ha comportato una palese violazione del canone di autosufficienza del ricorso, che risulta fondato sull’esigenza, particolare nel giudizio di legittimità, di consentire al giudice dello stesso di valutare l’esistenza del vizio denunciato senza dover procedere ad un (non dovuto) esame dei fascicoli – d’ufficio o di parte – che a tali atti facciano riferimento.

Non soddisfa tale esigenza la semplice reiterazione nell’atto di appello dei capitoli di prova posti a fondamento di tale domanda, atteso che per il principio della specificità dei motivi di appello, previsto dall’art. 342 c.p.c., occorre che nello stesso siano indicati con chiarezza e precisione i singoli punti e le singole questioni che si intendono sottoporre alla nuova valutazione del giudice del gravame, con la enunciazione delle ragioni sulle quali, con riferimento alle specifiche statuizioni, l’appello si fonda.

Pertanto neanche sotto questo profilo il ricorso può trovare accoglimento.

Col quinto motivo di gravame la ricorrente lamenta omesso esame di documenti e di prove testimoniali, travisamento dei fatti, vizio di omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) in relazione alla esatta quantificazione del danno morale.

In particolare rileva che erroneamente la Corte territoriale aveva quantificato il danno morale nella esigua misura di Euro 16.277,00, tenendo conto delle tabelle di liquidazione di tali danni praticate presso il Tribunale di Perugia le quali ritenevano equo liquidare il danno morale in una misura tendenzialmente compresa tra il 25% ed il 50% del danno biologico e contenendo tale liquidazione nel minimo.

In tal modo il giudice di merito aveva omesso di ancorare tale liquidazione a tutti quegli elementi, quali la gravità delle lesioni, la durata della malattia, la situazione sociale e familiare dell’interessata, emersi dagli atti di causa, rilevando – senza alcuna motivazione – che nella fattispecie non si poteva ravvisare un "particolare pregiudizio" sotto il profilo del danno morale, ed omettendo quindi di dar conto del percorso logico e giuridico adottato per addivenire a tale conclusione.

Il motivo non è fondato.

In proposito osserva il Collegio che la Corte territoriale, nel ritenere l’applicabilità dei minimi tabellari in relazione alla liquidazione del chiesto danno morale sotto il profilo della assenza di un particolare pregiudizio, non ha certamente inteso affermare l’assenza di siffatto pregiudizio, ma ha solo ritenuto di evidenziare che, con riferimento alla fattispecie in esame, non si ravvisavano elementi di gravità tali da doversi discostare dai minimi tabellari previsti in tema di liquidazione di siffatto tipo di danno. Tali argomentazioni, se pur sinteticamente espresse, consentono di ritenere soddisfatta, avuto riguardo altresì al carattere equitativo della predetta liquidazione, l’esigenza di motivazione della statuizione adottata; dovendosi anche sul punto evidenziare che, versandosi in tema di accertamento di fatto, la statuizione del giudice di merito è censurabile in sede di giudizio di cassazione solo allorchè il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze ed incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione adottata.

Il proposto gravame va pertanto rigettato ed a tale pronuncia segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 15,00, oltre Euro 2.500,00 (duemilacinquecento) per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

Redazione