Corte di Cassazione Civile Sezione lavoro 4/5/2009 n. 10235; Pres. Ianniruberto G.

Redazione 04/05/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso in data 12 gennaio 2004, Rete Ferroviaria S.p.A. proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Vibo Valertia, Giudice del lavoro, pronunciata in data 10 giugno 2003, con la quale era stata condannata al pagamento in favore di L.A., a titolo di risarcimento danni per licenziamento illegittimo, della complessiva somma di Euro 46.270,66, oltre accessori di legge dal deposito della sentenza al soddisfo, quale differenza tra le somme percepite a titolo di pensione e quelle che avrebbe percepito in costanza di rapporto di lavoro fino al 65′ anno di età.

Le censure rivolte dalla società ferroviaria alla sentenza di primo grado involgevano: a) l’eccezione di decadenza dall’impugnazione del licenziamento, siccome mai effettuata e maturata alla data di proposizione del giudizio di primo grado, erroneamente superata dal Tribunale; b) l’impossibilità di convertire il giudizio di impugnativa del licenziamento in azione ordinaria di risarcimento del danno per inadempimento contrattuale ai sensi dei vigenti principi civilistici.

Rilevava la società, a tale riguardo, che la disciplina dell’illegittimità del licenziamento e delle relative sanzioni, seppure collocabile nel quadro generale dell’invalidità dei negozi giuridici riconducibile al codice civile, rappresentava una lex specialis tendente, come tutte le normative speciali, ad assorbire ed implicitamente ad escludere quella di diritto comune, con la conseguenza che il licenziamento illegittimo, attraendo ogni fattispecie di invalidità o d’inefficacia del recesso e, correlativamente, ogni vizio di quest’ultimo negozio in quanto causa di annullabilità, poteva essere fatto valere dal lavoratore nelle forme e nei termini specificamente previsti dalla legge; c) l’impossibilità di convertire il giudizio di impugnativa del licenziamento in azione ordinaria di risarcimento del danno per illecito extracontrattuale ai sensi dei vigenti principi civilistici.

L’appellante evidenziava, poi, sul punto, la carenza dei presupposti, in specie del dolo o colpa, per un’affermazione di responsabilità per illecito aquiliano ex art. 2043 c.c., giacchè il licenziamento dell’appellato era avvenuto nell’ambito di una procedura di mobilità concordata con le organizzazioni sindacali ed in applicazione di una disciplina legislativa che solo gli orientamenti più recenti della giurisprudenza di legittimità avevano censurato sotto il profilo della natura non derogatoria e speciale rispetto alla generale disciplina dettata dalla L. n. 223 del 1991.

Concludeva, pertanto, per l’accoglimento dell’appello e l’integrale riforma della sentenza del Tribunale di Vibo Valentia.

Costituitosi, il L. invocava il rigetto dell’impugnazione, siccome infondato, e la conferma della sentenza gravata.

Con sentenza del 16 dicembre 2004 – 2 marzo 2005, l’adita Corte d’appello di Catanzaro rigettava il gravame, osservando che – come da orientamento di questa Corte (Cass. 2 marzo 1999 n. 1757) – la mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato non comportava la liceità del recesso del datore di lavoro bensì precludeva al lavoratore soltanto la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18; sicchè, nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, qualora si fosse verificata la decadenza dall’impugnazione era concesso al lavoratore di esperire la normale azione risarcitoria in base ai principi generali propri di questa azione, sempre che ne ricorressero (e fossero dal lavoratore allegati) i relativi presupposti. Nella specie, il L. non aveva invocato l’applicazione, in suo favore, dell’art. 18 Stat. Lav., ma, al contrario aveva formulato unicamente azione risarcitoria per la ritenuta illegittimità del comportamento della società datrice, ravvisata nel mancato rispetto dei criteri dettati dalla L. n. 223 del 1991 per l’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, sicchè era pienamente esperibile l’azione in parola.

Tale azione era anche fondata in quanto la società aveva risolto anticipatamente il rapporto di lavoro, erroneamente interpretando la L. n. 449 del 1997, senza collegarla a quella n. 223/1991.

Per la cassazione di tale pronuncia ricorre la Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. con due motivi.

Resiste L.A. con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso la Rete Ferroviaria S.p.A., denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 6 e 8, L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3, L. n. 300 del 1970, art. 18, artt. 2697 e 2909 c.c., art. 414 c.p.c., sostiene che la Corte di Catanzaro, pur muovendo da una corretta premessa e cioè, che il L. non aveva effettuato tempestivamente l’impugnativa del licenziamento in oggetto, era pervenuta all’erronea conclusione che la riscontrata decadenza non precludeva l’esperimento della normale azione risarcitoria di diritto comune, quando il lavoratore faccia valere pregiudizi diversi ed ulteriori rispetto a quelli contemplati nell’art. 18 *******. oppure nella L. n. 604 del 1966, art. 8;

nell’affermare ciò, peraltro, la Corte non terrebbe neppure conto del fatto che, nella fattispecie in esame, il risarcimento del danno richiesto dal L. in nulla differirebbe dalla tipica tutela risarcitoria apprestata dalla legislazione vincolistica sui licenziamenti.

A parere della ricorrente la tesi sostenuta dal Giudice del merito non sarebbe condivisibile, trascurando di considerare che, nel nostro ordinamento, il contratto di lavoro, in tutte le sue vicende – e segnatamente per quelle che riguardano la sua risoluzione – presenta marcati profili di autonomia e specialità rispetto alle regole che valgono per i comuni contratti a prestazioni corrispettive e di durata. Ed infatti il potere di recesso del datore di lavoro, che si concretizza nell’intimazione del licenziamento (sia individuale che collettivo), è limitato da norme speciali che si preoccupano pure di "tipizzare" il regime sanzionatorio per l’ipotesi che l’esercizio di quel potere sia abnorme. Sicchè, al di fuori di tale quadro normativo e delle tutele tipizzate dal legislatore, non v’è spazio per azioni risarcitorie da licenziamento illegittimo.

Pertanto, ad opinare diversamente, si finirebbe col vanificare le regole "speciali" che disciplinano l’intimazione del licenziamento, la sua impugnativa e le sanzioni che conseguono all’accertamento della illegittimità di esso. D’altra parte, anche a voler ritenere astrattamente configurabile un’azione risarcitoria basata sull’illegittimità del recesso, non v’è dubbio che essa – dovendo, sia pure in via incidentale, prendere le mosse dalla valutazione del (corretto) esercizio da parte del datore di lavoro del potere di licenziare – resterebbe sempre preclusa e neutralizzata tutte le volte in cui il licenziamento non sia stato tempestivamente impugnato.

Il motivo va accolto nei termini e per le ragioni che di seguito si espongono.

Al riguardo, giova rammentare che, secondo un primo orientamento – che costituisce, in diritto, il presupposto della domanda del L. (v. in particolare Cass. n. 1757 del 1999), "la mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato non comporta la liceità del recesso del datore di lavoro bensì preclude al lavoratore soltanto la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18. Ne consegue che, nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, qualora si sia verificata la decadenza dall’impugnazione è concesso al lavoratore di esperire la normale azione risarcitoria in base ai principi generali che governano questa azione, sempre che ne ricorrano (e siano dal lavoratore allegati) i relativi presupposti. Nello stesso quadro, è stato anche affermato che, costituendo l’inadempimento il fatto costitutivo generatore della pretesa fatta valere, il regime di tutela si risolve, fermo il fatto costitutivo, in una questione di scelta della norma giuridica da applicare (la L. n. 300 del 1970, art. 18, ovvero le norme codicistiche) che come tale è passibile di mutamento ad opera delle stesse parti o anche del giudice – senza che ciò comporti modifica della "causa petendi" (v. Cass. 23.12.2000 n. 16163).

Altro orientamento (v., in particolare, Cass. n. 18216 del 2006), richiamato dalla ricorrente, muove dalla considerazione che il vigente ordinamento prevede per la risoluzione del rapporto di lavoro una disciplina speciale, del tutto diversa da quella ordinaria, all’interno della quale, e nelle relative aree, il legislatore ha previsto un termine breve di decadenza (sessanta giorni) per l’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore (L. n. 604 del 1966, art. 6, v. anche L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3) a garanzia della certezza della situazione di fatto determinata dal recesso datoriale, ritenendo tale certezza valore preminente rispetto a quello della legittimità del licenziamento.

Da tale presupposto viene tratta la conseguenza che al lavoratore, che non abbia impugnato nel termine di decadenza suddetto il licenziamento, è precluso il diritto di far accertare in sede giudiziale la illegittimità del recesso e di conseguire il risarcimento del danno, nella misura prevista dalle leggi speciali (L. n. 604 del 1966, art. 8 e L. n. 300 del 1970, art. 18); inoltre, se tale onere non viene assolto, il giudice non può conoscere della illegittimità del licenziamento neppure per ricollegare, di per sè, al recesso conseguenze risarcitorie di diritto comune. La decadenza, infatti, impedisce al lavoratore di richiedere il risarcimento del danno secondo le norme codicistiche ordinarie, nella misura in cui non consente di far accertare in sede giudiziale la illegittimità del licenziamento. In particolare, sul piano della responsabilità contrattuale, poichè l’inadempimento (nella specie, il dedotto recesso illegittimo) costituisce presupposto del risarcimento dovuto dal contraente inadempiente a norma dell’art. 1218 c.c., la impossibilità di tale accertamento esclude la possibilità di riconnettere al preteso inadempimento del datore di lavoro l’obbligazione risarcitoria in favore del lavoratore, ed a tal fine è irrilevante che si tratti di licenziamento individuale o collettivo, perchè ciò che viene in rilievo è sempre la posizione soggettiva particolare del lavoratore che invoca la tutela risarcitoria.

Questa stessa giurisprudenza, tuttavia, tiene a temperare il proprio assunto, affermando – come pure ha precisato Cass. 18216/2006 cit.- che, nell’area dei licenziamenti disciplinati dalla normativa speciale, in caso di decadenza, l’azione risarcitoria di diritto comune può essere esercitata, in via residuale, per far valere profili di illegittimità del licenziamento che siano diversi da quelli previsti dalla normativa speciale sui licenziamenti (individuali o collettivi), come nei casi del licenziamento ingiurioso o del licenziamento pubblicizzato con la finalità di nuocere alla figura professionale del lavoratore o, ancora, del licenziamento quale atto finale di un mobbing (per questi esempi, v.

Cass. 12 ottobre 2006 n. 21833).

Tale orientamento appare condivisibile perchè valorizza correttamente l’intento del legislatore di attribuire valore preminente alla certezza della situazione di fatto scaturita dalla decadenza, Pertanto, se il giudice, a seguito di questa, non può conoscere della eventuale illegittimità del licenziamento, appare evidente che neppure può conoscere tale illegittimità al fine di integrare, di per sè, la illiceità del comportamento del datore di lavoro. In altre parole il fatto ingiusto posto alla base della pretesa risarcitoria extracontrattuale non può consistere nella semplice illegittimità del licenziamento, non più conoscibile, ma deve integrare un comportamento illecito ulteriore del datore di lavoro ex art. 2043 c.c., che deve essere allegato e provato dal lavoratore richiedente in base ai principi generali.

In tali sensi va riaffermato il principio dettato da Cass. n. 18216/2006 cit., precisandosi che la decadenza dall’impugnativa del licenziamento preclude l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del recesso e la tutela risarcitoria di diritto comune, venendo a mancare il necessario presupposto, sia sul piano contrattuale (in quanto l’inadempimento del datore di lavoro consista nel recesso illegittimo in base alla disciplina speciale), sia sul piano extracontrattuale (ove il comportamento illecito dello stesso datore consista, in sostanza, proprio e soltanto nella illegittimità del recesso).

Ciò posto – come risulta dalla stessa impugnata sentenza – il L., pur non invocando l’applicazione, in suo favore dell’art. 18 stat. Lav., ha formulato, al contrario, unicamente azione risarcitoria per ritenuta illegittimità del comportamento della società datrice, ravvisata nel mancato rispetto dei criteri dettati dalla L. n. 223 del 1993 per la individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, senza tuttavia l’indicazione e l’allegazione del fatto ingiusto che si sia accompagnato al licenziamento.

L’esaminato motivo va, dunque, accolto rimanendo assorbito il secondo.

Risultando, quindi, la domanda fondata soltanto sulla dedotta illegittimità del licenziamento, basata sul mancato rispetto della L. n. 223 del 1991, il ricorso in esame, alla luce del suddetto orientamento, deve ritenersi fondato (v., in termini, Cass. 9 marzo 2007 n. 5545).

Trattandosi di violazione di un principio di diritto la controversia va decisa nel merito con rigetto della domanda proposta con il ricorso inroduttivo.

Infine, soprattutto per la riconsiderazione, alquanto recente, nella giurisprudenza di questa Corte, della questione preliminare concernente gli effetti della decadenza dall’impugnazione del licenziamento, ricorrono giusti motivi per compensare le spese tra le parti.

P.Q.M.

La Corte:

Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta con il ricorso introdduttivo e compensa le spese.

Redazione