Corte di Cassazione Civile Sezione lavoro 28/5/2010 n. 13164

Redazione 28/05/10
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In base alla legge n. 68 del 12 marzo 1999 i datori di lavoro, pubblici e privati, sono tenuti a garantire la conservazione del posto di lavoro a quei soggetti che, non essendo disabili al momento dell’assunzione, abbiano acquisito per infortunio sul lavoro o malattia professionale eventuali disabilità. La tutela prevista dalla legge presuppone il riconoscimento al lavoratore, da parte dell’apposita commissione, di una percentuale di invalidità civile superiore al 45%.

 

(Omissis)

Svolgimento del processo

1. La controversia nasce dalle impugnazioni, da parte del signor L.A., di due successivi licenziamenti (uno, del marzo 2006, per avvenuto superamento del periodo di comporto, per inidoneità totale al servizio e per mancato rispetto degli obblighi contrattuali di fedeltà, correttezza e buona fede, e l’altro, del maggio 2007, per giustificato motivo soggettivo) intimatigli dalla datrice di lavoro Banca Popolare di Novara.

Va precisato, per chiarezza, che dopo il primo licenziamento il L. aveva chiesto ed ottenuto dal Tribunale di Roma un provvedimento di urgenza di reintegrazione nel posto di lavoro, e che, a seguito di questo provvedimento il rapporto era ripreso fino al secondo licenziamento. Nel giudizio di primo grado, costituitosi il contraddittorio, ed espletata l’istruttoria mediante consulenza tecnica medico legale, il Tribunale di Novara revocava il provvedimento di urgenza, di ripristino del rapporto in via provvisoria, emesso ai sensi dell’art. 700 c.p.c., e dichiarava la legittimità del primo licenziamento.

Questa pronunzia veniva confermata in sede di impugnazione dalla Corte d’Appello di Torino, che, con sentenza n. 602/09, respingeva l’appello del lavoratore.

2. La sentenza rilevava che il licenziamento in questione era stato intimato per tre ragioni concorrenti.

La prima era costituita dal superamento del periodo di comporto per sommatoria (di 14 mesi negli ultimi 48 mesi), in una situazione in cui la maggior parte dei giorni di assenza (tra marzo 2002 ed il febbraio 2006) era collocata in epoca successiva all’aprile del 2004.

Per questo la Corte d’Appello riteneva che non vi fossero prove che le assenze stesse fossero dovute ad alcun fenomeno di mobbing, che era stato accertato (in un precedente giudizio) solo per il periodo fino al 1998.

Ugualmente, si doveva escludere che le assenze fossero dovute ad una infermità di natura permanente, ascrivibile, come danno biologico consequenziale, a fatto della datrice di lavoro.

Si trattava, piuttosto, dell’effetto di un disturbo cronico di natura psichica, con manifestazioni di carattere paranoico.

Sussisteva la riduzione della capacità lavorativa specifica, ma era riconducibile al disturbo delirante cronico.

Nè sussisteva alcun vincolo derivante dall’accertamento, in un precedente giudizio ormai concluso, della sottoposizione del L. a forme di mobbing, perchè quel giudizio si riferiva a fatti precedenti, relativi al periodo dal 1994 al 1998; nè sussisteva alcuna prova della permanenza nel tempo di quella stessa causa.

Secondo la Corte d’Appello, infine, l’appellante non aveva più proposto alcuna domanda relativa al secondo licenziamento, che in questo modo era divenuto definitivo, con conseguente impossibilità di disporre la reintegrazione.

3. Avverso la sentenza di appello, depositata in cancelleria il 2 luglio 2009 e che non risulta notificata, il L. ha proposto ricorso per Cassazione, con nove motivi di impugnazione, notificata, a mezzo del servizio postale con plico inviato, in termine, il giorno 8 ottobre 2009. L’intimata Banca Popolare di Novara s.p.a. ha resistito con controricorso notificato, a mezzo del servizio postale, con plico inviato, in termine, il 20 novembre 2009, ed ha depositato successivamente una memoria.
Motivi della decisione

1. Il ricorrente ha proposto nove motivi di impugnazione, peraltro parzialmente ripetitivi; ciò nonostante la delicatezza della vicenda induce ad esaminarli specificamente ad uno ad uno.

2.1. Nel primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce l’errata valutazione dei fatti di causa, con conseguente violazione, oltre che di alcune disposizioni del c.p.c., del principio della domanda, ed il vizio di motivazione. Contesta l’affermazione, contenuta nella sentenza d’appello, secondo cui in quel grado del giudizio il lavoratore non avrebbe più proposto la domanda di annullamento del secondo licenziamento, quello del maggio 2007, e le altre domande connesse.

Nel secondo motivo, il ricorrente ripropone lo stesso tema della pretesa assenza di domande sul secondo licenziamento, sotto il diverso profilo della violazione della L. n. 604 del 1966, art. 5 e dell’art. 2697 c.c..

Sottolinea a questo proposito che ricadeva sul datore di lavoro l’onere della prova della legittimità del recesso.

2.2. I due motivi debbono essere trattati congiuntamente per la loro evidente connessione.

La censura in essi svolta è fondata solo apparentemente. E’ esatto, infatti, che la domanda di dichiarazione di illegittimità del secondo licenziamento del maggio 2007 è stata riproposta anche nel secondo grado del giudizio, perchè la circostanza risulta espressamente dalle conclusioni della parte riportate nella stessa sentenza impugnata. Questo non significa, però, che il motivo sia fondato.

Il L. era stato riassunto in via provvisoria a seguito di un provvedimento d’urgenza, che poi non è stato confermato nel giudizio di merito.

Quel provvedimento d’urgenza, perciò, è decaduto.

Se ed in quanto sia confermato il primo licenziamento (come è avvenuto nelle prime due fasi di questo giudizio) l’impugnazione del secondo motivo rimane assorbita.

Come meglio specificato nella parte successiva di questa motivazione, nel caso di specie il primo licenziamento non può che essere confermato per il motivo assorbente del superamento del periodo di comporto, e questo non può che comportare l’assorbimento anche delle questioni relative al secondo licenziamento.

Sono assorbiti, perciò, sia il primo che il secondo motivo di impugnazione, che si riferiscono appunto al secondo licenziamento.

3.1. Nel terzo motivo di impugnazione si deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronunzia su un motivo di appello, quello relativo al fatto che i due licenziamenti costituivano atti di mobbing, e perciò di condanna della banca al risarcimento del danno biologico ed esistenziale che ne era derivato al lavoratore.

3.2. Anche questo motivo di impugnazione è infondato, perchè questa richiesta è stata implicitamente (ma chiaramente) rigettata, là dove la sentenza impugnata precisa che non vi erano elementi che dimostrassero che dopo il 1998 il ricorrente fosse stato sottoposto ad atti di mobbing e che i danni psichici di cui soffre il ricorrente non erano dovuti a fatti di mobbing. 4.1. Nel quarto motivo il L. lamenta la violazione di alcune norme della legge sui licenziamenti individuali e dei codici civile e di procedura civile, e la contraddittorietà della motivazione, con riferimento alla presunta decadenza dell’appellante dal diritto di impugnare il primo licenziamento.

In concreto, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza per avere ritenuto implicitamente rinunziate, per mancata riproposizione, le eccezioni di merito sul primo licenziamento diverse da quelle, espressamente riproposte, afferenti al periodo di comporto.

4.2. Anche questa censura è fondata (almeno in parte) solo apparentemente, e, anche in questo caso, la circostanza non può comportare l’accoglimento nel merito del motivo di impugnazione.

E’ vero, infatti, che la riproposizione in appello della richiesta di annullamento del primo licenziamento comporta il riesame dell’effettiva sussistenza di una giusta causa, o di un giustificato motivo, di recesso, e che l’onere della prova sul punto rimane a carico del datore.

In questo senso, ed in questi limiti, la mancata specificazione anche in appello di un motivo di illegittimità già posto in evidenza in primo grado, non può valere necessariamente come rinunzia ad esso, e non può assolvere il datore di lavoro dall’onere della prova a suo carico.

Ciò non toglie che il datore debba dimostrare l’esistenza di un giustificato motivo di recesso, e soltanto di uno, anche quando – come nel caso di specie – ne abbia indicati più di uno.

Un motivo di recesso valido assorbe l’eventuale insussistenza degli altri.

Nel caso specifico è stata sicuramente dimostrata l’esistenza del superamento del periodo di comporto, e ciò rende irrilevante che sia stata dimostrata, o meno, la sussistenza degli altri due motivi del primo licenziamento.

5.1. Nel quinto motivo, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2909, 2110 e 2119 c.c. ed il vizio di motivazione, con riferimento al superamento del periodo di comporto.

Il ricorrente contesta il passaggio della sentenza che aveva negato che la patologia di cui soffre il lavoratore fosse conseguenza del mobbing subito in precedenza.

Sottolinea che, invece, il fatto che l’esistenza di un danno biologico permanente nella misura del 10% a seguito di un comportamento antigiuridico posto in essere dal datore di lavoro dal 1994 al 1998, e tale da costituire mobbing, sarebbe stata confermata da una sentenza passata in giudicato.

Il ricorrente sostiene che quel giudicato si riferiva anche al periodo 2002 – 2006, cui l’azienda aveva fatto riferimento per il calcolo delle assenze del periodo di comporto.

5.2. Il motivo è inammissibile, perchè si risolve, in realtà, nella riproposizione di una questione di fatto non suscettibile di un nuovo esame in questa sede di legittimità, quella relativa all’asserita sussistenza di un rapporto di causalità tra precedenti fatti di mobbing imputabili al datore di lavoro e le assenze che lo stesso datore di lavoro ha poste a base del licenziamento per superamento del periodo di comporto. Anche l’eventuale accertamento con sentenza passato in giudicato (di cui, peraltro, non vi è traccia nell’accertamento di fatto contenuto nella sentenza impugnata) di un danno permanente subito dal signor L. a seguito di fatti di mobbing non comporta l’accertamento che le sue assenze nel periodo 2002 – 2006 fossero dovute a quel danno, e non a ragioni differenti.

6.1. Nel sesto motivo il ricorrente denunzia la violazione dell’art. 2110 c.c. sotto il diverso profilo della violazione dell’art. 50 del contratto collettivo di categoria, ed il relativo vizio di motivazione.

Lamenta che l’azienda non abbia avvertito tempestivamente il dipendente dell’avvicinarsi della scadenza del periodo di comporto, come previsto dal contratto collettivo del febbraio 2005, e che il licenziamento, sia pure per superamento del periodo di comporto, era stato intimato con un ritardo di oltre un anno.

6.2. Il motivo è infondato nel merito, perchè la sentenza ha motivato ampiamente, ed in maniera più che convincente, a pag. 17, spiegando che il ritardo era stato dovuto al tempo trascorso (evidentemente, senza esito positivo) nelle trattative legate al tentativo di reperire una soluzione del contenzioso concordata con l’interessato, e, a pag. 9, che nel caso di specie non si applicava, perchè introdotto solo successivamente alla scadenza del periodo di comporto, l’obbligo del datore di lavoro di segnalare al lavoratore l’approssimarsi del termine de periodo stesso; del resto questa ultima circostanza di fatto, della introduzione solo successivamente dell’obbligo di informazione, non è stata specificamente contestata dal ricorrente.

7.1. Nel settimo motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., con riferimento alla ritenuta inidoneità del lavoratore alla prestazione lavorativa ed alla ritenuta incompatibilità con l’ambiente di lavoro. Ribadisce che la causa di licenziamento era costituita dalla sua ritenuta inidoneità alla prestazione lavorativa, e che questa inidoneità costituiva una conseguenza diretta del comportamento illegittimo, per mobbing, del datore di lavoro.

7.2. Il motivo è infondato nel merito, perchè non è esatto che la sentenza non abbia esaminato il punto, ma, in realtà, lo ha rigettato ritenendo che lo stato di invalidità per ragioni psichiche del signor L. non fosse dovuto a fatti del datore di lavoro.

Sotto un diverso profilo, la critica è inammissibile perchè si risolve, ancora una volta, nella riproposizione di questioni di fatto che non sono suscettibili di un nuovo esame in sede di legittimità. 8.1. Nell’ottavo motivo viene denunziata la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, dell’art. 2119 c.c., della L. n. 604 del 1966, art. 3 e dell’art. 38 del CCNL di settore. Argomenta che quello intimatogli era un licenziamento ontologicamente disciplinare, e perciò soggetto, come tale, alla disciplina del già richiamato art. 7. 8.2. Il motivo è palesemente infondato.

Come spiega in dettaglio la sentenza impugnata, alle pagg. 6 e 7 della motivazione, il licenziamento è stato intimato per tre ragioni, ciascuna delle quali idonea a giustificarlo: il superamento del periodo di comporto, l’inidoneità assoluta alla prestazione di attività lavorativa presso la banca, l’inadempimento degli obblighi contrattuali. Solo l’ultimo di essi può assumere carattere paradisciplinare. Il superamento del periodo di comporto costituisce, al contrario, una circostanza oggettiva, indipendente da fatto o colpa di una delle parti, e, infine, anche l’inidoneità oggettiva al servizio integra una circostanza oggettiva, pur se soggetta ad una valutazione di merito.

9.1. Infine, nel nono ed ultimo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la violazione della L. n. 68 del 1999, artt. 1 e 4 e la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. per omesso esame ed omessa pronunzia, su un punto dell’appello, quello in cui assumeva l’esistenza di un divieto al licenziamento, perchè divenuto inabile per infortunio sul lavoro o malattia professionale.

Il ricorrente afferma a questo proposito che nel maggio 2006 l’Inail lo aveva riconosciuto affetto da malattia professionale con menomazione dell’integrità psico – fisica pari all’8%, e nel settembre dello stesso anno l’apposita Commissione ASL lo aveva riconosciuto invalido civile nella misura del 75%, e fa riferimento alla L. 12 marzo 1999, n. 68, art. 1, comma 7. 9.2. Il motivo è inammissibile ed infondato. Va precisato preliminarmente, per completezza, che il citato L. 12 marzo 1999, n. 68, art. 1, comma 7 dispone che "i datori di lavoro, pubblici e privati, sono tenuti a garantire la conservazione del posto di lavoro a quei soggetti che, non essendo disabili al momento dell’assunzione, abbiano acquisito per infortunio sui lavoro o malattia professionale eventuali disabilità", e il precedente primo comma dello stesso articolo precisa, al punto a), che la legge si applica, tra le altre, "alle persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali e ai portatori di handicap intellettivo, che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45 per cento accertata dalle competenti commissioni per il riconoscimento dell’invalidità civile in conformità alla tabella indicativa delle percentuali di invalidità per minorazioni e malattie invalidanti".

L’argomentazione contenuta in questo motivo si basa dunque su di una circostanza di fatto, quella appunto del riconoscimento al signor L., da parte dell’apposita commissione, di una percentuale di invalidità civile superiore al 45%, che non trova risconto nell’accertamento di fatto contenuto nella sentenza impugnata, che, per la verità, non riporta neppure l’avvenuta allegazione di essa;

neppure lo stesso interessato indica quando e dove l’avrebbe allegata in giudizio.

La censura, in ogni caso, è anche infondata, da un lato perchè il giudice è tenuto ad esaminare tutte le domande sostanziali proposte, ma non è tenuto necessariamente a motivare su tutte le argomentazioni proposte dalle parti a loro sostegno, potendole disattenderle implicitamente quando le consideri non rilevanti, o assorbite da altri punti della motivazione, sia perchè (almeno) il primo licenziamento, intimato nel marzo del 2006, è antecedente rispetto al riconoscimento dell’invalidità civile, che – secondo quanto affermato dal ricorrente a pag. 49 del ricorso – sarebbe avvenuto nel settembre dello stesso anno.

10. Tutti i motivi proposti sono dunque inammissibili o infondati (compresi il primo ed il secondo, relativi al secondo licenziamento, che sono assorbiti dal rigetto di quelli sul primo licenziamento, ed in particolare del terzo, quarto e quinto motivo).

Di conseguenza, anche il ricorso nel suo complesso è infondato, e non può che essere rigettato.

Tenuto conto della complessità della fattispecie, e delle specifiche condizioni di salute del ricorrente, sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e compensa le spese.

Redazione