Corte di Cassazione Civile Sezione lavoro 2/10/2006 n. 21287; Pres. Mercurio E.

Redazione 02/10/06
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Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Caltanissetta con sentenza n. 17 del 9 aprile 2003, per quanto qui ancora interessa, rigettava l’appello proposto dagli attuali ricorrenti avverso la sentenza 26.9.2001 del Tribunale di Gela.

I lavoratori, tutti dipendenti di imprese appaltatrici di lavori edili all’interno dello stabilimento petrolchimico di Gela, avevano chiesto che venisse dichiarata la sussistenza di un unico ed interrotto rapporto di lavoro con le imprese appaltatrici e con le società committenti (Agip Petroli, Enichem e Polimeri Europa) in quanto si era verificata una serie di cessioni di azienda; in particolare sostenevano che dopo la cessazione dell’appalto con COMI s.r.l., in data 22.4.2000, il ramo d’azienda prima affidato a quest’ultima società era passato alle società del gruppo ENI che gestivano lo stabilimento petrolchimico (cd. reinternalizzazione dei servizi) e che da queste il ramo di azienda era stato di nuovo ceduto a terzi. In definitiva, i lavoratori insistevano perchè venisse riconosciuto il rapporto di lavoro con le società del gruppo ENI ai sensi dell’art. 2112 c.c. limitatamente al periodo successivo al 22.4.2000.

Il Tribunale aveva ritenuto la sussistenza del trasferimento d’azienda tra l’impresa ********, la *********************** (ora COED s.r.l.) e la COMI s.r.l. e quindi la sussistenza di un unico rapporto di lavoro tra i ricorrenti e le predette imprese fino al 29.6.2000, data del loro licenziamento; aveva ritenuto invece non sussistente un trasferimento d’azienda tra le imprese appaltatrici e le committenti; aveva escluso altresì il diritto dei lavoratori all’indennità di mobilità previsto per il solo settore industriale dalla L. n. 223 del 1991, art. 7, perchè l’attività espletata dai lavoratori era inerente al settore edile e non a quello industriale.

La Corte di Appello in via preliminare riteneva che la domanda introduttiva fosse nulla per indeterminatezza dei soggetti legittimati in quanto il ricorso non consentiva di individuare nè la singola posizione dei ricorrenti nei confronti delle società committenti, nè la singola posizione di queste ultime in relazione al ramo d’azienda di cui si assumeva l’avvenuta riacquisizione da parte delle società committenti.

Nel merito la Corte riteneva che la domanda fosse infondata in quanto dagli atti di causa risultava che le società del gruppo ENI avevano affidato in appalto alla *********************** (ora COED s.r.l.) attività di manutenzione di tipo edilizio all’interno dello stabilimento petrolchimico e che tale appalto era stato successivamente ceduto dalla soc. **************** alla COMI s.r.l.

Riteneva pertanto la Corte che tale affidamento non integrasse nè una cessione di azienda nè una esternalizzazione di servizi, in quanto l’attività di manutenzione edilizia non era attività strumentale dell’attività produttiva svolta all’interno dello stabilimento, nè corrispondeva ad una fase dell’attività di impresa, nè costituiva un segmento dell’intero ciclo produttivo.

Osservava ancora la Corte che le imprese appaltatrici si erano sempre avvalse di propri operai, tra i quali gli attuali ricorrenti, che non sono mai stati alle dipendenze delle società committenti.

Riteneva infine la Corte di dover confermare la sentenza del primo giudice laddove aveva respinto la domanda dei lavoratori intesa ad ottenere l’indennità di mobilità L. n. 223 del 1991, ex art. 7, in quanto l’attività svolta dai lavoratori all’interno dello stabilimento non era connessa al ciclo produttivo petrolchimico e non poteva essere considerata attività inerente al settore industriale.

Per la cassazione di tale sentenza i lavoratori in epigrafe hanno proposto ricorso sostenuto da due motivi. Resistono con controricorso, illustrato con memoria, ENI spa, POLIMERI Europa s.p.a., SYNDIAL s.p.a., Raffineria di Gela s.p.a., SNAM PROGETTI spa e INPS. Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso i lavoratori lamentano violazione dell’art. 2112 c.c. e dell’art. 414 c.p.c. nonchè vizi di motivazione e censurano la sentenza impugnata per aver affermato la nullità del ricorso introduttivo per la impossibilità di individuare i legittimati attivi e passivi e per aver negato che nell’aprile del 2000 vi era stato un trasferimento di azienda da COMI srl alle imprese committenti.

Quanto al primo profilo i ricorrenti sostengono che la domanda introduttiva non presentava alcuna incertezza in ordine ai soggetti del rapporto dedotto in causa, che erano da un lato i lavoratori della COMI s.r.l. e dall’altro le società del gruppo ENI (ENICHEM spa, AGIP Petroli s.p.a. e POLIMERI Europa s.p.a.) che avevano stipulato un contratto di appalto con la ****************, nel quale era succeduta la COMI srl. Sostengono i ricorrenti che il dedotto trasferimento di azienda da COMI srl alle società del gruppo ENI non comportava alcuna difficoltà nell’individuazione dei soggetti del rapporto in quanto deve ritenersi ammissibile un rapporto di lavoro di singoli lavoratori con una pluralità di datori di lavoro obbligati in via solidale.

Quanto al secondo profilo i ricorrenti osservano che i tre contratti di appalto intercorsi tra COMI (succeduta a Trainati Appalti) e le tre società presenti in modo stabile nel petrolchimico (Enichem, Polimeri e Agip Petroli) prevedeva non solo la manutenzione ordinaria di opere edili ma anche la posa in opera di ponteggi e la costruzione di impianti. Con detti contratti, dunque, si era realizzata una vera e propria cessione di un ramo di azienda in quanto parte del ciclo produttivo, prima gestito direttamente, era stato ceduto all’impresa ****************. Venuti meno i tre contratti di appalto le tre società committenti erano a loro volta divenute automaticamente cessionarie dello stesso segmento produttivo in passato ceduto a ****************.

Con il secondo motivo i lavoratori denunciano violazione della L. n. 223 del 1991, artt. 4, 6, 7 e 24 e censurano la sentenza impugnata per aver negato il diritto dei ricorrenti all’indennità di mobilità perchè la COMI svolgeva una attività che non era connessa al ciclo produttivo petrolchimico e non era inerente al settore industriale.

Sostengono i ricorrenti che le norme sopra citate, in caso di licenziamento collettivo, si applicano indipendentemente dall’appartenenza dell’impresa a un ciclo petrolchimico o a un settore industriale.

Il primo motivo di ricorso è infondato.

I ricorrenti sostengono che l’attività di manutenzione di tipo edilizio all’interno dello stabilimento Petrolchimico di Gela, prima gestito direttamente dalle società del gruppo ENI, costituisca un ramo di azienda; che tale attività sarebbe stata "esternalizzata" con l’affidamento di tale servizio ad altre imprese con contratto di appalto che costituisce in realtà una cessione di ramo di azienda; che, una volta risolto il contratto di appalto, il ramo di azienda in questione sarebbe stato riacquistato (reinternalizzato) dalle società del gruppo ENI; che conseguentemente il rapporto di lavoro dei ricorrenti sarebbe proseguito con le società committenti.

La Corte di Appello ha respinto la tesi difensiva dei lavoratori ed il dispositivo della sentenza è conforme al diritto, per quanto la motivazione vada opportunamente integrata e corretta.

E’ noto che il fenomeno cd. di "outsourcing" comprende tutte le possibili tecniche mediante le quali un’impresa dismette la gestione diretta di alcuni segmenti dell’attività produttiva e dei servizi estranei alle competenze di base (cd. corte business). Ciò può fare, tra l’altro, sia appaltando a terzi l’espletamento del servizio, sia cedendo un ramo di azienda. La scelta tra le varie alternative è rimessa all’insindacabile valutazione dell’imprenditore, a norma dell’art. 41 Cost.. Sta di fatto che l’appalto di servizi e la cessione di ramo di azienda sono contratti con caratteri giuridici nettamente distinti e non confondibili.

Per cessione di ramo di azienda, agli effetti dell’art. 2112 c.c., si intende il trasferimento di un insieme di elementi produttivi, personali e materiali, organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’attività, che si presentino prima del trasferimento come una entità dotata di autonoma ed unitaria organizzazione, idonea al perseguimento dei fini dell’impresa e che conservi nel trasferimento la propria identità (vedi Cass. n. 206 del 2004, Cass. n. 19842 del 2003, Cass. n. 17207 del 2002).

L’appalto di opere e servizi o di manutenzione ordinaria degli impianti all’interno dello stabilimento, consentita dalla L. 23 ottobre 1960, n. 1369, art. 3, costituisce il contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari, con proprio personale e con gestione a proprio rischio, il compimento all’interno di una azienda di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro (art. 1655 c.c.).

Con la cessione di un ramo di azienda si ha dunque il trasferimento di un segmento dell’organizzazione produttiva dotato di autonoma e persistente funzionalità. L’utilizzazione da parte del cedente dei prodotti e dei servizi del segmento ceduto formerà oggetto di distinto contratto con il cessionario.

Con l’appalto di opere e di servizi, invece, il committente non dismette un segmento produttivo, ma si avvale dei prodotti e dei sevizi che gli necessitano, che gli sono forniti da altra impresa che li produce avvalendosi di una propria organizzazione imprenditoriale.

Nella specie non è contestato che le committenti hanno inteso stipulare con la soc. ******** (e successivi cessionari) un contratto di appalto per l’esecuzione di lavoro edili e per la manutenzione edilizia all’interno del Petrolchimico. I ricorrenti non deducono, neppure in ipotesi, la invalidità di tale contratto per simulazione assoluta o relativa o per frode alla legge. Nè allegano l’errata utilizzazione nella contrattazione del nomen iuris di appalto in luogo di quello effettivamente voluto di cessione.

Se la volontà delle parti contraenti è stata, dunque, di stipulare un contratto di appalto di servizi, e non vi è prova alcuna di un intento elusivo comune alle parti, non si vede come tale contratto possa trasformarsi in un contratto di cessione di ramo di azienda, che è una fattispecie del tutto diversa. Ne consegue che la risoluzione del contratto di appalto non può aver avuto come conseguenza la retrocessione alle società committenti di un ramo di azienda che non è stato mai ceduto.

Pertanto non è suscettibile di censura la sentenza impugnata che ha negato la sussistenza nella specie di un contratto di cessione di azienda con successiva retrocessione alle società committenti.

Una volta escluso che nella fattispecie in esame sia configurabile una cessione di ramo di azienda ex art. 2212 c.c., resta assorbita ogni altra censura sollevata dai ricorrenti con il motivo di ricorso in esame.

Infondato è anche il secondo motivo di ricorso.

La Corte di Appello ha respinto la domanda subordinata dei lavoratori intesa ad ottenere il riconoscimento dell’indennità di mobilità per il settore industriale prevista dalla L. n. 223 del 1991, artt. 4, 6, 7 e 24, perchè l’attività svolta dai ricorrenti all’interno dello stabilimento non era connessa al ciclo produttivo petrolchimico e non poteva essere considerata attività inerente al settore industriale, bensì edile.

Sostengono i ricorrenti che la L. n. 223 del 1991, artt. 4, 6, 7 e 24, si applicano in caso di licenziamento collettivo indipendentemente dall’appartenenza ad un settore industriale.

La Corte territoriale, una volta riconosciuta la natura edile dell’attività svolta dalla società appaltatrice, ha fatto corretta applicazione delle norme, poichè la L. n. 223 del 1991, art. 24, comma 3, stabilisce che quanto previsto dall’art. 4 e 5 si applica soltanto alle imprese di cui all’art. 16, comma 1, che espressamente esclude le imprese edili dall’indennità di mobilità. Risulta peraltro che l’INPS ha liquidato ai ricorrenti il trattamento speciale di disoccupazione previsto in favore dei lavoratori del settore dell’edilizia.

Per tutte le considerazioni sopra svolte il ricorso, dunque, deve essere respinto. Al rigetto consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione in favore dei resistenti costituiti, nella misura liquidata in dispositivo. Nulla deve disporsi invece per i resistenti che non hanno svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione in favore dei resistenti costituiti che liquida, per ciascun resistente, in Euro 200,00 per esborsi ed in Euro mille per onorari, oltre spese generali e accessori di legge. Nulla per le spese per i resistenti non costituiti.

Redazione