Corte di Cassazione Civile Sezione lavoro 18/3/2009 n. 6569; Pres. Roselli F.

Redazione 18/03/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso proposto il 23.10.2002 avanti al Giudice del Lavoro di Napoli, M.S. impugnò il licenziamento intimatogli dalla ********** spa in data (omissis), in forza di precedente lettera di contestazione del (omissis), con la quale gli era stato addebitato che:

– il giorno (omissis), durante lo svolgimento delle sue mansioni di ausiliario addetto al servizio stoviglie, aveva caricato eccessivamente il carrello portavivande, per cui in tal modo aveva determinato la distruzione delle stoviglie ivi trasportate, occorrenti ai tre piani di degenza, avendo così disatteso la disposizione aziendale, più volte ribaditagli, secondo cui il trasporto doveva avvenire un piano per volta;

– il giorno (omissis) aveva di nuovo caricato eccessivamente il carrello portavivande, così provocando la rottura di piatti, bicchieri e tazze, nel frangente trasportati ed occorrenti per il pranzo dei degenti del 2^ e 5^ piano, così contravvenendo ulteriormente alla suddetta disposizione aziendale;

– il giorno (omissis), sempre durante lo svolgimento delle sue mansioni, aveva spinto con violenza il carrello portavivande contro la gabbia contenente le bombole di ossigeno e quindi, di seguito all’invito ricevuto dall’amministratore della società ********** a prestare più attenzione nell’uso, corretto, del carrello, alla presenza di vari compagni di lavoro, aveva proferito verso il predetto amministratore frasi ingiuriose e minacciose (del tipo "chi cazzo ti credi di essere, se sei un uomo esci fuori, non ti faccio campare più tranquillo").

Il ricorrente dedusse che, per gli episodi del (omissis), il tutto si era verificato in quanto il carrello, carico di stoviglie, aveva ceduto, mentre per i fatti del (omissis) egli era stato solo intento a spingere il carrello vuoto, di cui aveva perso il controllo, così da urtate la gabbia in cui erano allocate le bombole di ossigeno, e che, in tale occasione, l’amministratore della società aveva inveito nei suoi confronti e lo aveva aggredito fisicamente, procurandogli un trauma all’arto superiore, così come riportato nell’apposito referto rilasciato dall’ospedale (omissis), presso cui si era recato la termine del turno di servizio; osservò che non era stata emanata alcuna disposizione in ordine alle modalità di carico dei carrelli per un solo piano alla volta e che il ribaltamento dei carrelli era dipeso dal loro cattivo stato di manutenzione; escluse, inoltre, di aver mai pronunciato le ricordate espressioni nei riguardi dell’amministratore della società.

Radicatosi il contraddittorio e sulla resistenza della parte datoriale, il Giudice adito, ritenuta la sproporzione tra gli addebiti accertati e la sanzione inflitta, dichiarò l’illegittimità del licenziamento impugnato, disponendo per la reintegrazione nel posto di lavoro e per il risarcimento del danno alla stregua della ritenuta applicabilità della cosiddetta tutela reale.

La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza in data 22.3 – 17.5.2005, respinse l’appello proposto dalla ********** spa, osservando a sostegno del decisum, per ciò che qui rileva, quanto segue:

– non era emersa la prova di alcuna aggressione o minaccia posta in essere dal M. nell’episodio del (omissis);

– mancava la prova del grave inadempimento del lavoratore giustificativo del licenziamento, difettando ogni concreto indizio a conforto dell’ipotizzata insubordinazione, posto che l’animata discussione intervenuta tra il M. e l’amministratore C. andava ricondotta nei ragionevoli e ridotti termini già congruamente ricostruiti e apprezzati dal primo Giudice, non potendo neppure escludersi una provocazione ed una conseguente colluttazione innescata dallo stesso C. e tenuto conto che, se nessuno dei testimoni aveva potuto riferire in ordine all’aggressione denunziata dal lavoratore, neppure era stato in grado di riferire in ordine alle precise modalità di origine della lite; le frasi irriguardose, ma non minacciose, attribuite al M. da due dei vari testi escussi andavano correttamente inquadrate e ridimensionate in un contesto di emotiva e istintiva reazione, ed erano "presumibilmente" ascrivibili al fatto che egli era stato aspramente redarguito e "forse" anche aggredito fisicamente, apparendo "del tutto inverosimile" che il M. si potesse essere rivolto in malo modo ed in assenza di una precisa causa scatenante verso il superiore, per giunta con il preciso e consapevole intento di ribellarsi allo stesso e di contestare la sua autorità gerarchica in ambito aziendale; per conseguenza, il fatto di aver proferito la frase "chi cazzo ti credi di essere" o "chi ti credi di essere", nello specifico contesto e allo stato degli atti, poteva spiegarsi unicamente come reazione ad un eccessivo e sgarbato rimprovero e non potevano integrare gli estremi di una vera e propria insubordinazione, a sua volta rilevante irrimediabilmente sul rapporto di fiducia;

– i requisiti del notevole inadempimento e della sussistenza della particolare gravità del fatto, richiesti dal CCNL di settore per potersi far luogo alla sanzione espulsiva anche in ipotesi di insubordinazione o di negligente esecuzione delle disposizioni impartite, erano mancanti sia con riferimento alle rotture delle stoviglie nei giorni (omissis), sia in ordine all’alterco del successivo (omissis);

– secondo il disposto della L. n. 300 del 1970, art. 7, u.c., non poteva tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari in precedenza irrogate una volta decorsi due anni dalla loro applicazione.

Avverso l’anzidetta sentenza della Corte d’Appello di Napoli la ********** spa ha proposto ricorso per cassazione fondato su dieci motivi e illustrato con memoria.

L’intimato M.S. ha resistito con controricorso, illustrato con memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo e il secondo motivo, svolti congiuntamente, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., e della L. n. 604 del 1966, art. 5, nonchè vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere la Corte territoriale ritenuto la mancanza di ogni concreto indizio a conforto dell’ipotizzata insubordinazione e per avere ritenuto che le frasi profferite dal M. all’indirizzo dell’amministratore C. potevano spiegarsi unicamente come reazione ad un eccessivo e sgarbato rimprovero, seguito da vie di fatto, in quanto presumibilmente aspramente redarguito e forse anche aggredito fisicamente; sostiene al riguardo la ricorrente che il M. non aveva provato, come era suo onere, i fatti giustificativi del suo comportamento, quale reazione ad una pretesa condotta datoriale illegittima; contraddittoriamente, inoltre, la sentenza impugnata aveva dapprima accertato che non vi era stata alcuna aggressione effettuata dall’amministratore e poi giustificato il comportamento del lavoratore sulla base di una presumibile aggressione verbale e forse anche fisica ai suoi danni.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., e della L. n. 604 del 1966, art. 3, nonchè vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere la Corte territoriale ritenuto che le espressioni pronunciate dal M. all’indirizzo dell’amministratore delegato, così come accertate, non costituivano insubordinazione di particolare gravità (e dunque notevole inadempimento), integrando con ciò la giusta causa ovvero il giustificato motivo soggettivo di licenziamento. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Cost., artt. 251, 253, 256 e 420 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto che l’amministratore delegato C. non fosse legittimato a presenziare alle udienze di escussione dei testimoni e che la sua presenza avesse indotto "un timore reverenziale condizionante le deposizioni dei testi escussi".

Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2700 e 2702 c.c., nonchè vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere la Corte territoriale ritenuto, in virtù del certificato medico rilasciato in data (omissis) dall’Ospedale (omissis), che il M. avrebbe riportato lesioni nell’alterco con l’amministratore C..

Con il sesto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, e art. 2697 c.c., nonchè vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere erroneamente la Corte territoriale ritenuto, in riferimento agli episodi del (omissis), che non fosse stata provata la negligenza del lavoratore, quale unico fattore causale dei sinistri, diversamente attribuibili anche a difetti strutturali dei carrelli in dotazione.

Con il settimo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, nonchè vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere erroneamente la Corte territoriale ritenuto che gli episodi del (omissis) potessero acquistare rilevanza nel procedimento disciplinare in oggetto solo se concretanti "un notevole inadempimento" e se di "particolare gravità".

Con l’ottavo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., nell’interpretazione dell’art. 30 CCNL per i dipendenti da case di cura private del 13.10.1999, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto che gli inadempimenti contrattuali, aggiuntivi rispetto ad altro notevole inadempimento, non possono acquisire rilevanza nel procedimento disciplinare poi sfociato in un licenziamento se non concretanti "un notevole inadempimento" e se non di "particolare gravità".

Con il nono motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., nell’interpretazione dell’art. 33 CCNL per i dipendenti da case di cura private del 13.10.1999, nonchè vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere la Corte territoriale omesso di valutare che, in virtù del predetto art. 33 CCNL, incorre nel licenziamento il dipendente che ponga in essere un comportamento sanzionabile comunemente con una sospensione laddove abbia già ricevuto nell’anno due precedenti sospensioni dal lavoro e dalla retribuzione.

Con il decimo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, art. 2119 c.c., e L. n. 604 del 1966, art. 3, nonchè vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per non avere la Corte territoriale valutato, per l’apprezzamento complessivo del comportamento del M. ai fini della legittimità del licenziamento, i precedenti provvedimenti disciplinari dallo stesso subiti, sebbene non contestati ai fini della recidiva e sebbene comminati oltre il biennio precedente l’ultima contestazione.

2. Il primo, secondo, terzo e quinto motivo di ricorso, siccome fra loro strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente.

Osserva il Collegio che, secondo il condiviso orientamento di questa Corte, per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 20221/2007; 24349/2006; 19270/2006; 12001/2003).

Nel caso di specie la Corte territoriale, con apprezzamento di fatto incensurabile in questa sede di legittimità, ha ritenuto, sulla scorta delle deposizioni testimoniali diffusamente richiamate, che le espressioni "irriguardose" (ma non minacciose) rivolte dal M. all’amministratore C. andavano valutate nel complessivo contesto in cui erano state pronunciate, caratterizzato da un alterco intervenuto fra i due, e ritenendole, con plausibile valutazione, effetto di una reazione "emotiva ed istintiva" del lavoratore ai rimproveri ricevuti, con ciò escludendone l’ascrivibilità ad un’ipotesi di vera e propria insubordinazione e, comunque, la particolare gravità contrattualmente richiesta per potersi fare applicazione della sanzione espulsiva.

L’ulteriore accenno al fatto che "forse" il M. poteva essere stato aggredito fisicamente dall’amministratore non svolge, proprio perchè chiaramente espresso in forma dubitativa, un ruolo determinante nella valutazione di merito resa dalla Corte territoriale, cosicchè non può ravvisarsi una contraddittorietà con la pur chiaramente indicata assenza di prove in ordine all’aggressione denunziata dal lavoratore.

Del pari sostanzialmente irrilevante, nell’ampio contesto motivazionale adottato, è poi l’accenno al fatto che solo il lavoratore aveva riportato delle lesioni, cosicchè anche sotto tale specifico profilo deve essere escluso il denunciato vizio di contraddittorietà della decisione impugnata, che presuppone l’essere state poste a fondamento della decisione ragioni sostanzialmente contrastanti, tali da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della ratio decidendi, cioè l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione adottata (cfr, ex plurimis, Cass., n. 11936/2003).

I motivi di ricorso all’esame non possono essere quindi accolti.

2. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile per carenza di interesse, poichè le considerazioni della Corte territoriale su un "verosimile timore reverenziale condizionante le deposizioni dei testi escussi, tutti ancora dipendenti della convenuta" e sul fatto che le deposizioni erano state "talvolta" rese alla presenza del C., che per tabulas non risultava a ciò legittimato, non si sono tradotte nell’affermazione di inattendibilità di taluna delle deposizioni testimoniali acquisite e, quindi, non hanno avuto incidenza sostanziale sulla decisione assunta.

3. Il sesto motivo di ricorso risulta infondato, poichè l’affermazione che non poteva ritenersi adeguatamente provata la colposa negligenza del lavoratore, quale unico fattore causale dei sinistri accaduti il (omissis), siccome "diversamente attribuibili anche a difetti strutturali dei carrelli in dotazione", da un lato è di natura meramente rafforzativa ("per giunta") rispetto alla già precedentemente affermata insussistenza dei richiesti requisiti del notevole inadempimento e della particolare gravità del fatto, dall’altro va ricollegata ai richiami in precedenza effettuati alle testimonianze acquisite sul punto, cosicchè le censure svolte dalla ricorrente si risolvono nella richiesta di un riesame, inammissibile in questa sede, di tali risultanze processuali.

4. Secondo il condiviso orientamento di questa Corte, in tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, allorquando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, il giudice di merito non deve esaminarli atomisticamente, riconducendoli alle singole fattispecie previste da clausole contrattuali, ma deve valutarli complessivamente, al fine di verificare se la loro rilevanza complessiva sia tale da minare la fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre nel dipendente (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 6454/2006; 6668/2004; 13536/2002).

La Corte territoriale, richiamandosi a un peraltro male interpretato arresto di questa Corte (Cass., n. 12678/1992), si è viceversa limitata ad escludere che ciascuno dei tre addebiti contestati presentasse – in sè considerato – i requisiti richiesti per giustificare il ricorso alla sanzione espulsiva, omettendo tuttavia di valutare globalmente i tre episodi, traendone le necessarie conclusioni sul piano della loro eventuale complessiva idoneità a configurare un notevole inadempimento e ad incidere quindi in maniera irreversibile sull’elemento fiduciario.

Il settimo motivo di ricorso si presenta quindi fondato.

5. L’ottavo e il nono motivo di ricorso sono inammissibili, non avendo la parte ricorrente, in ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, riportato il contenuto delle norme contrattuali collettive di cui lamenta l’erronea interpretazione o l’omessa considerazione.

6. Secondo il condiviso orientamento di questa Corte il principio della immutabilità della contestazione dell’addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell’art. 7, Statuto lavoratori preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi, diversi da quelli contestati, ma non vieta di considerare fatti non contestati, e collocantisi a distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio dell’imprenditore, non ostando a tale valutazione la disposizione di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7, u.c., (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 7734/2003; 9811/1998; 1925/1998; 6523/1996; 5093/1995).

La Corte territoriale si è discostata da tale orientamento interpretativo, affermando, come già ricordato nell’istorico di lite, che, in base alla L. n. 300 del 1970, art. 7, u.c., non poteva tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari in precedenza irrogate una volta decorsi due anni dalla loro applicazione e, con ciò, omettendo qualsiasi valutazione, sia pure quali circostanze confermative della significatività e gravità degli addebiti contestati, in ordine ai precedenti disciplinari allegati dalla parte datoriale. Anche il decimo motivo di ricorso risulta quindi fondato.

7. In base alle considerazioni che precedono va quindi riconosciuta la fondatezza del settimo e del decimo motivo di ricorso, che nel resto deve invece essere disatteso.

La sentenza impugnata va quindi cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio per nuovo esame al Giudice indicato in dispositivo, che giudicherà conformandosi ai suindicati principi di diritto e provvederà altresì sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il settimo e il decimo motivo di ricorso, rigetta nel resto, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione.

Redazione