Corte di Cassazione Civile Sezione lavoro 17/2/2010 n. 3698; Pres. Roselli, F., Est. Nobile, V.

Redazione 17/02/10
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In caso di condanna penale con interdizione dai pubblici uffici, l’impiegato può essere destituito senza il previo esperimento del procedimento disciplinare.

 

(Omissis)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 15-3-2000, D.M.C. chiedeva al Giudice del lavoro di Taranto che – previo accertamento che il licenziamento infittogli dal Comune di Manduria (con provvedimento del 22-9-98 notificatogli il giorno successivo) era affetto da vizi del procedimento disciplinare attivato dopo il passaggio in giudicato della sentenza penale che lo aveva condannato alla pena di anni tre e mesi quattro di reclusione con interdizione perpetua dai pubblici uffici ex art. 317 bis c.p., per i reati di cui agli artt. 37, 323, 110, 81 e 61 c.p., commessi nella sua qualità di (OMISSIS) del Corpo di polizia municipale – fosse riammesso in servizio con reintegrazioni nelle precedenti mansioni e qualifica, ovvero, nel caso in cui fosse stata considerata ostativa a ciò la misura della interdizione, con assegnazione di mansioni diverse non implicanti la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.

Il ricorrente, in particolare, sosteneva che i vizi dedotti erano collegati: a) al mancato rispetto dell’art. 2, commi 2 e 6 del ccnl del comparto enti locali 1994/1997, per decorso di oltre 20 giorni tra conoscenza del fatto e contestazione di addebito e conclusione del procedimento disciplinare; b) al mancato rispetto delle regole concernenti la composizione e la designazione della presidenza della conferenza dei responsabili apicali (organo deliberante); c) alla violazione dei principi di autonoma valutazione del fatto ai fini disciplinari e di gradualità e proporzionalità delle sanzioni (art. 25 del ccnl), tenuto anche conto che il Tribunale di sorveglianza di Taranto gli aveva accordato il beneficio, alternativo alla detenzione, dell’affidamento in prova al servizio sociale, il cui esito positivo avrebbe potuto determinare l’estinzione della pena ed ogni altro effetto penale.

Il Comune convenuto si costituiva, eccependo, in via pregiudiziale, la carenza di giurisdizione del G.O. e contestando la fondatezza della domanda.

Il giudice adito, con sentenza n. 900/2002, affermata la sua giurisdizione, rigettava la domanda.

Il D.M. proponeva appello avverso la detta sentenza, chiedendone la riforma con l’accoglimento della domanda.

Il Comune di Manduria si costituiva e resisteva al gravame.

La torte di Appello di Lecce, con sentenza depositata il 14-6-2006, rigettava l’appello.

In sintesi la Corte territoriale, confermando la decisione del primo giudice, riteneva, nella specie, non necessaria la attivazione del procedimento disciplinare (e quindi assorbita ogni questione sui vizi di tale procedura), in quanto "nel caso di interdizione dai pubblici uffici la prestazione lavorativa non può essere più eseguita per fatto imputabile al lavoratore e questo crea i presupposti della risoluzione del contratto, sulla base dei principi generali (artt. 1463 e 1464 c.c.) e del giustificato motivo obiettivo di licenziamento, per ciò che riguarda la normativa che disciplina il rapporto di lavoro in particolare della L. n. 604 del 1966, art. 3)".

La Corte, peraltro, rilevava, che "in tal senso" era orientata la giurisprudenza del Consiglio di Stato, in base alla quale "la disciplina di cui alla L. n. 19 del 1990, artt. 9 e 10 non viene in rilievo con riguardo al caso in cui la sentenza penale di condanna abbia inflitto la pena dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, e tanto in virtù della fondamentale considerazione che, a fronte di una determinazione giudiziale che recide in modo radicale e definitivo il rapporto di servizio, non è coerente che all’amministrazione venga dato il potere di adottare una autonoma misura disciplinare che, se non coincidente con la destituzione, sarebbe inutiliter data".

Per la cassazione di tale sentenza il D.M. ha proposto ricorso con quattro motivi.

Il Comune di Manduria ha resistito con controricorso ed ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente, denunciando violazione degli artt. 23, 24 e 25 del ccnl Comparto Enti locali 1994/1997 e del Regolamento dei procedimenti disciplinari del Comune di Manduria, nonchè vizio di motivazione, in sostanza deduce che nella fattispecie andava applicata la disciplina collettiva, che prevede lo svolgimento del procedimento disciplinare per tutte le sanzioni disciplinali, anche nel caso di interdizione dai pubblici uffici.

Il ricorrente in particolare lamenta che la Corte di merito erroneamente si è limitata a richiamare l’interpretazione che la giurisprudenza amministrativa ha espresso in riferimento alla L. n. 19 del 1990, artt. 9 e 10 laddove la norma collettiva, più favorevole al lavoratore, doveva ritenersi prevalente su ogni altra norma contraria anche di rango superiore, formulando ex art. 366 bis c.p.c. (applicabile ratione temporis nella specie) il seguente quesito: "dica se nel caso in questione si doveva applicare il ccnl comparto Enti Locali 1994/1997, in deroga migliorativa rispetto ai quanto previsto dalla normativa nazionale, che correttamente interpretato, secondo la sua formulazione letterale, prevede che il pubblico dipendente, anche nel caso in cui gli sia stata applicata la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, debba essere sottoposto in ogni caso a procedimento disciplinare".

Il motivo è infondato.

Rileva il Collegio che il principio del divieto di automatismi sanzionatori a seguito di condanna penale (v. soprattutto C. Cost.

971/1988 e L. n. 19 del 1990) non è applicabile nell’ipotesi di interdizione perpetua dai pubblici uffici (o in altre analoghe di pene accessorie come l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego ex art. 32 quinquies c.p. introdotto dalla L. n. 97 del 2001 o come l’interdizione perpetua L. n. 38 del 2006, ex art. 5 e 8 relativi a reati su minori).

In tal senso, non solo, ripetutamente si è espressa la giurisprudenza amministrativa affermando che la applicabilità della disciplina di cui alla L. n. 19 del 1990, artt. 9 e 10 – che prevedono il previo procedimento disciplinare in ogni caso, escludendo l’applicabilità di sanzioni espulsive dal pubblico impiego in via automatica – non è possibile nei casi in cui la perdita dell’impiego consegua come effetto automatico di una sanzione penale accessoria, senza la necessità di un procedimento disciplinare (v. fra le altre Cons. Stato sez. 4 13-2-1995 n. 81, Cons. Stato sez. 5 23-4-1998 n. 468, Cons. Stato sez. 6 28-9-2001 n. 5163, Cons. Stato, Cons. Stato sez. 4 9-12-2002 n. 6669, Cons. Stato sez. 5 21-6-2007 n. 3324).

In particolare con la sentenza n. 468/1998 il Consiglio di Stato ha affermato che "la L. n. 19 del 1990, art. 9, comma 1 che stabilisce che il pubblico dipendente non può essere destituito di diritto a seguito di condanna penale, nella sua formulazione letterale non si riferisce all’ipotesi di interdizione perpetua dai pubblici uffici (che costituisce un elemento in più rispetto alla condanna penale);

pertanto, tale norma non ha abrogato ogni disposizione di legge contrastante con il divieto dell’automatica destituzione, ed il suo ambito di operatività deve essere ristretto alla sola destituzione di diritto per effetto della mera condanna penale".

Le sentenze n. 5163/2001 e 6669/2002, hanno poi chiarito che non occorre l’instaurazione del procedimento disciplinare per l’irrogazione della sanzione della destituzione del pubblico impiegato, condannato dal giudice penale, nel caso in cui alla condanna segua l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, operante indipendentemente da contrari provvedimenti dell’amministrazione.

Tale indirizzo ha trovato conferma nella sentenza della Corte Costituzionale n. 286 del 1999 con la quale è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost, dell’art. 29 c.p., comma 1 nella parte in cui statuisce che la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni importa l’interdizione perpetua del condannato dai pubblici uffici. Secondo il giudice a quo dalla pena accessoria non poteva scaturire l’automatismo della rimozione, dovendosi comunque affermare la ineludibilità della interposizione del giudizio disciplinare, ma la Corte ha ritenuto che "la affermazione del principio della necessità del procedimento disciplinare, in luogo della destituzione di diritto dei pubblici dipendenti, non concerne le pene accessorie di carattere interdittivo, in genere, nè l’interdizione dai pubblici uffici, in particolare", in quanto "la risoluzione del rapporto d’impiego costituisce, in questo caso, soltanto un effetto indiretto della pena accessoria comminata in perpetuo".

Sulla scia di tale pronuncia della Corte Costituzionale (e dei rilievi già svolti dalla stessa Corte con la sentenza n. 297 del 1993, con riferimento all’interdizione dalla professione di farmacista), da ultimo, anche questa Corte con la sentenza del 9-7- 2009 n. 16153 (in un caso di destituzione di dipendente di un Comune condannato in sede penale con interdizione perpetua dai pubblici uffici) ha affermato che "la L. n. 19 del 1990, art. 9 ai sensi del quale il pubblico dipendente non può essere destituito di diritto a seguito di condanna penale, deve intendersi riferito alla destituzione adottata quale conseguenza disciplinare della condanna, che necessita, in ogni caso l’esperimento del procedimento previsto per l’adozione di sanzioni di carattere disciplinare, e non anche a quella conseguente all’applicazione di misure accessorie di carattere interdittivo, rispetto alle quali la cessazione del rapporto costituisce solo un effetto indiretto, per la fisiologica impossibilità di prosecuzione del rapporto. Ne consegue che il suddetto intervento normativo non può ritenersi abrogativo del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 85, lett. b) atteso che tale norma si riferisce all’ipotesi di interdizione perpetua dai pubblici uffici, che determina la cessazione del rapporto senza la necessità di un procedimento disciplinare, ed è pertanto immune – in conformità del principi sanciti dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 286 del 1999 – da censure di legittimità costituzionale".

In particolare, quindi, come ha precisato questa Corte "l’amministrazione in presenza di una sentenza penale di condanna con pena accessoria interdittiva, non può fare altro che disporre la cessazione dal servizio con un provvedimento che non ha carattere nè costitutivo, nè discrezionale, venendo in rilievo bensì un atto vincolato, dichiarativo di uno status conseguente al giudizio penale definitivo nei confronti del dipendente".

Attenendosi a tali principi legittimamente la sentenza impugnata ha ritenuto non necessaria, nella fattispecie, la attivazione del procedimento disciplinare ai fini del licenziamento de quo.

Trattandosi infatti di un effetto automaticamente conseguente alla pena accessoria che scaturisce dalla condanna penale, non suscettibile di autonoma valutazione da parte della amministrazione, si è in sostanza "fuori" dall’ambito delle sanzioni e delle procedure disciplinari vere e proprie (cfr. sul punto Cass. 16153/2009 cit.), per cui è inapplicabile nella fattispecie la previsione del contratto collettivo che, nel detto ambito, richiede il "previo procedimento disciplinare".

Così respinto il primo motivo vanno, poi, dichiarati inammissibili il secondo, il terzo e il quarto, per mancanza dei relativi quesiti di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis.

Il ricorso va pertanto respinto e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese in favore del Comune di Manduria.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del Comune di Manduria, delle spese liquidate in Euro 26,00 oltre Euro 2.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA.

Redazione