Corte di Cassazione Civile Sezione lavoro 16/3/2009 n. 6342; Pres. Mattone, S., Est. Curzio, P.

Redazione 16/03/09
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In caso di annullamento del licenziamento con ordine di reintegrazione, l’opzione da parte del lavoratore per l’indennità di quindici mensilità prevista dall’art. 18 st. lav. non è sufficiente a produrre l’estinzione del rapporto. A tal fine è necessario che l’indennità sia corrisposta.

 

(Omissis)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza non definitiva del 20.3.2003 il Tribunale di Pordenone, in parziale accoglimento delle domande proposte da T.A., dichiarava l’inefficacia del licenziamento intimatole dalla Savio Macchine Tessili spa, alle cui dipendenze la stessa aveva lavorato, con la qualifica di impiegata, e con successiva sentenza definitiva del 17.7.2003, condannava la società resistente al risarcimento del danno in favore della T., commisurandolo alla retribuzione globale di fatto dal licenziamento all’esercizio dell’opzione di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5, nella misura di Euro 112.517,13.

Proposta impugnazione da entrambe le parti, la Corte di appello di Trieste, con sentenza in data 22.9/28.10.2005, confermava la sentenza di prime cure, rigettando sia l’appello principale che quello incidentale.

Osservava in sintesi la Corte che correttamente il primo Giudice aveva ritenuto inefficace il licenziamento impugnato per violazione dei requisiti della comunicazione concernente i criteri di scelta dei lavoratori posti in mobilità, essendo rimasti del tutto incerti i criteri applicati con riferimento al complesso dei dipendenti dell’azienda, e non solo di quelli interessati al licenziamento; che correttamente non era stato computata nell’aliunde perceptum l’indennità di mobilità, in quanto erogata da un soggetto terzo, che era l’unico legittimato al recupero; che ben a ragione si era riconosciuto in favore della ricorrente il diritto a percepire le retribuzioni maturate sino alla data del pagamento dell’indennità sostitutiva, trattandosi di obbligazione che viene ad estinguersi solo con il pagamento e non con la semplice dichiarazione di scelta;

che, infine, aveva carattere di novità la censura relativa al riconoscimento, ai fini della quantificazione del danno, dell’indennità per ferie non godute, trattandosi di questione che era rimasta incontroversa in primo grado.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la Savio Macchine Tessili spa con quattro motivi.

Resiste con controricorso T.A.. Entrambe le parti hanno presentato memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, e art. 5 comma 3, nonchè insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. In particolare osserva che, con la trasmissione delle schede informative relative a tutto il personale posto in mobilità, aveva ottemperato a quanto prescritto dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, e che non si poneva alcun problema in punto di difficoltà o insufficienza della relativa valutazione comparativa e che, comunque, erano state dimostrate le ragioni tecniche ed organizzative che avevano portato alla soppressione dello specifico posto coperto dalla lavoratrice, la quale, peraltro, non era legittimata a rilevare meri vizi formali di una comunicazione rivolta a soggetti terzi (quali le organizzazioni sindacali e l’Agenzia dell’impiego), ben potendo richiedere, in sede giudiziaria, la verifica della correttezza della scelta operata dall’azienda.

Con il secondo motivo la ricorrente prospetta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 1225 c.c., della L. n. 300 del 1979, art. 18, della L. n. 223 del 1991, art. 7, nonchè insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, rilevando che la corte di merito ha erroneamente ritenuto che l’indennità di mobilità, pur avendo la funzione di integrare la mancanza di redditi del lavoratore, non può essere computata nell’aliunde perceptum.

Con il terzo motivo si censura la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5, osservando come la stessa abbia riconosciuto le retribuzioni maturate sino all’effettivo pagamento dell’indennità sostitutiva, pur non ravvisandosi ragioni logiche e giuridiche per ritenere che, nonostante l’esercizio dell’opzione, il rapporto di lavoro debba continuare perdurare sino all’adempimento dell’obbligazione. Con l’ultimo motivo, infine, svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 116, 416, 420 e 437 c.p.p., nonchè alla L. n. 300 del 1970, art. 1, e all’art. 2099 c.c., la ricorrente si duole che, ai fini della determinazione del risarcimento del danno conseguente all’illegittimità del licenziamento, si sia tenuto conto dell’indennità per ferie non godute, pur non potendosi ricomprendere nella garanzia retributiva connessa alla continuità giuridica del rapporto quei compensi che presuppongono l’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa e facendosi erronea applicazione del principio di non contestazione, che risulta riferibile solo a circostanze di fatto, e non anche di diritto.

Il primo motivo è infondato.

La sentenza impugnata ha, in realtà, fatto corretta applicazione, con riferimento ai requisiti della comunicazione prevista dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, del principio per cui il contenuto precettivo della norma, che prevede l’obbligo di indicare puntualmente le modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, al fine di consentire agli stessi, alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi di controllare la correttezza dell’operazione e la rispondenza agli accordi raggiunti, non può ritenersi soddisfatto dalla mera trasmissione dell’elenco dei lavoratori licenziati e dalla comunicazione dei criteri di scelta concordati con le organizzazioni sindacali, per la ineludibile necessità di verificare se tutti i dipendenti in possesso dei requisiti previsti siano stati inseriti nella categoria da scrutinare e, quindi, nel caso in cui il numero dei dipendenti sia superiore ai previsti licenziamenti, se siano stati correttamente applicati i criteri di valutazione comparativa per l’individuazione dei dipendenti da licenziare, in modo da consentire al singolo dipendente, anche quando il criterio prescelto sia unico, di percepire con chiarezza perchè lui, e non altri, sia stato destinatario del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo (cfr. ad es. Cass. n. 15377/2004; Cass. n. 16805/2003).

La valutazione operata dal Giudice di merito circa l’inadeguatezza, sotto questo profilo, della comunicazione, al fine di verificare l’infungibilità della posizione della resistente rispetto a quella degli altri dipendenti interessati dalla procedura di ristrutturazione, resta esente, pertanto, da alcuna censura.

Non senza osservare, per il resto, che costituisce ius receptum che la violazione degli oneri di procedura per la dichiarazione di mobilità previsti dalla L. n. 223 del 1991 (ivi compresa la comunicazione agli uffici del lavoro e alle organizzazioni sindacali di cui all’art. 4, comma 9) ha effetti lesivi anche dei diritti individuali, essendo le relative prescrizioni finalizzate alla tutela non solo degli interessi pubblici e collettivi, ma pure di quelli individuali dei lavoratori coinvolti (cfr SU n. 302/2000; SU n. 419/2000; e successivamente ad es. Cass. n. 5942/2004; Cass. n. 880/2005; Cass. n. 13 876/2007).

Anche il secondo motivo è infondato.

Per come, infatti, ha reiteratamente precisato questa Suprema Corte, le indennità previdenziali non possono essere detratte, a titolo di aliunde perceptum, dal risarcimento dovuto al lavoratore a seguito del licenziamento illegittimo intimato dal datore di lavoro, deponendo in tal senso sia la diversità dei titoli di erogazione che dei soggetti obbligati (cfr. ad es. Cass. n. 18687/2006; Cass. n. 18137/2006; Cass. n. 2928/2005; Cass. n. 3904/2002).

E tale conclusioni valgono anche per l’indennità di mobilità, che costituisce una indennità (sostitutiva del trattamento) di disoccupazione, erogata per finalità di assistenza e di solidarietà sociale da un ente pubblico, che è l’unico legittimato a chiederla in restituzione, e che non può essere vanificata sulla base del distinto piano del rapporto di lavoro, consentendo al datore di lavoro, nonostante l’annullamento dell’atto di recesso, di avvantaggiarsi, quantomeno indirettamente, di misure di sostegno poste a tutela del lavoratore.

Fermo restando – per come giova ribadire – il potere per l’ente pubblico, una volta accertata l’illegittimità del recesso, di valutare le conseguenze derivanti dal venir meno dei presupposti dell’erogazione, ma sulla base di una valutazione legale che si differenzia nettamente dal diritto di credito del datore di lavoro per eventuali fatti riduttivi della sua obbligazione risarcitoria, non potendosi riconoscere alcuna interferenza fra tale obbligo risarcitorio, il vantaggio patrimoniale conseguito dal lavoratore per effetto dell’erogazione pubblica e l’esclusiva legittimazione dell’ente erogatore in relazione agli eventuali, connessi obblighi restitutori. Non meritevole di accoglimento è pure il terzo motivo.

Secondo, infatti, l’unanime giurisprudenza di questa Suprema Corte, l’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro, che grava sul datore di lavoro, a norma dell’art. 18 SL, si estingue soltanto con il pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione, prescelta dal lavoratore illegittimamente licenziato, e non già con la semplice dichiarazione di opzione proveniente da quest’ultimo. Ne consegue la permanenza dell’obbligazione risarcitoria del datore di lavoro, posto che il cit. art. 18, comma, attribuisce al lavoratore la facoltà di optare per l’indennità sostitutiva, fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto dal comma 4, e che il diritto a far valere, quale titolo esecutivo, la sentenza che, nel disporre la reintegrazione, attribuisce a titolo risarcitorio le retribuzioni globali di fatto dalla data del licenziamento a quella della riassunzione, non vien meno per effetto della dichiarazione di opzione, sino a quando il datore di lavoro non abbia eseguito la suddetta prestazione (v. per tutte ad es. Cass. n. 12514/2003).

Non ignora certo questa Corte come permangano nella giurisprudenza di merito, nonostante il costante indirizzo seguito dai Giudici di legittimità, orientamenti interpretativi di segno contrario, volti ad affermare l’estinzione del rapporto di lavoro per effetto della mera comunicazione dell’opzione per l’indennità sostitutiva, in considerazione della rilevanza che assumerebbe la manifestazione di volontà del lavoratore intesa alla risoluzione del rapporto.

Ma trascurando di considerare, se non altro, che il diritto al risarcimento del danno è conseguenza preminente dell’accertamento di illegittimità del recesso (e solo, in via mediata, dell’ordine di reintegrazione) e che lo stesso è destinato a trovare un limite solo nella ricostituzione effettiva del rapporto di lavoro o in un diverso comportamento ritenuto per volontà di legge egualmente satisfattivo, quale appunto l’adempimento dell’obbligazione indennitaria per cui ha fatto opzione il lavoratore, in coerenza, con il carattere di effettività che, nel nostro ordinamento, rivestono i rimedi contro il licenziamenti illegittimi.

E, comunque, e sotto altro aspetto, che non vi è ragione alcuna per ritenere che un adeguato bilanciamento degli interessi impliciti nella configurazione dell’indennità risarcitoria come obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore porti ad escludere che il legislatore non abbia inteso assegnare rilevanza, con il permanere dell’obbligazione risarcitoria, all’interesse di quest’ultimo all’esatto adempimento della prestazione prescelta, tenuto conto che la facoltà di scelta è, in ogni caso, volta a garantire, anche se in forme alternative, la tutela del rapporto di lavoro, secondo le esigenze proprie del regime di diritto speciale nel quale si inserisce.

A maggior ragione se si conviene che la norma in esame, a prescindere dalla sua riconduzione negli schemi del diritto comune, introduce in termini sostanziali una nuova ipotesi di estinzione legale del rapporto di lavoro, che (analogamente a quanto avviene per l’ipotesi prevista nel secondo periodo dello stesso comma 5), coerentemente si articola in una sequenza procedimentale complessa, fondata su una dichiarazione impegnativa del lavoratore e sul pagamento dell’indennizzo legale da parte del datore di lavoro, fermo restando l’interinale permanenza dell’obbligo risarcitorio.

Infondato è, infine, anche l’ultimo motivo.

Con accertamento di fatto correttamente motivato, e pertanto in questa sede insindacabile, la corte di merito ha, infatti, rilevato che i conteggi posti a base della domanda non solo non erano stati contestati, in primo grado, dalla società resistente, ma anzi erano stati dalla stessa condivisi, per cui le censure svolte solo in grado di appello, in quanto nuove, non potevano essere prese in considerazione dal Giudice dell’impugnazione, non rappresentando un tema di decisione controverso.

Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al rimborso delle spese che liquida in Euro 30,00, oltre ad Euro 2.000,00, per onorario, spese generali, IVA e CPA.

Redazione