Corte di Cassazione Civile Sezione lavoro 13/12/2000 n. 15688; Pres. Ianniruberto, G., Est. Mazzarella, G.

Redazione 13/12/00
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Ai fini della responsabilità ex art. 2087 cod. civ. il datore di lavoro, che abbia acquisito conoscenza della malattia del lavoratore, suscettibile, con valutazione prognostica, di probabile od anche solo possibile aggravamento e perciò tendente all’inidoneità alle mansioni affidategli, è legittimato al licenziamento solo previo accertamento di fatto, insindacabile in sede di giudizio di legittimità, ove congruamente e logicamente motivato, della sopraggiunta incompatibilità del dipendente alle mansioni e quindi dell’impossibilità di mantenimento del posto di lavoro in relazione al pregiudizio, da valutarsi in termini di certezza o anche di rilevante probabilità di aggravamento delle sue condizioni di salute per effetto dell’attività lavorativa in concreto svolta.

(omissis)

FATTO

Con sentenza n.00457/96 resa il 7 giugno 1996 il Pretore di Bergamo, in accoglimento della domanda proposta da E. S. contro la (omissis), di cui era dipendente in qualità di autista ovvero di secondo uomo secondo un turno 5+2 per trasporto valori a bordo di automezzi, riconosceva il diritto dello S. al risarcimento del danno biologico o morale per aggravamento delle condizioni di salute del dipendente, già affetto da spondilopatia lombosacrale, scoliosi, iperlordosi e spondilolispesi, cervico artrosi con discopatia, che liquidava in lire 36.000.000, tenuto conto del concorso di colpa di esso dipendente.

Il Tribunale di Bergamo rigettava l’appello proposto dallo S. in punto riconoscimento del concorso di colpa, e, in accoglimento dell’appello incidentale proposto dalla (omissis), rigettava la domanda di risarcimento del danno proposta dallo S.; spese del doppio grado a carico dello S. stesso.

Osservava il Tribunale in sintesi che: un precedente giudizio promosso dallo S. per il mutamento di mansioni (da autista a mansioni di piantonamento) si era concluso con sentenza di cessazione della materia del contendere, essendosi dato atto tra le parti che l’intervenuta modifica del posto di guida dell’automezzo condotto dallo S. (dotazione di un sedile ortopedico) aveva interrotto dal maggio 1992 l’aggravamento delle condizioni di salute del dipendente; pertanto lo S. non aveva diritto ad ottenere il ristoro per un danno che non si era verificato; quanto al denunziato peggioramento delle condizioni di salute per il periodo pregresso, andava premesso che lo S. aveva rappresentato alla società le proprie difficoltà solo nel 1988, richiedendo nel successivo marzo 1989 di essere adibito a mansioni meno usuranti; che il servizio di medicina del lavoro degli OO.RR. di Bergamo aveva comunicato nel giugno 1989 al medico curante del dipendente l’opportunità di mansioni che evitassero protratti stazionamenti in postura statiche o lunghe permanenze in automezzi, che nell’ottobre 1990 lo stesso servizio aveva consigliato per lo S. mansioni comportanti alternanze di posture e di evitare permanenza dello stesso su automezzi, che una relazione sempre di quel servizio del luglio 1991 aveva attestato la idoneità del lavoratore all’attività di autista, pur rappresentando che il sovrappeso corporeo e posture incongrue costituivano fattori aggravanti dello stato di salute; che nell’ottobre 1991 la Commissione Sanitaria della Regione aveva riconosciuto allo S. una invalidità del 50% elevata al 60% per le patologie riscontrate; che nel dicembre 1991 la società aveva comunicato l’adibizione dello S. a trasporto documenti con autovettura descrivendo nello specifico la mansione; che la società aveva offerto allo S. il servizio di piantonamento fisso, accettato nel corso del 1991 dallo S. tramite il legale, ma in concreto mai adottato; che, infine, nel giudizio definito con sentenza di cessazione della materia del contendere era stato adottato, in accordo tra le parti, la predisposizione del sedile ortopedico; in sostanza, il mutamento di mansioni non era stato effettuato prima solo per la opposizione dello S. al mutamento del turno (6+2, in luogo di quello 5+2), perché a soggetto con delle patologie era sconsigliato il turno di lavoro in postura prolungata eretta e con giubbotto antiproiettile, così come era sconsigliato il turno di piantonamento in guardiola di prolungata posizione a sedere; da tali circostanze non era emerso alcun inadempimento della società né prima né dopo il 1992 neppure sotto il profilo della predisposizione delle cautele necessarie ed opportune ai sensi dell’invocato art.2087 c.c..

Ricorre per cassazione S. E. affidando ad unico motivo di censura il richiesto annullamento della sentenza.

La (omissis) si è costituita con controricorso.

S. E. ha depositato memoria illustrativa.

DIRITTO

Con l’unico motivo di ricorso S. E. denunzia violazione dell’art.2087 c.c. e contraddittoria e omessa motivazione su un punto decisivo della controversia: pacifici i dati di fatti come accertati dal giudice di appello, ne erano errate tuttavia conclusione e lettura; la tesi del Tribunale secondo la quale il datore di lavoro poteva adibire il lavoratore, con suo danno e aggravamento fisico, a mansioni per le quali fosse divenuto fisicamente incompatibile, stravolgeva letteralmente il contenuto e la portata dell’art.2087 c.c.; in realtà, in tale ipotesi il datore di lavoro era legittimato al licenziamento proprio perché non poteva continuare ad arrecare danno al lavoratore in violazione all’art.2087 c.c.; contraddittoria con la tesi sopra indicata era poi l’affermazione secondo cui la società andava esente da colpa, avendo usato la diligenza e gli accorgimenti necessari per evitare il danno; sta di fatto che la società poteva ritenersi esente da colpa solo se fosse stata inconsapevole delle precarie condizioni fisiche del dipendente, non potendosi sostenere che il datore di lavoro aveva fatto il possibile per evitare il danno e contemporaneamente permettere il perpertrarsi della conosciuta situazione dannosa per il lavoratore; peraltro, la società ben avrebbe potuto, esercitando correttamente il diritto di cui all’art.2103 c.c., modificare le mansioni dello S. senza il preventivo accordo del lavoratore; conlusivamente, era in contrasto con l’art.2087 c.c., e non esonerativo della relativa responsabilità, continuare a mantenere il dipendente nella medesima conosciuta situazione lesiva.

Il ricorso è infondato.

Una corretta lettura dell’art. 2087 c.c. ("L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro"), con una precisa individuazione dei limiti interni della responsabilità, certamente non di natura oggettiva, facente capo all’imprenditore, esclude, nell’applicazione della norma al caso in esame, che possa condividersi la tesi sostenuta dall’odierno ricorrente. Secondo quest’ultima sussisterebbe l’obbligo di licenziamento, per effetto della comunicazione circa la precarietà delle condizioni di salute del dipendente ogniqualvolta, in concreto, non sia possibile definirsi nell’ambito aziendale uno spazio lavorativo di sicura ininfluenza sulla malattia (nella ipotesi, spondilopatia lombosacrale, scoliosi, iperlordosi e spondilolispesi, cervico artrosi con discopatia).

Il Tribunale è pervenuto al rigetto della domanda di risarcimento dei danni morali, biologici e patrimoniali anche per il periodo anteriore al 1992 – per il periodo successivo, intervenuta l’adozione di un sedile ortopedico, per ammissione dello stesso S. non si sarebbero avuti aggravamenti di sorta – accertando, in sintesi, che la (omissis) aveva avuto un comportamento coerente con il disposto dell’art.2087 c.c.: la società, avuto conoscenza delle condizioni fisiche del dipendente, ed acquisite dalle strutture sanitarie le possibili incidenze dell’attività lavorativa, cui esso era adibito, sull’evoluzione della malattia, si era preoccupata, pur non avendo nella propria disponibilità mansioni comunque in qualche modo non influenti su di essa, di adibire lo S. ad attività meno usurante (trasporto di documenti a bordo di autovetture in luogo di trasporto valori), ovvero di offrirgli mansioni di piantonamento – queste ultime comunque anche esse sconsigliate dalle strutture sanitarie e, peraltro, rifiutate dal lavoratore per ragioni economiche e di comodità – ovvero, infine, di concordare con il dipendente l’adozione di un sedile ortopedico, risultato, poi, risolutivo del problema.

A tale accertamento, pacificamente in fatto, e come tale insindacabile e, in concreto, neanche sindacato, in questa sede (nello specifico non risulta censurato l’accertamento del rifiuto del dipendente alle offerte di mansioni di piantonamento), lo S. contrappone, come si è detto, un vero e proprio obbligo della società di provvedere al licenziamento del dipendente. Tale obbligo, quale estrema ratio per la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del prestatore di lavoro di cui alla norma codicistica, deriverebbe dalle concorrenti argomentazioni della pacifica sussistenza dell’aggravamento riconosciuto allo S. (invalidità dal 50 al 60%) nel periodo dal 1988 (data di comunicazione delle proprie condizioni di salute) al 1992 (data dell’adozione del sedile ortopedico), e della verificata insussistenza di una ricollocazione del dipendente nell’ambito aziendale su posizioni lavorative di sicura ininfluenza sulla malattia.

Dette argomentazioni non appaiono concludenti.

Quanto alla prima, e premesso che "il carattere contrattuale dell’illecito e l’operatività della presunzione di colpa stabilita dall’art.1218 cod.civ. non escludono che la responsabilità ai sensi dell’art.2087 cod.civ. (che non configura un caso di responsabilità oggettiva) in tanto possa essere affermata in quanto sussista una lesione del bene tutelato che derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento, imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche", sicché "la verificazione del sinistro non è di per sé sola sufficiente per far scattare a carico dell’imprenditore l’onere probatorio di aver adottato ogni sorta di misura idonea ad evitare l’evento, la prova liberatoria dell’imprenditore presupponendo la dimostrazione, da parte del lavoratore, sia del danno subito che del rapporto di causalità tra la mancata adozione di determinate misure di sicurezza (specifiche o generiche) e il danno predetto" (tra le tante, Cass. 07/08/1998, n.07792), nel caso di specie il rapporto di causalità risulta solo presupposto, apoditticamente dedotto e ipotizzato nelle argomentazioni sviluppate in ricorso, e tuttavia mai, neanche in minima parte, provato o comunque fondato su circostanze concordanti e inequivoche, e ciò tanto più in quanto la sentenza impugnata, nell’accertare l’assenza di un qualsiasi inadempimento ascrivibile alla società "neppure sotto il profilo della predisposizione di tutte le cautele necessarie ed opportune ai sensi dell’art.2087 c.c." esclude, implicitamente, ma essenzialmente, proprio la riconducibilità dell’aggravamento della malattia alla nocività delle modalità di espletamento della prestazione, come predisposte e richieste dalla società nella gestione ed organizzazione aziendale, considerata anche la preesistenza, non certo irrilevante, della medesima patologia alla stessa assunzione al lavoro dello S. Il ricorso in questa sede, cioè, avrebbe dovuto coinvolgere preliminarmente la statuizione sulla insussistenza del nesso di causalità tra aggravamento della malattia e prestazione lavorativa nei termini richiesti dalla società perché potesse poi essere censurata la medesima decisione sulla esclusione della responsabilità per colpa della società ai sensi dell’art.2087 c.c..

Quanto al secondo profilo di censura, non vi è dubbio che esso, così come riportato, è certamente insufficiente.

È facile rilevare, infatti, che una tesi così radicale ed estrema porterebbe il datore di lavoro alla, per molti versi ineluttabile, responsabilità per danni tra illegittimità del licenziamento (insussistenza del giustificato motivo) o aggravamento delle condizioni di salute del dipendente. Ogni ipotesi di malattia, anche la più banale, portata a conoscenza del datore di lavoro, porrebbe il dilemma di cui sopra, quasi un imperativo, quanto meno, di sospensione della prestazione lavorativa in attesa della evoluzione della malattia o degli accertamenti (liberatori) da parte delle strutture sanitarie all’uopo previste; e tanto non è nella ratio e nello spirito dell’art.2087 c.c.. Questa Corte ha già avuto modo più volte di osservare che l’art.2087 c.c. è norma di specifica regolamentazione del rapporto di lavoro nelle sue espressioni più diverse, che vanno dalle reciproche obbligazioni legali e contrattuali, assunte dalle parti, a quelle, a queste ultime, derivanti per effetto della tutela di rango costituzionale dei vari interessi individuali e collettivi, quali quelli della solidarietà economica e sociale (art.2), del lavoro, e della promozione di quanto necessario a tutelarne l’effettivo diritto (art.4), della salute del lavoratore non soltanto come singolo cittadino ma anche come componente di una collettività organizzata ad essa conseguentemente interessata (art.32), della esistenza libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia (art.36), della libera iniziativa economica, purché nei limiti dell’utilità sociale e nel rispetto della sicurezza, della libertà e della dignità umana (art.41).

Dunque la interpretazione della citata disposizione codicistica non può prescindere dal necessario contemperamento dei singoli interessi sopra indicati, sicché ogni lettura, che si ponga in un’unica ed esclusiva direzione, finisce con il costituire un inaccettabile strumento di indirizzo parziale, e quindi di iniquità e di ingiustizia.

Ed è qui che la tesi del ricorrente, nell’applicazione al caso concreto, trova il suo punto di maggiore debolezza, allorché pretende, in via di principio inderogabile ed esclusivo, che il diritto alla salute del lavoratore debba essere selezionato nell’indifferenza generale di ogni altro interesse pur di rango e livello costituzionali.

Ed allora, non vi è dubbio che, a fronte di una malattia – peraltro, nel caso di specie, di sicura ed irreversibile ingravescenza – non debba potersi valutare, ai fini dell’adozione di un provvedimento quanto mai pregiudizievole, come quello del licenziamento – e tra gli altri – ad esempio, l’interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro nella sua variegata incidenza sui diritti alla esistenza libera e dignitosa di sé stesso e della sua famiglia, alla propria dignità morale, a proporsi quale momento attivo della convivenza sociale. In tal senso va integrato il principio di questa Corte (Cass.20 marzo 1992, n.03517), che, per quanto compatibile in relazione alle diverse ipotesi esaminate, trova decisa conferma nelle osservazioni di cui sopra, circa la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro che omette il licenziamento del dipendente divenuto inidoneo alle mansioni di assegnazione prima del superamento del periodo di comporto per assenze determinate dall’aggravamento dello stato di salute a causa della continuazione dell’attività lavorativa. La scelta datoriale di esercitare legittimamente il potere di licenziamento ai sensi dell’art.1464 c.c. è pur sempre limitata al rispetto dei principi di cui agli artt.1 e 3 della legge n.604 del 1966 [2], sicché (in tal senso, la dottrina) il ricorso ad ipotesi di estinzione del rapporto di lavoro aldilà dei limiti generali previsti dal sistema vincolistico svuoterebbe il sistema stesso del principio informatore di esso.

In conclusione, ai fini della responsabilità ex art.2087 c.c., il datore di lavoro, che ha acquisito conoscenza di malattia del lavoratore alle proprie dipendenze, suscettibile, con valutazione prognostica, di possibile o anche probabile ingravescenza oltre i limiti della naturale evoluzione negativa di essa, e, per ciò, tendente alla inidoneità (c.d. in pectore) alle mansioni affidategli, per effetto delle modalità di espletamento della propria attività, è legittimato al licenziamento solo previo accertamento di fatto, insindacabile in questa sede ove congruamente e logicamente motivato, della sopraggiunta incompatibilità dell’esigenza del dipendente al mantenimento del posto di lavoro in relazione al pregiudizio, da valutarsi quest’ultimo in termini di certezza o anche di rilevante probabilità di aggravamento delle sue condizioni di salute per effetto dell’attività lavorativa in concreto svolta.

Il ricorso, pertanto, va rigettato; sussistono i giusti motivi per dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La CORTE rigetta il ricorso; dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

 

 

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