Corte di Cassazione Civile Sezione lavoro 12/10/2006 n. 21826

Redazione 12/10/06
Scarica PDF Stampa

La lunga durata del demansionamento può essere ritenuta sufficiente a provare l’esistenza di un danno professionale in base all’art. 2103 cod. civ. Sussiste un danno da dequalificazione professionale, stante la impossibilità per il lavoratore per lungo lasso di tempo “di esprimere e realizzare il bagaglio di conoscenze teoriche e pratiche acquisite sino ad allora venendo addirittura ad essere lasciato in uno stato di quasi totale inattività”.

 

(omissis)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Amoroso Franco, già dipendente delle Ferrovie Adriatico Appennino – *** – con la qualifica di capo ufficio, transitato a far data dall’ 1 gennaio 1986 alla ******à Panoramica, affidataria del servizio di pubblico trasporto in concessione dell’esercizio della Filovia di Chieti, con assegnazione al secondo livello, adiva il Giudice del lavoro con ricorso dell’agosto 1991, lamentando il demansionamento subito presso la nuova sede.

Invero, assumeva di aver precedentemente rivestito, presso la ***, mansioni comportanti coordinamento di attività ed uffici, con autonomia di iniziativa, gestione del personale, di cui aveva coordinato e guidato l’attività sulla base delle sole direttive del Direttore d’esercizio, e comprendenti altresì la cura dei libri paga ed i rapporti con gli enti previdenziali; mentre, presso il nuovo ente, era stato adibito a mansioni consistenti nello svolgimento di sporadici e generici compiti di impiegato esecutivo.

Chiedeva, pertanto, la reintegra nelle mansioni equivalenti al a quelle della propria qualifica oltre al risarcimento del danno alla professionalità e del danno biologico. Il Giudice di primo grado, ritenendo superfluo istruire la causa mediante le richieste prove testimoniali, pronunciava sentenza sfavorevole all’*******, rigettandone la domanda sul rilievo della pacifica inapplicabilità dell’art. 2103 c.c. al rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri ed in considerazione dell’ampio ius variandi riconosciuto dal R.D. 148/31 in tale ambito all’azienda.

Avverso tale decisione proponeva appello l’*******, con articolate argomentazioni, insistendo per l’accoglimento della domanda.

La società appellata resisteva, sostenendo, tra l’altro, la correttezza della decisione del primo Giudice, che, conformemente ad una consolidata giurisprudenza, aveva ben considerato come l’art. 3 R.D. 148/31, prevedendo la mera facoltà di passare gli agenti di ruolo da uno ad altro servizio o ramo di servizio con la stessa qualifica o con altra dello stesso grado, e non stabilendo un obbligo in tal senso, creava una disciplina del tutto autonoma rispetto a quella generale dettata per il rapporto di lavoro privatistico dall’art 2103 c.c.

Con sentenza del 9 ottobre-11 novembre 2003, l’adito Tribunale di Chieti, ritenuto che l’eccezione -sollevata dalla società – di improcedibilità del gravame, per mancato rispetto del termine concesso ai fini del rinnovo della notifica dell’appello, era da ritenersi infondata; ritenuto, inoltre, che la espletata prova testimoniale aveva dato piena dimostrazione del lamentato demansionamento e che dalla normativa di riferimento non era ricavabile la esistenza di un principio contrario a quello generale, c.d. di corrispondenza, sancito dall’art. 2103 c.c., che avrebbe consentito di privare il dipendente delle mansioni corrispondenti alla qualifica attribuita, accoglieva parzialmente il gravame. Per l’effetto ordinava alla società Panoramica di assegnare al ricorrente mansioni adeguate alla qualifica di capo ufficio, disattendeva la domanda di risarcimento del danno biologico, mancando il necessario supporto probatorio, mentre condannava la società al risarcimento del danno per dequalificazione professionale, determinato equitativamente nella misura di Euro 25.000,00.

Per la cassazione di tale pronuncia ricorre La Panoramica s.n.c. con tre motivi. Resiste ************** con controricorso.

Entrambe le parti hanno presentato memorie ex art. 378 c.p.c.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, articolato in due censure, la ricorrente società, denunciando violazione ed erronea o mancata applicazione degli artt. 132, 118 disp. att., 291, 435 e 329 c.p.c. in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c. per violazione di legge e vizio di motivazione, ripropone, in primo luogo, in questa sede, i “rilievi di improcedibilità” sollevati dinanzi al Giudice d’appello.

Le sollevate questioni sono prive di consistenza.

La prima di esse, infatti, si fonda sulla considerazione che, concesso all’udienza di discussione del 18 gennaio 2001 termine all’appellante fino al 2 febbraio 2002 per il rinnovo della notifica dell’appello, con rinvio al 4 aprile 2001 quale udienza di discussione, tale termine non sarebbe poi stato rispettato.

Sennonché, come già evidenziato e spiegato dallo stesso Giudice d’appello, essendo all’evidenza erronea la data del 4 aprile 2001 – incompatibile con il termine fissato per la notifica al 2 febbraio 2002 -, a seguito di richiesta del procuratore dell’Amoroso depositata in data 21/3/2001, la data di fissazione dell’udienza veniva rettificata in quella del 4/4/2002, entro la quale seguiva regolare notifica. Del resto neppure può nutrirsi dubbio sulla legittimità dell’autorizzazione al rinnovo della notifica disposta all’udienza del 18/1/01, alla stregua di quella consolidata giurisprudenza che, nel processo del lavoro, individua nel deposito del ricorso il momento di instaurazione del rapporto giuridico processuale, con la conseguenza che, ove avvenuto nel termine di legge, esso vale ad impedire ogni decadenza ed inammissibilità del gravame, con possibilità, pertanto, per l’appellante di ottenere dal giudice un temine per rinnovare la notifica.

Questa Corte, infatti, ha ripetutamente affermato che, nelle controversie soggette al rito del lavoro, la proposizione dell’appello si perfeziona, ai sensi dell’art. 435 cod. proc. civ., con il deposito, nei termini previsti dalla legge, del ricorso nella cancelleria del giudice “ad quem”, che impedisce ogni decadenza dall’impugnazione, con la conseguenza che ogni eventuale vizio o inesistenza – giuridica o di fatto – della notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza di discussione non si comunica all’impugnazione (ormai perfezionatasi), ma impone al giudice che rilevi il vizio di indicarlo all’appellante ex art. 421 primo comma, cod. proc. civ. e di assegnare allo stesso, previa fissazione di un’altra udienza di discussione, un termine – necessariamente perentorio – per provvedere a notificare il ricorso e il  decreto (ex plurimis, Cass.17 luglio 2003 n. 11211).

Con una seconda censura, svolta nell’ambito del medesimo motivo, la ricorrente società sostiene che la sentenza d’appello aveva altresì mancato di prendere in esame, senza motivazione alcuna, un’ulteriore sollevata eccezione, secondo cui sarebbe passata in giudicato – stante la mancanza di ogni contestazione – l’affermazione presente nella sentenza di primo grado riguardante l’inapplicabilità al settore degli autoferrotranvieri dell’art. 2103 c.c., sia con riferimento alla promozione automatica che con riferimento al diritto allo svolgimento di mansioni corrispondenti alla qualifica rivestita.

Osserva il Collegio che dalla lettura della sentenza impugnata emerge che alla base della decisione é collocato il convincimento della inesistenza, nella disciplina speciale, di una norma che legittimi il demansionamento, specie se si consideri, con riferimento al caso di specie, l’assenza di emissione di provvedimenti attributivi di mansioni inferiore e la mancanza di allegazione di specifiche esigenze aziendali a supporto di un eventuale provvedimento giustificativo del cambiamento.

Pertanto, essendo l’iter argomentativo sviluppato tutto in relazione alla disciplina speciale, la censura in oggetto appare non pertinente alla suddetta motivazione e come tale deve essere disattesa.

Con il secondo motivo, anch’esso articolato in due censure, la ricorrente, denunciando violazione, erronea e/o mancata applicazione degli artt. 132 e 118 disp. att. c.p.c., 2103, 2112, 1362 e ss. e 36 c.c., 437 c.p.c. e delle Leggi 24 5.1952 n. 628 e 22.9.1960 n. 1054, ed ancora degli artt. 1322 e 1343 c.c., 414, 416 420 e 244 c.p.c. in relazione all’art. 360 n.3 e n.5 cp.c. per violazione di legge e vizio di motivazione, sostiene che il Giudice d’appello non avrebbe debitamente interpretato l’ “atto d’obbligo”, contenente il contratto a favore di terzi imposto dal Comune di Chieti in dipendenza dell’attribuzione della concessione dell’esercizio filoviario per la città, richiamato a fondamento delle proprie pretese dallo stessoAmoroso nell’atto introduttivo del giudizio.

Dalla lettura e dalla interpretazione del predetto “atto d’obbligo” doveva trarsi la conclusione -sempre ad avviso della ricorrente – che la società La Panoramica aveva assunto nei confronti dell’******* soltanto l’impegno di mantenere il trattamento economico goduto ed i diritti economici parimenti acquisiti, ma non aveva assunto alcun obbligo in materia di mansioni di fatto, in quanto la società assuntrice della concessione disponeva di una propria organizzazione, già esistente e funzionante.

La censura è infondata.

In realtà, il Tribunale ha preso in considerazione la normativa applicabile sostenendo che dalla lettura delle norme di riferimento non era ricavabile l’esistenza di un principio contrario a quello più generale di corrispondenza tra mansioni e qualifica.

Anzi, al contrario, di quanto affermato dalla ricorrente, il Giudice d’appello ha tenuto espressamente ad evidenziare come la problematica in questione non potesse esser affrontata se non previo esame delle norme che “nella materia di interesse” avevano “appunto attinenza con lo ius variandi e il demansionamento”. Pertanto, dopo avere rimarcato che l’art. 3 del R.D. prevedeva un’ampia facoltà di passare gli agenti da un servizio ad un altro, oltre alla possibilità di cambiamento di qualifica, peraltro secondo una certa procedura; che l’art 62 del T.U. stabiliva poi, seppure con riferimento alle aziende con meno di 26 dipendenti, il principio di temporaneità di adibizione a mansioni inferiori; che, ancora, l’art. 26 R.U., per i casi di cessione di linea et similia, fissava il criterio di normale mantenimento del personale con un trattamento non inferiore a quello precedentemente goduto, espressamente prevedendo l’assegnazione del personale a qualifiche inferiori per necessità di esoneri e con le autorizzazioni dell’autorità governativa, ha coerentemente concluso che dalla lettura e dalla ratio di tali norme, non era ricavabile assolutamente la esistenza di un principio contrario a quello generale c.d. di corrispondenza sancito dall’art. 2103 c.c., che desse ampia facoltà al datore di lavoro di applicare il lavoratore liberamente a mansioni inferiori con il solo obbligo di salvaguardia del trattamento economico, legittimando in tal modo il demansionamento; ciò, peraltro, “in difetto di emissione di alcun provvedimento attributivo di mansioni inferiori e mancando finanche l’allegazione di specifiche esigenze aziendali a supporto di un eventuale provvedimento giustificativo del cambiamento”.

In questa prospettiva risulta evidente che il Giudice a quo abbia ritenuto, in maniera implicita, ma non per questo poco chiara, che qualsiasi pattuizione concernente diritti ed obblighi delle parti dovesse essere interpretata tenendo conto dei principi ricavabili dalla richiamata normativa; sicché era da escludersi, in mancanza di qualsivoglia motivazione, la legittimità di qualsiasi forma di demansionamento.

Palesemente infondata è poi la seconda censura articolata nel mezzo d’impugnazione in esame, con cui si denuncia la mancata elencazione delle mansioni che l’******* avrebbe svolto, risultando, al contrario dette mansioni specificate nella impugnata decisione, laddove si afferma che, a differenza di quanto espletato nell’ambito della FAA – in cui svolgeva compiti di capo del personale, occupandosi, tra l’altro, dei “problemi inerenti ai turni, ferie e quant’altro …”, curando anche “i rapporti con Ministero, Regioni, Sindacati, ecc”, e fungendo, inoltre, da “braccio destro del direttore d’esercizio”-, a seguito del passaggio alla nuova azienda l’******* non si era più occupato di alcuno dei compiti che prima svolgeva, “ed anzi era stato del tutto estraniato dalle problematiche del personale e quant’altro in precedenza gli competeva, finendo con l’occuparsi esclusivamente di qualche pratica di incidente o delle divise, rimanendo sostanzialmente inattivo“.

Con il terzo motivo, la ricorrente, denunciando violazione ed erronea applicazione degli artt. 132 c.p.c, 118 disp. att. c.p.c., 2697, 1223 e 1226 c.c. in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., si duole dell’avvenuto riconoscimento del danno da demansionamento nonostante la mancanza di prova e, comunque, della sua erronea quantificazione.

Anche tale motivo non può essere condiviso.

Invero, Tribunale di Chieti ha risolto il caso di specie traendo dalla accertata esistenza di un demansionamento, ritenuto del tutto immotivato e ingiusto, conseguenze coerenti con le deduzioni delle parti e le risultanze istruttorie. In particolare, il Giudice di appello ha:

– da un lato, escluso la esistenza nella fattispecie degli elementi identificativi dell’ipotesi di danno biologico e la possibilità di supplire al mancato assolvimento dei relativi oneri probatori tramite consulenza tecnica;

– dall’altro, accertato in concreto la esistenza di un danno da dequalificazione professionale, stante la impossibilità per il lavoratore per lungo lasso di tempo “di esprimere e realizzare il bagaglio di conoscenze teoriche e pratiche acquisite sino ad allora venendo addirittura ad essere lasciato in uno stato di quasi totale inattività“;

– di conseguenza, ha compiuto in via equitativa la “valutazione per tale danno per dequalificazione”, dando pieno conto del proprio convincimento. A tal proposito, il Tribunale ha ritenuto opportuno evidenziare che l’entità del danno, quantificato nella misura di “Euro 25.000”, era giustificato dal lungo tempo trascorso di inattività (a partire dal gennaio 1986), ponendo del tutto correttamente, a base di tale valutazione equitativa, il dato temporale incidente in maniera determinante sulle negative conseguenze della accertata dequalificazione. In questo contesto, la proposta censura – basata, essenzialmente, sul preteso mancato assolvimento di oneri probatori – non si mostra fondata, specie se si considera che da essa non è dato ricavare elementi utili per poter eventualmente affrontare in questa sede la questione, senza entrare in una valutazione di merito non consentita al giudice di legittimità.

Il ricorso va, pertanto, rigettato.

La problematica affrontata induce a compensare, tra le parti, le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese di questo giudizio.

 

Redazione