Corte di Cassazione Civile Sezione lavoro 1/12/2010 n. 24366

Redazione 01/12/10
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Svolgimento del processo
La Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 30.6 – 6.11.2006, accogliendo parzialmente l’impugnazione proposta da R. B. nei confronti della Unicredit Banca spa, avverso la pronuncia di prime cure che aveva rigettato le domande da lui svolte afferenti all’impugnazione del licenziamento disciplinare irrogatogli, al diritto alla reintegrazione ex art. 102 bis disp. att. c.p.p. e alle retribuzioni non corrispostegli durante il periodo di allontanamento temporaneo dal servizio, accolse, nei limiti della prescrizione decennale, quest’ultima.

A sostegno del decisum, per ciò che ancora qui specificamente rileva, la Corte territoriale ritenne quanto segue:

– andava ribadita l’intervenuta prescrizione quinquennale dell’azione d’annullamento del licenziamento, non impedita nel suo esercizio dalla pendenza del procedimento penale per i fatti oggetto della contestazione fondante la giusta causa;

– poichè la prescrizione rendeva incontestabile la validità del negozio unilaterale, restavano travolte tutte le conseguenze connesse alla sua annullabilità, sia di natura reale che obbligatoria, siccome discendenti, in base all’art. 18 Statuto dei lavoratori e secondo l’impostazione del petitum, dalla invalidità del recesso;

– in base alla lettera di licenziamento, quest’ultimo era stato fondato sulla ritenuta partecipazione del lavoratore ad un furto e sulle risultanze di una perquisizione domiciliare a suo carico, mentre il "permanere dello stato di detenzione" era stato richiamato "ad abbondanza" e non aveva assunto quindi una rilevanza esclusiva ai fini del recesso, come richiesto dall’art. 102 disp. att. c.p.p., la cui applicabilità andava dunque esclusa;

– la domanda inerente alla restituzione delle retribuzioni non corrisposte per il periodo di allontanamento dal servizio era di risarcimento de danno per inadempimento contrattuale, come tale assoggettata al termine prescrizionale ordinario;

– il diritto alla conservazione della retribuzione per il periodo di allontanamento dal servizio era riconosciuto dall’art. 34 del CCNL di categoria;

– tale diritto doveva ritenersi ricompreso fra quelli espressamente richiamati dalla lettera del 14.2.2003, con cui il lavoratore aveva dichiarato di interrompere "…la prescrizione di ogni e qualsiasi diritto di qualsivoglia natura, comunque connesso a e/o derivante dal rapporto di lavoro intercorso con codesto Istituto", poichè, "sia pure con espressione sintetica e tuttavia perfettamente intelligibile dal destinatario", aveva "inteso richiedere l’adempimento delle obbligazioni scaturenti dal richiamato rapporto di lavoro e così costituire in mora il debitore", con la conseguenza che l’atto risultava idoneo ad interrompere la prescrizione ex art. 2943 c.c., u.c.;

– tenuto conto dell’epoca dell’allontanamento cautelare, la prescrizione non aveva travolto soltanto il diritto al rimborso della retribuzione relativa al periodo 14.2.1993 – 18.3.1993.

Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, R. B. ha proposto ricorso per cassazione fondato su tre motivi.

L’intimata Unicredit Banca spa ha resistito con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale fondato su tre motivi e illustrato con memoria.

Motivi della decisione
1. I ricorsi vanno preliminarmente riuniti, siccome proposti avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).

2. Con il primo motivo il ricorrente principale denuncia violazione di legge (art. 2935 c.c.), deducendo che, poichè la prescrizione comincia a decorrere dal momento in cui il diritto può essere fatto valere, solo all’esito del processo penale, nel caso di che trattasi, avrebbe potuto essere azionato il diritto alla reintegrazione ed al risarcimento del danno.

Con il secondo motivo il ricorrente principale denuncia vizio di motivazione, assumendo che la Corte territoriale aveva omesso di motivare sul diritto al risarcimento del danno conseguente al licenziamento, stante l’autonomia della domanda risarcitoria rispetto a quella di reintegra, ritenuta prescritta.

Con il terzo motivo il ricorrente principale denuncia violazione di legge (art. 102 bis disp. att. c.p.p.), assumendo che tale norma non prevede, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, che la carcerazione costituisca motivo esclusivo del licenziamento.

3. Condizione necessaria e sufficiente perchè la prescrizione decorra (ai sensi dell’art. 2935 c.c.) è che il titolare del diritto, pur potendo esercitarlo, si astenga da tale esercizio, rilevando peraltro a tal fine solo la possibilità legale e non influendo per contro, salve le eccezioni stabilite dalla legge, l’impossibilità di fatto in cui il detto titolare venga a trovarsi (cfr, ex plurimis, Cass., n. 6209/1999). Conseguentemente, come già rilevato da questa Corte, in tema di impugnativa di licenziamento, una volta che, a mezzo di atto stragiudiziale, sia stata evitata la decadenza prevista dalla L. n. 604 del 1966, art. 6, la successiva azione giudiziale di annullamento del licenziamento illegittimo deve essere in ogni caso proposta nel termine quinquennale di prescrizione di cui all’art. 1442 c.c., che decorre dal giorno di ricezione dell’atto di intimazione, a nulla rilevando che in seguito alla successiva assoluzione da imputazioni penali sia emersa l’erroneità del presupposto alla base del provvedimento del datore di lavoro, atteso che l’errore rilevante ai fini del decorso della prescrizione dalla sua scoperta è quello in cui è incorsa la parte che esercita l’azione di annullamento e non quello della controparte (cfr, Cass., n. 2787/2003).

In applicazione di tali condivisi principi il primo motivo non può trovare accoglimento.

4. Secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte, in tema di formulazione dei motivi del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 ed impugnati per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, poichè secondo l’art. 366 bis c.p.c. (applicabile ratione temporis nella presente causa), nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, la relativa censura deve contenere, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr, ex plurimis, Cass., SU, n. 20603/2007).

Il secondo motivo del ricorso principale è affatto privo del suddetto momento di sintesi e ciò ne determina quindi l’inammissibilità. 5. L’art. 102 bis disp. att. c.p.p. (introdotto dalla L. n. 332 del 1995, art. 24), sotto la rubrica "Reintegrazione nel posto di lavoro perduto per ingiusta detenzione", così recita: "Chiunque sia stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ai sensi dell’art. 285 del codice ovvero a quella degli arresti domiciliari ai sensi dell’art. 284 del codice e sia stato per ciò stesso licenziato dal posto di lavoro che occupava prima dell’applicazione della misura, ha diritto di essere reintegrato nel posto di lavoro medesimo qualora venga pronunciata in suo favore sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero venga disposto provvedimento di archiviazione".

La giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di affermare il principio secondo cui tale norma, nel prevedere che chi sia stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ovvero a quella degli arresti domiciliari ha diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro qualora venga pronunciata in suo favore sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero venga disposto provvedimento di archiviazione, presuppone che il licenziamento sia stato determinato dallo stretto rapporto di causalità con la detenzione, e cioè che il recesso del datore di lavoro sia fondato esclusivamente sul fattore obiettivo dello status custodiae del prestatore d’opera, cosicchè la citata disposizione non può dare titolo alla reintegrazione nel posto di lavoro qualora il licenziamento risulti giustificato in via autonoma sulla base di elementi ulteriori rispetto alla mera assenza del lavoratore determinata da provvedimento cautelare (cfr, Cass., nn. 4935/2003; 15070/2008). Il Collegio condivide tale principio, siccome fondato sull’inequivoco dato testuale della norma, laddove prevede che il licenziamento sia stato irrogato "per ciò stesso", ossia proprio in conseguenza della misura della custodia cautelare ovvero degli arresti domiciliari. Pertanto, avendo la Corte territoriale rilevato – con motivazione coerente e priva di vizi logici – che le ragioni del licenziamento non risiedevano nella misura restrittiva della libertà personale (richiamata solo "per abbondanza") e fatto conseguente applicazione del suddetto principio di diritto, anche il terzo motivo del ricorso principale va disatteso.

6. Con il primo motivo la ricorrente incidentale denuncia violazione di legge (artt. 1219 e 2943 c.c.), nonchè vizio di motivazione, rilevando che la semplice dichiarazione di voler interrompere la prescrizione dei diritti derivanti dal rapporto di lavoro, contenuta nella missiva avversaria del 14.2.2003, non poteva essere ritenuto valido atto di costituzione in mora, non essendo stati specificati quali diritti sì intendeva far valere, nè contenendo la lettera una esplicita intimazione o richiesta di adempimento.

Con il secondo motivo la ricorrente incidentale denuncia error in procedendo (per violazione dell’art. 345 c.p.c.), nonchè vizio di motivazione, deducendo che, a fronte dell’originaria domanda risarcitoria svolta dal lavoratore con il ricorso introduttivo di primo grado sul presupposto della sua assoluzione dalle imputazioni ascrittegli, in sede d’appello era stata modificata la causa petendi, invocando, così come poi statuito dalla Corte territoriale, il pagamento delle retribuzioni afferenti al periodo di sospensione dal servizio in applicazione dell’art. 34 del CCNL. Con il terzo motivo, denunciando violazione di legge (artt. 1218, 1453 e 2099 c.c. e art. 2948 c.c., n. 4), nonchè vizio di motivazione, la ricorrente incidentale osserva che, vertendosi in tema di pagamento delle retribuzioni per il periodo della sospensione, le stesse dovevano essere dichiarate dovute non a titolo di risarcimento del danno, bensì come adempimento della prestazione, con conseguente applicabilità del termine di prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 2948 c.c., n. 4, anzichè di quella ordinaria decennale, ancorchè dette retribuzioni fossero state richieste a titolo risarcitorio.

7. Il secondo e il terzo motivo, logicamente prioritari e da esaminarsi congiuntamente, siccome fra loro connessi, devono ritenersi fondati.

7.1 Come questa Corte ha potuto direttamente accertare ex actis, essendo stato denunciato error in procedendo, con il ricorso di primo grado il lavoratore aveva dedotto (punto 22) che l’assoluzione dai reati ascrittigli rivelava la sua estraneità ai fatti addebitatigli disciplinarmente e quindi l’insussistenza della giusta causa di licenziamento; aveva proseguito (punto 23) deducendo che "anche l’allontanamento dal servizio dal 20 novembre 1992 al 18 marzo 1993 si pone conseguentemente quale fonte di responsabilità contrattuale, dalla quale sorge il diritto del lavoratore ad essere risarcito della mancata percezione, in conseguenza dell’allontanamento stesso, di tutte le erogazioni pecuniarie che avrebbe altrimenti riscosso, restando assoggettato tale diritto all’ordinaria prescrizione decennale"; l’inequivoca natura risarcitoria delle pretesa azionata veniva ulteriormente rafforzata dal richiamo al precedente di questa Corte n. 10978/1991, secondo cui l’illegittimo allontanamento del lavoratore dal posto di lavoro, deciso dalla parte datoriale in scorretto esercizio dei propri poteri disciplinari, è fonte di responsabilità contrattuale (anzichè extracontrattuale) e, quindi, del diritto del lavoratore ad essere risarcito della mancata percezione, in conseguenza dell’allontanamento, di tutte le erogazioni pecuniarie che avrebbe altrimenti riscosso, restando tale diritto assoggettato all’ordinaria prescrizione decennale, anzichè a quella quinquennale ex art. 2948 c.c., n. 4, che è applicabile, invece, all’azione tendente all’adempimento di "ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi".

Solo con l’atto d’appello (quinto motivo), dopo essersi doluto per avere il primo giudice ritenuto la prescrizione del diritto (che, invece, avrebbe dovuto essere ritenuta interrotta dalla raccomandata del 14.2.2003), l’odierno ricorrente incidentale ha evidenziato che l’art. 34 CCNL di categoria, richiamato dalla parte datoriale nella comunicazione di sospensione, prevedeva che il lavoratore allontanato dal servizio per motivi cautelari, in attesa dell’esito del giudizio penale, "conserva, per il periodo relativo, il diritto all’intero trattamento economico ed il periodo stesso viene considerato di servizio attivo per ogni altro effetto previsto dal presente contratto di lavoro"; da cui, com’è evidente, discende che il diritto alle retribuzioni sussiste a prescindere dalla fondatezza o meno delle ragioni per le quali sia stata disposta la sospensione cautelare e non è quindi ricollegabile, a titolo risarcitorio, all’eventuale illegittimità dell’allontanamento dal servizio.

7.2 La Corte territoriale, pur affermando che la domanda svolta era di risarcimento del danno per inadempimento contrattuale (come tale assoggettata al termine prescrizionale ordinario), l’ha poi accolta sulla base della suddetta previsione pattizia, riconoscendo quindi la spettanza non già del risarcimento da illegittima applicazione della sospensione cautelare, ma del diritto alle retribuzioni, siccome stabilito dalle partizioni collettive, per il periodo di durata di detta sospensione.

In tal modo, tuttavia, la Corte territoriale ha condannato la parte datoriale al pagamento delle retribuzioni non già a titolo risarcitorio (così come erroneamente indicato nel dispositivo), ma a titolo di adempimento contrattuale, in forza cioè di una causa petendi (e, quindi, di una domanda) diversa da quella originariamente formulata e, come tale, inammissibile per violazione del disposto dell’art. 345 c.p.c. e art. 437 c.p.c., comma 2.

I motivi all’esame vanno quindi accolti, con assorbimento del primo.

8. In definitiva il ricorso principale va rigettato, mentre merita accoglimento quello incidentale.

Per l’effetto la sentenza impugnata va cassata, senza rinvio, in relazione alle censure accolte, avendo già la Corte territoriale escluso, per le ragioni suesposte, l’accoglibilità delle pretese risarcitorie fondate sulla asserita annullabilità del licenziamento per invalidità del medesimo; con il che, conclusivamente, resta confermata l’integrale reiezione delle domande svolte dall’originario ricorrente e, per l’effetto, nella sua portata decisoria, la sentenza di primo grado.

La peculiarità della situazione fattuale consiglia la compensazione delle spese di lite afferenti all’intero processo.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; rigetta quello principale; accoglie il secondo e il terzo motivo del ricorso incidentale, dichiarando assorbito il primo; cassa senza rinvio la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte, con ciò restando integralmente confermata la sentenza di primo grado; dichiara compensate fra le parti le spese dell’intero processo.

Redazione