Corte di Cassazione Civile Sezione lavoro 10/11/2008 n. 26920; Pres. Senese, S., Est. Stile, P.

Redazione 10/11/08
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Deve essere annullato il licenziamento intimato per mancata esecuzione, da parte del lavoratore, di un trasferimento illegittimo,in base all’art. 1460 cod. civ.

 

(Omissis)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato in data 19 gennaio 2002 G.A. proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma, che aveva rigettato la domanda dallo stesso proposta nei confronti della ******************à S.p.A., avente ad oggetto l’impugnativa del trasferimento, disposto dalla società datrice di lavoro con lettera del 27 gennaio 1998, dalla dipendenza di Roma presso la filiale di Milano e del conseguente licenziamento intimatogli a seguito del rifiuto di prendere servizio presso la nuova sede.

Deduceva, a sostegno dell’appello, la genericità delle motivazioni poste a fondamento del trasferimento e, comunque, l’insussistenza di ragioni tecnico e produttive e la conseguente illegittimità del successivo provvedimento espulsivo. Chiedeva, pertanto, in riforma della impugnata sentenza, l’accoglimento delle conclusioni già formulate in primo grado, insistendo, quindi, nella declaratoria di nullità, inefficacia ed illegittimità del trasferimento disposto dalla *****************à nei propri confronti, con diritto a fornire le sue prestazioni lavorative presso l’unità produttiva di provenienza sita in (OMISSIS) e conseguente declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato con lettera dell’11 settembre 1998; per l’effetto chiedeva ancora l’accertamento del proprio diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro in precedenza occupato presso la filiale di provenienza ai sensi dell’art. 18 Statuto dei lavoratori, con condanna della società appellata al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella della sentenza e, comunque, in misura minima non inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto, da determinarsi sulla base dello stipendio mensile pari a L. 11.119.726 (pari ad Euro 5794,86); dato atto della volontà manifestata di avvalersi della facoltà di opzione dallo stesso esercitata chiedeva, infine, la condanna della ******à appellata, in luogo della reintegrazione, a versare la relativa indennità sostitutiva, pari a L. 166.795.890 (equivalente ad Euro 86.142,89), oltre accessori.

Si costituiva la Hachette *****************à S.p.A., già *****************à S.p.A. resistendo all’appello di cui chiedeva il rigetto.

Con sentenza depositata il 3 novembre 2004, l’adita Corte d’appello di Roma, ritenuto, sulla base del materiale probatorio acquisito, privo di sufficiente giustificazione il disposto trasferimento, da considerarsi, come tale, illegittimo, e, per converso, ritenuta la legittimità del comportamento di autotutela posto in essere dal G. che si era rifiutato di aderirvi, in riforma della impugnata decisione, condannava – stante la opzione esercitata dal G. – la società datrice di lavoro al pagamento in suo favore della indennità sostitutiva della reintegrazione nella misura di quindici mensilità, pari alla somma non contestata di Euro 86.142,89, oltre ad accessori, a far tempo dalla data della opzione.

Per la cassazione di tale pronuncia ricorre la Hachette *****************à S.p.A., con due motivi.

Resiste G.A. con controricoro, proponendo a sua volta ricorso incidentale sulla base di un unico motivo.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va preliminarmente disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, trattandosi di impugnazioni avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).

Con il proposto ricorso, articolato in due motivi, la Hachette *****************à sostiene che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente interpretato le risultanze probatorie sia orali che documentali, con particolare riferimento alla testimonianza resa dal teste dott. (OMISSIS); che le dichiarazioni di quest’ultimo, travisate dai Giudici d’appello, avrebbero confermato l’effettività delle ragioni organizzative poste a base del trasferimento; che la Corte avrebbe errato nel valutare il contenuto dei documenti in atti, in particolar modo nel leggere l’organigramma aziendale predisposto in occasione del processo di riorganizzazione; che, alla stregua di tali valutazioni, risulterebbe omessa, insufficiente e contraddittoria la motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5; che la condotta osservata dal G., ossia il diniego di adeguarsi al provvedimento di trasferimento, non avrebbe sostanziato un atto di autotutela legittimato dall’art. 1460 c.c., norma erroneamente interpretata e falsamente applicata dal Giudice d’appello.

Il ricorso, pur valutato nelle sue diverse articolazioni, non merita accoglimento. E’ noto che il controllo di legittimità sulle pronunzie dei Giudici del merito demandato alla Corte di Cassazione non è configurato, nell’ordinamento vigente, come un terzo grado del giudizio, essendo preordinato all’annullamento di quelle pronunzie, nelle quali siano ravvisabili specifici vizi – di violazione delle norme sulla giurisdizione o la competenza, e/o di violazione delle leggi sostanziali o processuali, e/o d’omessa od insufficiente o contraddittoria motivazione – che le parti espressamente abbiano denunziato, con puntuale riferimento ad una o più delle ipotesi previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1 e 5, nelle forme e con i contenuti prescritti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4.

Con specifico riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, che prevede il vizio di motivazione, denunciato con il primo motivo della sentenza impugnata, va rammentato che – come questa Corte ha avuto più volte modo di affermare (cfr., in particolare, tra le tante, Cass. sez. un. 27 dicembre 1997 n. 130459 – esso non può consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello auspicato dalle parti, perchè spetta solo al Giudice del merito di individuare le fonti del proprio convincimento ed all’uopo valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvi i casi tassativamente previsti dall’ordinamento. Ne consegue che il Giudice di merito è libero di formarsi il proprio convincimento utilizzando gli elementi probatori che ritiene rilevanti per la decisione, senza necessità di prendere in considerazione tutte le risultanze processuali e di confutare ogni argomentazione prospettata dalle parti, essendo sufficiente che indichi gli elementi sui quali fonda il suo convincimento, dovendosi ritenere per implicito disattesi tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene specificamente non menzionati, siano incompatibili con la decisione adottata.

In questa prospettiva, pertanto, il controllo del Giudice di legittimità sulla motivazione del Giudice del merito non deve tradursi in un riesame del fatto o in una ripetizione del giudizio di fatto, non tendendo il giudizio di cassazione a stabilire se gli elementi di prova confermino, in modo sufficiente, l’esistenza dei fatti posti a fondamento della decisione.

Alla stregua dei principi richiamati, la motivazione fornita dalla Corte d’Appello nella impugnata decisione risulta ampia e tutt’altro che incoerente, fondata com’è su di una dettagliata disamina delle deposizioni testimoniali e su considerazioni del tutto condivisibili in ordine alla loro attendibilità, saggiata conducendo il raffronto tra esse e la rappresentazione dei fatti come risultante dai documenti acquisiti in atti.

Più in dettaglio, la Corte territoriale, nella decisione gravata, ha provveduto a valutare l’organigramma predisposto dall’azienda in occasione del dedotto processo di riorganizzazione, prendendo atto del suo contenuto, secondo cui il G. avrebbe dovuto continuare ad operare presso la sede di (OMISSIS), mentre per tale signora C. era stata prevista l’assegnazione del ruolo attribuito alla ricorrente presso il settore iniziative speciali.

Ha valutato, altresì, in maniera adeguata e pertinente l’anomalia rappresentata dal trasferimento del G. adottato per occupare un posto di lavoro, affidato in precedenza a tale Ca., che risultava essere stato soppresso.

La strumentante di tale condotta è stata ritenuta dalla Corte d’Appello sufficientemente provata e come tale idonea a dare fondamento alla tesi del lavoratore.

In ordine alla ulteriore argomentazione, la cui valutazione sarebbe stata omessa dal Giudice d’appello, sostanzialmente rappresentata dal non avere l’esponente proposto reclamo avverso l’ordinanza di rigetto del ricorso ex art. 700 c.p.c., essa certamente non costituisce “prova”, nè diretta nè presuntiva, della legittimità del trasferimento.

Con riguardo alla falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, denunciata con il secondo motivo di ricorso, va puntualizzato che la norma erroneamente interpretata sarebbe da individuare nell’art. 1460 c.c., in attuazione della quale il G. avrebbe rifiutato di adeguarsi al trasferimento disposto dalla società, reputando il provvedimento illegittimo.

A tale conclusione la difesa della ricorrente perviene affermando che – rigettata la richiesta formulata dal G. in via d’urgenza di sospendere gli effetti del trasferimento – la condotta di “autotutela” sarebbe stata del tutto ingiustificata ed in contrasto con una decisione giudiziale.

Il motivo è privo di fondamento, giacchè il rigetto, in via d’urgenza, di detta richiesta non esprime un accertamento della legittimità del provvedimento di trasferimento, che potrà aversi solo all’esito della vicenda processuale; e non vi è dubbio – come chiarito da questa Corte in analoghe occasioni – che il provvedimento del datore di lavoro di trasferimento di sede di un lavoratore che non sia adeguatamente giustificato, a norma dell’art. 2103 c.c., è affetto da nullità ed integra un inadempimento parziale dei contratto di lavoro, con la conseguenza che la mancata ottemperanza allo stesso provvedimento da parte del lavoratore trova giustificazione sia quale attuazione di una eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.), sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti; non si può invece ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali, che imponga l’ottemperanza agli stessi fino a un contrario accertamento in giudizio (ex plurimis, Cass. 20 dicembre 2002 n. 18209; Cass. 08.02 1999, n. 1074).

Il principio enunciato, dal quale il Collegio non ha ragione di discostarsi, è certamente applicabile al caso di specie, tenuto conto che il trasferimento ad altra sede del G. è stato accertato prima e dichiarato poi illegittimo.

Non v’è dubbio, pertanto, che tale illegittimità – rientrante nel novero delle nullità – rende altrettanto illegittimo il licenziamento, intimato a titolo di giusta causa, non sussistendo, nel rifiuto di raggiungere la nuova sede da parte del lavoratore, alcun comportamento sanzionatole.

Fondato è, invece, il ricorso incidentale.

Con esso il G., denunciando omessa pronuncia, in relazione all’art. 112 c.p.c., (art. 360 c.p.c., n. 4), sostiene che, avendo – come è pacifico e come diligentemente trascritto nel ricorso in esame – espresso, nel corso del giudizio di impugnazione del licenziamento, la volontà di optare per l’attribuzione dell’indennità pari a quindici mensilità della retribuzione in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro (L. n. 300, art. 18, comma 5, nel testo di cui alla L. n. 108 del 1990, art. 1), deve ritenersi non corretto l’operato del Giudice a quo, che non ha cumulato tale indennità con il risarcimento del danno maturato a favore dei lavoratori, per la perdita delle retribuzioni, fino al momento dell’esercizio dell’opzione.

Invero, questa Corte ha precisato che il diritto del lavoratore ad optare per l’indennità integrativa deriva dalla stessa illegittimità del licenziamento e contemporaneamente dal diritto alla reintegrazione (Cass. 16 ottobre 1998 n. 10283, 8 aprile 2000 n. 4472 e 12 giugno 2000 n. 8015) e che, quindi, il lavoratore può limitarsi inizialmente a chiedere in giudizio tale indennità in sostituzione della domanda di reintegrazione (sentenze n. 10283/1998 e 8015/2000), così come può esercitare la stessa scelta nel corso del giudizio, fermo restando il diritto al risarcimento del danno ex art. 18, comma 4, (sentenza n. 4472/2000). La possibilità di esercizio dell’opzione nel corso del giudizio non è in effetti contestata dall’attuale ricorrente, la quale però sostiene che questo esercizio implica la rinuncia alla reintegrazione fin dall’inizio, con conseguente perdita del diritto al risarcimento del danno per le retribuzioni perse. Questa tesi non può essere condivisa, perchè proprio la disposizione di legge chiarisce che l’esercizio dell’opzione non fa venire meno il diritto al risarcimento dei danni verificatisi fino al momento in cui l’interessato, optando per l’indennità sostitutiva, ha rinunciato alla reintegrazione (Cass. 26 luglio 2005 n. 15898).

In conclusione, in accoglimento del ricorso incidentale, l’impugnata sentenza va cassata con rinvio alla stessa Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che provvederà alla determinazione del risarcimento del danno alla luce del principio di diritto appena esposto. La stessa Corte provvedere anche alla regolamentazione delle spese di questo giudizio.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale ed accoglie l’incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

 

Redazione