Corte di Cassazione Civile sez. VI 27/7/2010 n. 17576

Redazione 27/07/10
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Svolgimento del processo.
Il cittadino turco ********** ebbe a proporre, nel gennaio 2008, domanda di protezione internazionale, sul rilievo di essere sottoposto a persecuzioni nel proprio paese in quanto appartenente ad un movimento politico della etnia curda (il D.T.P.) inviso al Governo turco. La Commissione Territoriale di Milano respinse le richieste e l’interessato propose reclamo, ai sensi delle norme di cui al d.lgs. 25/2008, alla Corte di Milano. L’adita Corte con sentenza depositata il 15.2.2010 rigettò il reclamo osservando:
che permanevano le contraddizioni e le genericità che avevano indotto il primo giudice a negare fondamento alla proposta opposizione, che neanche credibile era la spiegazione di siffatte contraddizioni, fondata su una pretesa reticenza a dire il vero di fronte ad un qualsivoglia tribunale, che comunque non potevano ritenersi fondate le ipotesi di persecuzione politica dedotte dal S. con riguardo ad un generico atteggiamento repressivo della Turchia verso i movimenti curdi, che la produzione di un ordine di arresto in contumacia motivato con la propaganda in favore di una organizzazione terroristica comprovava, semmai, la repressione in atto da parte dei militari verso un movimento di natura terroristica (repressione analoga adottata da paesi europei, come la Spagna, nei confronti di movimenti utilizzanti la lotta armata).
Per la cassazione di tale sentenza, notificata dall’Ufficio il 24.2.2010, il S. ha depositato ricorso ai sensi dell’art. 35 comma 14 del d.lgs. 25/2008 in data 26.3.2010 ed il Presidente con decreto 10.5.2010 ha fissato adunanza in c.d.c. al giorno 2.7.2010 disponendo le notifiche di legge. Non si sono costituite le parti intimate.
Nel ricorso il ricorrente ********** con i primi due motivi denunzia violazione degli artt. 3 del d.lgs. 251/2007 e 8 decreto_legislativo_25_2008 per avere la Corte di merito omesso le necessarie indagini sulla situazione nel Paese d’origine del richiedente protezione ed anzi presunto una situazione di inesistenza, in Turchia, di alcun pericolo per gli esponenti di opinioni di minoranza etnico-politica; con il terzo motivo si denunzia poi la sommarietà e illogicità della motivazione per la quale la pendenza di una misura cautelare a carico del S. per propaganda a favore di organizzazione terroristica costituirebbe di per sé la certezza della inesistenza del fumus persecutionis.
Il P.G. presso la Corte di Cassazione con note del 3.6.2010 ha osservato che il richiamo operato dall’art. 35 comma 14 dell’applicabile d. lgs. 25/2008 all’art. 375 c.p.c. non poteva non contenere richiamo all’art. 380 bis c.p.c., che una diversa opinione avrebbe comportato la reviviscenza nel testo abrogato dell’art. 375 c.p.c. con la necessità di richiedere le conclusioni scritte del P.G.

Osserva
A criterio del Collegio la disamina del merito della questione di protezione internazionale sottoposta dal ricorso deve essere preceduta, per la novità della questione e per la espressa sollecitazione a pronunziare in proposito venuta dal requirente P.G. con la nota acquisita agli atti, da una ricostruzione del processo di cassazione in materia di protezione internazionale attraverso un coordinamento ed una riconduzione "a sistema" della laconica disposizione di cui all’art. 35 comma 14 del d.lgs. 25 del 2008 (con le non decisive integrazioni apportate prima dall’art. 1 comma 1 lett. M del d.lgs. 159/2008 e poi dall’art. 1 comma 13 lett. C della legge 94/2009).
Il testo risultante da tal ultimo intervento (in parte qua correttivo di un refuso della prima stesura e di una genericità della seconda), delinea quindi una proposizione del ricorso mediante deposito, a cura dell’interessato, presso la cancelleria della Cassazione nel termine perentorio di trenta giorni correnti dalla notifica, a cura della cancelleria della Corte di Appello, della sentenza che ha deciso sul reclamo (art. 35 commi 11, 12, 13). L’instaurazione del contraddittorio in sede di legittimità avviene dopo che il Presidente ha fissato udienza camerale con proprio decreto e mediante la notifica alle parti (il Ministero dell’Interno presso la Commissione competente, il P.G. presso la Corte emittente la sentenza ed il P.G. presso la Cassazione). La Corte di Cassazione, quindi, si pronunzia in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c.
Null’altro di espresso viene formulato nella disposizione istitutiva del rito, sì che spetta a questa Corte, nel puntuale esercizio della nomofilachia, individuare, nell’imposto quadro di un procedimento camerale di legittimità, norme di applicazione indefettibile e norme di converso incompatibili, avendo come canoni inderogabili di interpretazione tanto la peculiarità del rito, nel quale il contraddittorio si attiva ex officio, quanto la esigenza di celerità della definizione delle posizioni di protezione internazionale a rilevanza costituzionale.
Ebbene, i punti salienti del procedimento delineabile alla stregua del richiamo esplicito di cui alla disposizione in discorso sono quelli che appresso si espongono:
1. il ricorso non riceve né espresse né implicite deroghe nella previsione normativa in disamina, ad esso attagliandosi pienamente il disposto degli artt. 360, 360 bis, 365, 366 del codice di procedura civile;
2. appare evidente il contenuto limitato e circoscritto del richiamo al procedimento camerale di cui all’art. 375 c.p.c. come rito celere e scarno, quale era ed è disciplinato nella sua fase conclusiva dalla norma del codice processuale (procedimento che si svolge in camera di consiglio, senza pubblicità, senza relazione orale del consigliere relatore, con interventi orali delle parti e del P.G. e che trova la sua definizione nell’ordinanza del Collegio); il richiamo non può essere inteso come effettuato nei confronti del testo dell’art. 375 c.p.c. vigente prima della novella del 2006 (nulla autorizzando a ritenere che il legislatore del 2008 abbia avuto una qualche ragione per richiamare in vita norme abrogate), ma semplicemente come frutto di scelta del rito camerale e del suo esito decisorio, in vista delle esigenze di celerità del procedimento introdotto in modo atipico;
3. altrettanto evidente è la radicale incompatibilità del rito richiamato dall’art. 35 comma 14 con la procedura di designazione di relatore e deposito della relazione ex art. 380 bis c.p.c.: la sopra richiamata introduzione della lite con mero deposito del ricorso e la attivazione del contraddittorio ex officio con la notifica del ricorso e del pedissequo decreto di fissazione della adunanza in c.d.c. rende impensabile tanto la previa acquisizione di una relazione (impensabile perché non può essere estesa e comunicata prima della instaurazione del contraddittorio, a pena di vedere stravolta la sua funzione quale delineata da questa Corte sin dalla pronunzia n. 9094 del 2007) quanto la sua acquisizione a contraddittorio instaurato (la celerità dichiarata del rito impedendo la fissazione di una udienza al solo fine di acquisire un eventuale controricorso e di differire la trattazione, previa nuova fissazione, all’esito del deposito della relazione); del resto la relazione ex art. 380 bis c.p.c. copre una area di definizioni del ricorso per nulla esaustiva, ben essendo possibile, per i casi di ravvisata insussistenza delle sue condizioni, disporre la trattazione in pubblica udienza (sede che, sintomaticamente, l’art. 35 comma 14 esclude in radice);
4. la struttura della introduzione della lite, la inesistenza di un impulso di parte a fini acceleratorii (essendo il termine breve di trenta giorni provocato da una notificazione ex officio), la necessaria notificazione alle "tre parti" della sentenza, inducono poi a ritenere incompatibile con il rito la impugnazione incidentale, essendo dette parti obbligate a proporre le proprie doglianze con autonomo ricorso nel termine di trenta giorni dalla notificazione nei loro riguardi della sentenza (e restando impedita la eventualità di diversi esiti delle impugnazioni dalla necessaria loro riunione ex art. 335 c.p.c.);
5. la parte non ricorrente e destinataria della comunicazione del ricorso e del decreto presidenziale di fissazione di udienza, parte alla quale spetta quindi la sola formulazione di difese, ha a sua disposizione lo strumento del controricorso che verrà depositato nel termine di venti giorni dalla notificazione a cura della cancelleria della Corte del predetto decreto di fissazione: non dovrà, quindi, in accordo speculare con il disposto dell’art. 35 comma 14 procedersi ad alcuna sua notificazione a cura dell’interessato alla parte ricorrente né sarà onere della cancelleria provvedere a tale notificazione, restando onere del ricorrente, debitamente avvisato dal decreto presidenziale di fissazione di udienza, della eventualità che le parti intimate depositino difese delle quali ben potrà quindi prendere diretta visione con accesso alla cancelleria della Corte di Cassazione; tutte le parti costituite, poi, ben potranno avvalersi del diritto di depositare memorie ex art. 378 c.p.c. ed il P.G. presso la Corte di Cassazione formulerà le sue argomentate richieste in sede di discussione orale.
In tal guisa delineato il quadro del procedimento di legittimità per le controversie in materia di protezione internazionale, può quindi procedersi alla disamina delle censure mosse dal ricorrente ********** alla impugnata sentenza, censure che meritano piena condivisione.
Coglie certamente nel segno la censura rivolta alla sommaria ed inappropriata valutazione "assorbente" delle insufficienze e delle contraddizioni delle allegazioni probatorie del richiedente la protezione internazionale: la Corte di merito, condividendo la valutazione del primo giudice, ha esaminato la domanda di protezione sotto l’ottica prevalente della credibilità soggettiva del richiedente, totalmente dimenticando di adempiere ai doveri di ampia indagine, di completa acquisizione documentale anche officiosa e di complessiva valutazione anche della situazione reale del Paese di provenienza, doveri imposti dall’art. 8 comma 3 del d.lgs. n. 25 del 2008 (emanato in attuazione della direttiva 2005/85/CE), norma alla stregua della quale ciascuna domanda deve essere esaminata alla luce di informazioni aggiornate sulla situazione del Paese di origine del richiedente asilo, informazioni che la Commissione Nazionale fornisce agli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su impugnazioni di decisioni negative. La Corte di Milano ha del tutto ignorato tale norma così come il chiaro, ed alla sua decisione anteriore, indirizzo delle Sezioni Unite di questa Corte in materia per il quale anche il giudice deve svolgere un ruolo attivo nella istruzione della domanda di protezione internazionale, del tutto prescindendo dal principio dispositivo proprio del giudizio civile e dalle relative preclusioni, e di contro fondandolo sulla possibilità di acquisizione officiosa di informazioni e documentazione necessarie (in tal senso S.U. n. 27310 del 2008).
Di qui la sommarietà della valutazione e l’erroneità del principale canone valutativo assunto dalla Corte di merito a base della sua decisione, quello della credibilità soggettiva del richiedente asilo e della incombenza sul medesimo dell’onere di provare la sussistenza del fumus persecutionis a suo danno nel Paese di origine, là dove la condizione di persecuzione di opinioni, abitudini, pratiche doveva essere appurata sulla base di informazioni esterne ed oggettive afferenti il Paese di origine e solo la riferibilità specifica al richiedente poteva essere fondata anche su elementi di valutazione personali (quali, tra i tanti, la credibilità delle affermazioni dell’interessato).
Ma vi è di più.
Come rettamente denunciato nel terzo motivo, la Corte di Appello di Milano pone a chiusura della sua argomentazione – ed alla luce della documentazione della adozione, da parte della Corte di Assise di *******, di un ordine di arresto in contumacia (n. 182/2008) per il reato di propaganda a favore di organizzazione terroristica illegale – l’affermazione, la cui totale implausibilità è denunziata dal S. , per la quale la stessa adozione della misura cautelare in discorso attesta che la repressione lamentata dal richiedente asilo è rivolta non già a limitare le libertà democratiche ma, come avviene in Spagna, a contenere le forme violente della lotta politica propugnata da alcuni movimenti politici.
Il grave deficit di informazione sopra rammentato, l’omessa indagine sui fatti addebitati al S. (non arrestandosi alla generica imputazione provvisoria) e la evidente superficialità della assunzione, a tertium comparationis, di argomenti afferenti la azione condotta in Spagna contro la lotta armata del separatismo basco, rendono dunque affatto carente la tenuta logica dell’argomento in discorso.
Giova al proposito precisare che la persecuzione politica sussiste anche quando vengano legalmente adottate sanzioni penali all’esito di un regolare processo a carico di chi ha espresso mere opinioni politiche, nel mentre non può essere considerata persecuzione la repressione adottata con sanzione penale dell’attività di incitamento alla violenza, e che il fumus persecutionis, e quindi la sussistenza della prima delle situazioni alternative appena delineate va riscontrata, come non operato dai giudici del merito, alla luce del fatto addebitato e non del suo nomen juris.
È assai significativo, del resto che una recentissima decisione della Corte di Strasburgo (decisione 22 giugno 2010 in causa B. c. Turchia, di accoglimento della domanda di riparazione per violazione dell’art. 10 della CEDU in relazione ad una condanna definitiva del B., membro del Partito Dehap, ai sensi dell’art. 312 § 2 del Codice Penale, per l’incitamento all’odio ed alla violenza razziali) abbia affermato (nel testo francese adottato) che:
"Si la fixation des peines est en principe l’apanage des jurisdictions nationales, la Court considère qu’une peine de prison infligée pour une infraction commise dans le domaine du discours politique n’est compatible avec la liberté d’expression garantie par l’article 10 de la Convention que dans des circostances exceptionelles, notamment lorsque d’autres droits fondamentaux ont été gravement atteints, comme dans l’hypothèse, par exemple, de la diffusion d’un discours de haine ou d’incitation à la violence".
Con il che viene autorevolmente rammentato che incide indebitamente sulla libertà di espressione garantita dall’art. 10 della CEDU una sanzione penale comminata per la diffusione di dichiarazioni di natura politica fatta salva l’ipotesi in cui dette dichiarazioni abbiano contenuti ed obiettivi di incitamento all’odio ed alla violenza.
Conseguenza delle formulate osservazioni è che il giudice chiamato ad esaminare il ricorso avverso il diniego della protezione internazionale deve scrutinare la situazione di persecuzione addotta dall’interessato verificando in linea generale, ed avvalendosi dei suoi poteri di indagine ed informazione, la situazione del Paese (nella specie la Turchia) nel quale è dato operare il rientro e deve considerare la posizione personale del richiedente protezione anche alla luce della documentata adozione di una misura cautelare giurisdizionale per propaganda a favore di organizzazione terroristica, al proposito scrutinando il fatto ascritto od accertato e la sua riconducibilità alla area della legittima espressione del dissenso od a quella dell’incitamento vietato alla lotta armata.
Sulla base delle formulate considerazioni, accolto il ricorso ed annullata la sentenza impugnata si rinvia alla Corte di Milano, in diversa composizione, perché proceda a nuovo giudizio applicando il formulato principio di diritto e conclusivamente regolando le spese.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione.

Redazione