Corte di Cassazione Civile sez. V 3/4/2009 n. 8127; Pres. Senese S.

Redazione 03/04/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La Comau s.p.a. nell’agosto del 1992 chiedeva ed otteneva dal Presidente del Tribunale di Torino un sequestro conservativo a carico di P.P., M.A. e F.M. L. fino a concorrenza di L. 2.500.000.000 ed a carico di Pe.Pa., ****** ed G.E. fino a concorrenza di L. 350.000.000, in garanzia di un credito di risarcimento danni da responsabilità civile, nascente da una vicenda che, a seguito di denuncia penale presentata dal suo amministratore, era sfociata in un procedimento penale, che aveva individuato come responsabili dell’illecito penale la M., nella qualità di dipendente della stessa Comau, quale addetta all’ufficio acquisti, ed il marito P.P.. Nei loro confronti era stata pronunciata sentenza ai sensi dell’art. 444 c.p.p., in relazione al reato di truffa e di calunnia.

I fatti oggetto del procedimento erano consistiti nella predisposizione all’interno dell’organizzazione di essa ricorrente di pratiche per l’acquisto di prestazioni con conseguenti ordini a favore della Gorper s.n.c. dapprima e, quindi, a favore della ditta Gualdi Impianti di (OMISSIS), seguiti da pagamenti conseguenti alla correlata formazione di documenti contabili falsi inseriti nel sistema elettronico di elaborazione della ricorrente, in relazione ai quali le prestazioni, però, non venivano effettivamente rese. Tali pagamenti, per quanto afferiva alla Gorper, erano stati eseguiti per L. 336.294.000 su un conto bancario aperto dai titolari della Gorper, G.E. ed Pe.En., che erano stati accompagnati dal Pe.Pa., mentre, per quel che riguardava la ****** i pagamenti, eseguiti per L. 1.794.218.930, erano stati accreditati su altro conto bancario e le relative somme erano state poi girate, usando ordini di bonifico firmati in bianco dal titolare della ditta ******, su un conto corrente della F., madre della M..

A seguito della concessione del sequestro (che veniva eseguito), la Comau instaurava un primo giudizio di merito contro la M., i P., la F. ed il G., chiedendo la condanna, previa convalida del sequestro, al risarcimento del danno per due miliardi di L. a carico di P.P., della M. e della F., e per L. 336.294.000 a carico del G. e di Pe.Pa..

Altro giudizio veniva introdotto nei confronti del Pe..

Riunite le due cause, in cui i convenuti si erano costituiti, all’esito dell’espletamento di prove testimoniali e dell’acquisizione degli atti del procedimento penale, il Tribunale di Torino, con sentenza del 29 gennaio 2001, condannava solidalmente la M., la F. ed il P.P. al pagamento alla Comau di L. 2.135.780, oltre gli interessi che liquidava in L. 1.436.994.969 Condannava, altresì, solidalmente i due P., la M. ed il Pe. al pagamento di L. 417.499.347, oltre interessi legali pari a L. 291.836.423. Convalidava, inoltre, il sequestro.

La sentenza veniva appellata da P.P., M. A. e F.M.L..

Nella costituzione della Comau e nella contumacia di Pe.

P., del Pe. e del G., la Corte d’Appello di Torino, con sentenza dell’11 novembre 2003, confermava la sentenza di prime cure rigettando l’appello.

2. Contro questa sentenza P.P., la M. e la F. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi per il P. e la M. ed a cinque motivi per la F..

La Comau ha resistito con controricorso ed ha anche depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso è strutturato con la separata articolazione dei motivi prospettati quanto alle posizioni del P. e della M. e di quelli da valere per la posizione della F..

2. Con il primo motivo di ricorso il P. e la M. deducono "violazione del principio del contraddittorio, art. 101 c.p.c., per avvenuto utilizzo del fascicolo delle indagini preliminari". Ci si duole, assumendo di averla sempre contestata, della utilizzazione del fascicolo delle indagini preliminari, sotto il profilo che esso conteneva risultanze alla cui formazione essi non avevano potuto partecipare, avendone acquisito conoscenza soltanto nel momento del deposito del fascicolo. D’altro canto – osservano i ricorrenti – le prove in sede penale si formano solo in dibattimento.

Con un primo argomento si sostiene che la Corte territoriale avrebbe giustificato l’ingresso del detto fascicolo sulla base dell’autonomia del potere del giudice civile di accertare i fatti rilevanti in sede penale per il venir meno del principio dell’unità della giurisdizione, ma in concreto non avrebbe proceduto al relativo autonomo accertamento.

Con un secondo argomento si fa leva su Cass. n. 6502 del 2001, di cui si propone una lettura nel senso che avrebbe inteso consentire l’utilizzazione del materiali della indagini di P.G. solo nel caso in cui il dibattimento non segua per amnistia.

Con il secondo motivo si deduce "violazione dell’art. 116 c.p.c., in relazione all’utilizzo solo parziale delle dichiarazioni ritenute confessorie".

Vi si lamenta che la Corte territoriale avrebbe fondato il suo giudizio per le posizioni dei due ricorrenti quasi esclusivamente sulle dichiarazioni da esse rese durante le indagini preliminari, interpretandole come confessorie, ma le avrebbe utilizzate soltanto in parte, omettendo di considerare che era stato da loro dichiarato che il comportamento loro ascritto era stato tenuto su indicazioni di una persona qualificatasi come l’Ing. ******, che era all’epoca amministratore della società.

Il terzo motivo deduce "violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 in relazione all’omessa valutazione di prove assunte in sede civile e dell’omessa motivazione in punto" e sostiene che la sentenza impugnata avrebbe tralasciato di considerare le risultanze dell’audizione in sede civile di numerosi testi, quasi tutti dipendenti o ex dipendenti della Comau.

Il quarto motivo deduce "violazione dell’art. 2710 c.c. in relazione all’efficacia probatoria di documenti di parte al di fuori dell’ipotesi prevista dalla legge" e lamenta che si sia dato rilievo, ai fini della dimostrazione del danno, alla documentazione proveniente dalla contabilità della Comau, mentre i ricorrenti non erano imprenditori e la causa non aveva ad oggetto rapporti di impresa. Inoltre vi era stata contestazione della corrispondenza fra le scritture ed i documenti prodotti in copia fotostatica e quelli tenuto nella contabilità ufficiale della Comau, ma la Corte torinese nulla avrebbe motivato sul punto.

2.1. Tutti e quattro i motivi dedotti dal P. e dalla M. non sono meritevoli di accoglimento.

2.2. In ordine al primo motivo, va premesso che la giurisprudenza di questa Corte in punto di utilizzazione delle emergenze delle indagini di polizia giudiziaria è attestata sui seguenti principi.

In particolare, si è statuito che:

a) "Il giudice civile, in mancanza di alcun divieto, può liberamente utilizzare le prove raccolte in un diverso giudizio tra le stesse o tra altre parti, e può anche avvalersi delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale, le quali possono anche essere sufficienti a formare il convincimento del giudice, la cui motivazione non è sindacabile in sede di legittimità quando la valutazione compiuta sia stata estesa anche a tutte le successive risultanze probatorie e non si sia limitata ad un apprezzamento della sola prova formatasi nel procedimento penale" (Cass. n. 20335 del 2004; in senso conforme: Cass. n. 11775 del 2006);

b) "Nell’accertamento della sussistenza di determinati fatti e della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento, il giudice del lavoro può fondare il suo convincimento sulle dichiarazioni testimoniali assunte nel corso delle indagini preliminari, anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento ove il procedimento penale sia stato definito ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., potendo la parte, del resto, contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale. (Nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., ha affermato la legittimità del licenziamento di un dipendente di un istituto bancario ritenendo che le dichiarazioni rese dalle vittime del reato e la sentenza di patteggiamento – per il reato di usura -, unitamente al comportamento della parte, che non aveva contestato i fatti riferiti dai testimoni, portassero a ritenere sussistenti l’avvenuto compimento da parte del medesimo di gravi irregolarità e violazioni delle norme interne, in contrasto con i doveri fondamentali della deontologia del dipendente bancario e tali da ledere gravemente il rapporto di fiducia della banca con il suo funzionario)". (Cass. n. 132 del 2008);

c) "Il giudice di merito, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, oltre che utilizzare prove raccolte in diverso giudizio fra le stesse o altre parti, può anche avvalersi delle risultanze derivanti da atti di indagini preliminari svolte in sede penale, le quali debbono, tuttavia, considerarsi quali semplici indizi idonei a fornire utili e concorrenti elementi di giudizio, la cui concreta efficacia sintomatica dei singoli fatti noti deve essere valutata – in conformità con la regola dettata in tema di prova per presunzioni – non solo analiticamente, ma anche nella loro convergenza globale, accertandone la pregnanza conclusiva in base ad un apprezzamento che, se sorretto da adeguata e corretta motivazione sotto il profilo logico e giuridico, non è sindacabile in sede di legittimità. Ne consegue, da un canto, che anche una consulenza tecnica disposta dal P.M. in un procedimento penale, se ritualmente prodotta dalla parte interessata, può essere liberamente valutata come elemento indiziario idoneo alla dimostrazione di un fatto determinato (ancorchè la relativa valutazione debba pur sempre tener conto della circostanza che l’atto si è formato senza il contraddittorio tra le parti e che esso non risulta sottoposto al vaglio del giudice del dibattimento), dall’altro che, trasposta la vicenda processuale in grado di appello, il giudice del gravame ha l’obbligo di estendere il proprio giudizio a tutte le eventuali, successive risultanze probatorie, e non limitarsi ad una rivalutazione della sola consulenza eventualmente posta a fondamento della decisione di primo grado" (Cass. n. 16069 del 2001; conforme: Cass. n. 11013 del 2004);

d) "Non costituiscono validi elementi di prova nel giudizio civile gli accertamenti penali consistenti in atti acquisiti o formati in sede di indagini preliminari e non ancora sottoposti al vaglio del giudice dibattimentale (accertamenti, comunque, inopponibili, in sede civile, agli eventuali responsabili civili, estranei a quella fase processuale) (Cass. n. 5703 del 1999: il principio, peraltro, indipendentemente da ogni valutazione sulla coerenza con gli altri richiamati, non è conferente nella specie, posto che alle indagini è seguita la pronuncia di sentenza ai sensi dell’art. 444 c.p.p.).

Il motivo, una volta esaminato alla luce dei precedenti riportati, è infondato perchè: aa) nella specie gli elementi probatori che i giudici di merito hanno valutato non sono elementi probatori provenienti da terzi, ma sono le dichiarazioni rese dagli stessi ricorrenti, onde non si comprende come possa essere evocato il difetto contraddittorio, cioè che detti elementi si sarebbero formati senza il contraddittorio dei ricorrenti: è evidente che, trattandosi delle loro stessi: al significato di quelle dichiarazioni (la cui provenienza dei ricorrenti è fuori disamina) e, in quanto contraddittorio, è stato reso possibile dal fatto che esse sono state ritualmente acquisite nel processo civile; bb) quanto al secondo argomento con cui è articolato, si deve rilevare che Cass. n. 6502 del 2001 è letta palesemente in modo erroneo, là dove si vorrebbe limitare il principio da essa statuito esclusivamente all’estinzione del procedimento per amnistia; cc) è articolato con considerazioni che sono del tutto inidonee ad assumere in astratto il carattere di decisività per infirmare la motivazione della sentenza impugnata, per il fatto che trascura il suo effettivo tessuto argomentativo: essa, infatti, ha dato rilievo: cc1) per un verso a risultanze di indagini di polizia giudiziaria, all’esito delle quali il relativo procedimento penale è poi sfociato in una sentenza di cd. patteggiamento contro i due citati ricorrenti, sicchè le ha considerato particolarmente preganti proprio in ragione dell’approdo del procedimento penale a quell’esito (al riguardo, va ricordato che la giurisprudenza della corte esprime il principio, secondo cui "La sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. costituisce un importante elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Pertanto la sentenza di applicazione di pena patteggiata, pur non potendosi configurare come sentenza di condanna, presupponendo pur sempre una ammissione di colpevolezza, esonera la controparte dall’onere della prova": così Cass. sez. un. n. n. 17289 del 2006); cc2) e, per altro verso anche a testimonianze assunte in sede civile (si vedano le pp. 18-19 di essa).

2.3. Il secondo motivo, il terzo ed il quarto motivo sono inammissibili per l’assoluta carenza di autosufficienza della loro esposizione: in tutti e tre i motivi non si specificano le prove di cui si discorre e non se ne fa riproduzione, anche per riferimenti indiretti. E, comunque, nemmeno si indica la sede dove sarebbero rinvenibili, cioè l’udienza di assunzione o il luogo di produzione nelle fasi di merito e quello in cui sarebbero esaminabili in questa sede di legittimità: si veda, in proposito, Cass. n. 12239 del 2007, seguita da altre conformi.

E anche da rilevare che il secondo motivo, là dove fa riferimento alla mancata considerazione delle dichiarazioni rese dai ricorrenti quanto al Ma. è privo di pertinenza con la motivazione della Corte torinese, la quale rimarca che i ricorrenti patteggiarono la pena per il delitto di calunnia nei confronti del medesimo in relazione proprio a dette dichiarazioni (pagina venti della sentenza).

Il quarto motivo, peraltro, oltre ad essere assolutamente generico, non trova alcuna rispondenza nella motivazione della sentenza impugnata, che non ha propugnato in alcun modo l’operare dell’alt.

2710 c.c. nei confronti dei ricorrenti.

2.4. Conclusivamente il ricorso è integralmente rigettato per quanto attiene alla posizione del P. e della M..

3. Le ragioni esposte a proposito dei motivi articolati dal P. e dalla M. (tranne quella inerente l’essere stata evocata la mancanza di contraddittorio in sede di indagini di polizia giudiziaria) e, particolarmente quelle imperniate sui plurimi profili di violazione del principio di autosufficienza, comportano l’inammissibilità degli identici motivi di ricorso proposti (con i numeri 6, 7, 8 e 9) dalla F..

3.1. Merita, invece particolare considerazione il primo motivo proposto dalla F., con il quale la F. ha lamentato "violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c.". Vi si censura la motivazione della Corte d’Appello per avere riconosciuto la responsabilità nella causazione del danno della F. ai sensi dell’art. 2043 c.c., in ragione di un comportamento imprudente e negligente, consistito nell’avere acconsentito ad una richiesta del genero, P.P., di aprire un conto corrente bancario a proprio nome, sul quale aveva sempre ed esclusivamente operato il medesimo ed erano transitate somme provenienti da un conto della ditta ******, delle quali la Comau aveva sostenuto di essere stata truffata. In tal modo la Corte territoriale avrebbe escluso in capo alla F. una responsabilità dolosa ed avrebbe configurato una responsabilità per colpa sotto il profilo della mancata vigilanza sull’uso che veniva fatto del conto corrente a lei intestato. La critica alla motivazione della sentenza impugnata viene svolta assumendosi in primo luogo che "tale ragionamento viola la logica, ma anche la legge, poichè nell’ordinamento italiano esiste ed è disciplinato da normative specifiche la figura dell’intestazione fiduciaria, nella quale il fiduciante non risponde di eventuali illeciti, civili o penali, commessi dal fiduciario, salvo che ne fosse al corrente".

Difetterebbe, quindi, in ragione di tale "intestazione fiduciaria a favore del proprio genero" la colpa; e la condanna al risarcimento dei danni della F. sarebbe contraria alla legge, avendo la stessa acceso il contro corrente su richiesta del genero "che era un commerciante di automobili e che aveva giustificato tale richiesta per proprie necessità commerciali".

Va rilevato che agli effetti dello scrutinio del motivo non può assumere alcun rilievo l’allegazione svolta dalla Comau nella memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. in ordine al contenuto di una sentenza emessa in sede penale nei confronti della F.. Si tratta di allegazione che, al di là della mancanza di pertinenza rispetto al decisum della sentenza impugnata (che non ha ravvisato la responsabilità della F. per un reato), esorbita di limiti della funzione delle memorie ai sensi di detta norma.

3.2. Il motivo prospetta due censure, nessuna delle quali è fondata.

La prima censura, relativa all’asserita contrarietà del riconoscimento della responsabilità della ricorrente all’istituto della cd. intestazione fiduciaria, è priva di pregio, per l’assorbente ragione che detta figura – a prescindere dalla correttezza dell’affermazione che, ricorrendo essa, il fiduciante risponderebbe di eventuali illeciti, civili o penali commessi dal fiduciante, soltanto se nel fosse al corrente (questione che non è necessario qui affrontare) – non ha alcuna attinenza, nei termini in cui la si prospetta, con il concreto svolgimento della vicenda, che non è consistita nell’avere la F. intestato un conto corrente al P. in via fiduciaria, cioè con l’intesa che le somme depositatevi o transitatevi fossero a lei riversate. Il conto corrente, infatti, era intestato a lei e non al P. e solo la sua concreta gestione risultava affidata al medesimo.

La sentenza impugnata, infatti, da atto (e la cosa non è contraddetta dalla F.) che la stessa F. ebbe a dichiarare "di aver aperto il conto, solo per aderire ad una richiesta del genero cioè del P. che, facendo il commerciante d’auto, maneggiava parecchio denaro".

Onde, la figura del pactum fiduciae nei sensi indicati dalla F., cioè come se Essa avesse assunto la posizione di cd. fiduciante, appare invocata del tutto a torto, tenuto conto che "Il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene o l’utilità al fiduciante o a un terzo" (Cass. n. 4886 del 2003; n. 9402 del 2005).

In sostanza, contrariamente a quanto si enuncia nel motivo, il fiduciante era il P. e non la F., che, invece, in ragione dell’intestazione a sè del conto il rapporto efficace verso i terzi, era semmai fiduciaria.

Deve, dunque, ritenersi che, al contrario di quanto prospettato nel motivo, se un negozio fiduciario fosse intervenuto fra le parti, in esso la veste di fiduciaria sarebbe stata assunta dalla F., che verso i terzi figurava intestataria del conto corrente e che, in realtà, secondo l’accordo con il P. non doveva avere alcun dominio sulle somme transitate o affluite sul conto, che restavano di competenza del medesimo e solo verso i terzi, in ragione della titolarità del conto in capo alla F., apparivano di sua pertinenza.

Senonchè, se pure fosse possibile invertire i termini della prospettazione del negozio fiduciario nel senso appena indicato, mettendo in disparte la prospettazione fatta valere con il motivo, e la censura con esso prospettata si scrutinasse sotto tale diverso profilo (ravvisando nell’inversione di posizioni operata dal motivo una sorta di lapsus calami), essa risulterebbe comunque priva di fondamento, là dove si vorrebbe che l’esistenza del rapporto fiduciario, nel senso di essere stata la F. intestataria fiduciaria del conto corrente, valga di per sè ad escludere ogni suo profilo di colpa nella causazione del danno subito dalla Comau attraverso l’utilizzazione del contro corrente.

L’allegazione con la quale ciò è stato sostenuto, cioè il rilievo – di cui da atto la sentenza impugnata, riferendolo come oggetto di una dichiarazione della F. – che il conto sarebbe stato da lei aperto "solo per aderire ad una richiesta del genero che, facendo il commerciante d’auto, maneggiava parecchio denaro" e, quindi, ne aveva bisogno per la sua attività, e, dunque, l’avere acconsentito la F. per tale ragione all’intestazione fiduciaria del conto a suo nome (assumendo, per il crearsi verso i terzi di una situazione di titolarità del conto, appunto la posizione di fiduciaria, sia pure senza concreta gestione del conto, esprimendosi tale fiduciari età evidentemente nell’astenersi dal rivendicare le somme transitate sul conto), appare, infatti, di per sè sola circostanza – afferente al motivo del negozio fiduciario – assolutamente inidonea ad escludere che la condotta della F. ricollegata alla detta intestazione non abbia dato un contributo causale alla verificazione del danno a carico della Comau, per il tramite dell’utilizzazione illecita come conto di transito delle somme di provenienza illecita.

Invero, proprio l’assunzione verso i terzi della posizione di titolare del conto, per effetto del pactum fiduciae, una volta correlata con l’esclusione di qualsiasi ingerenza nella sua gestione, non esentava la F. dal dover verificare durante lo svolgimento del rapporto fiduciario consistente nel mantenimento dell’intestazione del conto corrente gestito dal P., che la gestione del conto da parte di costui non fuoriuscisse dal motivo comune per cui si era dato corso all’accordo fiduciario, cioè, per come da Lei stessa dichiarato, quello della strumentalità del conto corrente per le esigenze relative ai pagamenti correlati all’attività del P. di commerciante di automobili.

Il fiduciario, infatti, proprio perchè si pone verso i terzi come soggetto che è titolare del rapporto di cui risulta intestatario, non può pretendere – quando via sia stato un accordo occulto con il fiduciante (come lo stesso pactum fiduciae), in forza del quale sia conservata a costui l’effettiva gestione dell’oggetto della intestazione – di astenersi dall’esercitare il necessario controllo sull’indirizzarsi di tale gestione nei limiti della liceità e dell’alterum non laedere. Sicchè, se il fiduciante, attraverso l’attività di gestione del rapporto, che per i terzi è formalmente riferibile al fiduciario, commette un illecito esorbitando dai limiti in cui era stato costituito il pactum fiduciae, il fiduciario che si sia astenuto dal controllo di quell’attività deve dirsi che non solo da un contributo causale al danno che derivi a terzi da detto illecito, ma lo da con un comportamento che è negligente ed imprudente, posto che la veste formale assunta verso i terzi, in forza dell’accordo fiduciario, lo obbligava a controllare che la situazione creata verso i terzi stessi non potesse essere utilizzata in loro danno.

Ora, è la stessa F. – per come da atto la sentenza impugnata e non è in discussione – ad avere dichiarato di essersi astenuta dal controllare gli estratti conto relativi al rapporto di conto corrente, rimettendoli senza leggerli al genero, e di avere firmato assegni in bianco che venivano riempiti dal medesimo, nonchè di non essersi preoccupata neppure di conoscere quale fosse l’importo accreditato. Ebbene questo atteggiamento dimostra completo disinteresse verso l’attività di gestione del P. ed in particolare verso il suo indirizzarsi nei limiti di quanto convenuto.

Tale disinteresse integra un’evidente imprudenza e negligenza per come ritenuto dalla Corte territoriale.

Tanto evidenzia anche l’infondatezza della seconda censura, che, a prescindere dall’argomento in ordine alla fiduciarietà, ha contestato la ricorrenza nella specie della colpa ai fini della legge aquilia.

Il motivo è, dunque, rigettato, sulla base del seguente principio di diritto: "qualora un soggetto acconsenta, su richiesta di un altro, ad intestarsi un contro corrente in via fiduciaria, cioè con l’intesa che le somme che su di esso transitino sono di pertinenza dell’altro soggetto, che costui avrà in concreto la gestione del conto e che essa sarà, però, utilizzata per lo svolgimento di un’attività lecita di detto soggetto, l’intestatario del conto (fiduciario) è tenuto, per il fatto stesso di apparire verso i terzi come intestatario del conto ed a maggior ragione per il fatto di non averne la concreta gestione, ad esercitare la necessaria vigilanza sul rispetto da parte di quel soggetto della finalizzazione dell’utilizzo del conto corrente esclusivamente all’esercizio della detta attività, conforme agli accordi presi. Ne consegue che, qualora l’intestatario ometta di esercitare tale vigilanza, disinteressandosi completamente della gestione del conto (astenendosi, come nella specie, dal controllare gli estratti conto e rimettendoli senza leggerli all’altro soggetto, firmando assegni in bianco che venivano riempiti dal medesimo e non preoccupandosi neppure di conoscere quale fosse l’importo accreditato), e l’altro soggetto utilizzi il conto corrente per realizzare un illecito in danno di terzi, l’intestatario del conto corrente può rispondere sul piano causale a titolo di imprudenza e negligenza, ai sensi dell’art. 2043 c.c., del danno cagionato ai terzi per effetto dell’illecito". 4. Conclusivamente entrambi i ricorsi sono rigettati.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti alla rifusione alla resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in euro quattromilacento, di cui cento per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.

Redazione