Corte di Cassazione Civile sez. V 10/12/2008 n. 28957; Pres. Papa E.

Redazione 10/12/08
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

I contribuenti proposero ricorso avverso avviso di accertamento, con il quale l’Ufficio aveva rettificato gli imponibili dichiarati ai fini irpef e ilor per l’anno 1992, recuperando a tassazione compensi percepiti dal P., avvocato, in qualità di componente di collegio arbitrale.

A fondamento del ricorso i contribuenti deducevano l’erroneità del recupero a tassazione, in quanto i compensi recuperati erano stati puntualmente dichiarati in capo all’associazione professionale di appartenenza del P.. In proposito, rilevavano, peraltro, l’inesistenza di motivi ostativi al riversamento dei compensi della prestazione individuale nell’ambito dell’associazione professionale di appartenenza.

Sull’opposizione dell’Ufficio – che assumeva che l’incarico di arbitro, conferito intuitu personae, consiste in un impegno esclusivamente individuale che non coinvolge in alcun modo l’associazione professionale cui l’incaricato aderisca e la relativa struttura – l’adita commissione provinciale accolse il ricorso e annullò l’accertamento e l’appello successivamente promosso dall’Ufficio fu disatteso dalla commissione regionale.

Rilevato che le motivazioni del gravame dell’Amministrazione erano "ripetitive" di quelle esposte al primo Giudice e dallo stesso disattese, il Giudice di appello osservò che nulla ostava, nella fattispecie, all’operatività della previsione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 5 e 49, (T.U.I.R), in tema di esercizio di attività professionale in forma associata.

Avverso la decisione di appello l’Amministrazione finanziaria ha proposto ricorso per cassazione in due motivi.

I contribuenti hanno resistito con controricorso, deducendo l’inammissibilità del primo motivo di ricorso e l’infondatezza del secondo.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso – supponendo che, nel rilevare la ripetitività dei motivi di appello, la commissione regionale abbia inteso affermarne l’inammissibilità – l’Amministrazione finanziaria deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53; sostiene che il Giudice del gravame avrebbe erroneamente ritenuto inammissibile, perchè non specificamente articolato, l’appello proposto dall’Ufficio.

Il motivo appare infondato già con riguardo al suo presupposto di fatto. Il solo rilievo della "ripetitività" delle deduzioni svolte in sede di impugnazione, rispetto a quelle articolate in primo grado, non autorizza, infatti, minimamente ad ipotizzare la ricorrenza di una pronunzia d’inamissibilità dell’appello.

Con il secondo motivo di ricorso – deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 5 e 49, e art. 815 c.p.c., e L. n. 1819 del 1939, art. 1, nonchè omessa o insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia – l’Amministrazione finanziaria censura la sentenza impugnata per non aver ritenuto esclusivamente pertinenti all’avvocato, e non riversabili quindi in capo all’associazione professionale di appartenenza, i compensi conseguiti dal professionista in qualità di arbitro.

Con riferimento al denunziato vizio di motivazione il mezzo si rivela inammissibile.

Il vizio di motivazione riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, può, invero, concernere esclusivamente l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia, ma non anche l’interpretazione o l’applicazione di norme giuridiche, giacchè l’errata interpretazione o applicazione delle norme di diritto ricade nella previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, mentre, il vizio di motivazione in diritto non può avere rilievo di per sè, in quanto esso – se il Giudice del merito ha deciso correttamente le questioni di diritto sottoposte al suo esame, supportando la sua decisione con argomentazioni inadeguate, illogiche o contraddittorie o senza dare alcuna motivazione – può dar luogo alla correzione della motivazione da parte della Corte ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, (cfr.

Cass. 3038/05, 13358/04, 11883/03).

Con riferimento alla denunziata violazione di legge, il motivo risulta infondato.

In tale ottica, l’Amministrazione ricorrente assunto che, ai sensi della L. n. 1819 del 1939, art. 1, sarebbero riferibili all’associazione le sole prestazioni (ed i relativi redditi) in merito alle quali il destinatario della prestazione sia stato reso edotto dell’appartenenza del professionista all’associazione – prospetta, in primo luogo, che, nel caso di specie, tale contemplatici non sussisteva.

La censura appare inammissibile, in quanto nuova (almeno in prospettiva di autosufficienza), incidendo su questione di fatto che la sentenza impugnata non riferisce come dibattuta nei pregressi gradi del giudizio e che il ricorso per cassazione dell’Amministrazione, non indica se e come proposta e trattata davanti al giudice del merito (v. Cass. 14.590/05, 13.979/05, 6656/04 5561/04).

La censura sembra, comunque, infondata, poichè basata su un presupposto di fatto (la mancata contemplatio) indimostrato e risultante anzi, induttivamente ma significativamente, contraddetto dalla circostanza, desumibile dalle stesse caratteristiche della fattispecie dedotta, che i compensi in rassegna furono corrisposti su fatturazione dell’associazione professionale.

Con riferimento alla previsione di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 5 e 49, e art. 815 c.p.c., l’Amministrazione finanziaria censura, poi, la decisione impugnata per non aver considerato che la prestazione arbitrale non può essere mai imputata ad un’associazione professionale.

Rileva, in proposito che, dall’intera disciplina dell’arbitrato, e in particolare dal rimando alle cause di incompatibilità e di astensione obbligatoria del giudice di cui all’art. 51 c.p.c., si ricava che gli arbitri debbono esercitare il proprio mandato in assoluta indipendenza da rapporti con altri soggetti, diversi dai componenti stessi del collegio arbitrale. La considerazione dell’inserimento in una associazione sarebbe, quindi, per definizione, esclusa, allorchè una parte designa un professionista come arbitro di propria fiducia. Tale designazione, non solo si rivolgerebbe all’individuo per la fiducia che esso ispira, ma tenderebbe ad ottenere dal designato una prestazione necessariamente individuale e personale di questo, poichè lo inserisce in un collegio che deve operare in totale indipendenza da rapporti e condizionamenti esterni.

I rilievi non appaiono giovare alla tesi dell’Amministrazione ricorrente.

Occorre, invero, osservare che tutta l’attività professionale per il cui svolgimento è necessario un titolo abilitativo è caratterizzata, quanto al rapporto con il committente, dall’intuitus personae, e che, in considerazione di tale caratteristica la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel senso che l’associazione tra professionisti, legittimamente attuata per dividere le spese del proprio studio e gestire congiuntamente i proventi della propria attività, non comporta il trasferimento all’associazione professionale della titolarità del rapporto di prestazione d’opera, che resta di esclusiva pertinenza del professionista investito, nè l’insorgenza di un vincolo di solidarietà tra i professionisti dello stesso studio per l’adempimento della prestazione o la responsabilità nell’esecuzione della medesima (cfr., tra le altre, Cass. 6994/07, 22404/04, 13142/03, 4628/97, 1933/97, 79/93, 1405/89). Nè, d’altro canto, l’indipendenza dell’arbitro può misurarsi in funzione, più che della stessa appartenenza ad un’associazione professionale, delle modalità d’imputazione del reddito correlativo conseguente a detta appartenenza.

Se ne deve, dunque, inferire che – ove si tratti si prestazioni individuali ontologicamente inquadrabili nella specifica attività professionale oggetto di associazione (caratteristica che non sembra potersi regionevolmente negare alle prestazioni di arbitro, tanto più se irrituale, svolte da avvocato associato in studio legale) – i compensi spettanti al professionista sono, anche sul piano fiscale, legittimamente imputati all’associazione professionale, nei termini indicati dal titolo associativo (che, nel caso concreto, prevedeva l’obbligo degli associati di mettere in comune "tutti i proventi dell’attività professionale personalmente esercitata"), salva l’ipotesi di comportamenti elusivi da dimostrarsi dall’Amministrazione.

Alla stregua delle considerazioni che precedono, s’impone il rigetto del ricorso.

Per la natura della controversia e la novità della questione si ravvisano le condizioni per disporre la compensazione delle spese di causa.

P.Q.M.

La Corte: respinge il ricorso; compensa le spese.

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