Corte di Cassazione Civile sez. III 5/3/2009 n. 5348

Redazione 05/03/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

C.P., quale titolare della agenzia (omissis), conveniva, davanti al Pretore di Ancona, C. A. chiedendone la condanna al pagamento della provvigione per l’incarico di mediazione dalla stessa svolto in suo favore.

Esponeva, al riguardo, che il convenuto, interessato alla vendita di un immobile di sua proprietà, si era rivolto all’agenzia, di cui era titolare, conferendole l’incarico di procacciare la vendita di tale immobile; che l’incarico aveva la durata di mesi 12 a partire dal 28.3.1990, data di sottoscrizione del modulo di incarico a procacciare la vendita; che un incaricato dell’agenzia aveva accompagnato tale P.O. a visionare l’immobile e che questi, avendolo ritenuto di suo gradimento, aveva deciso di acquistarlo; che le trattative erano state complesse, poichè la compravendita tra il C.A. ed il P. prevedeva anche la permuta con altro immobile, di proprietà dei suoceri del P.;

che gli accordi prevedevano il pagamento di un prezzo di acquisto pari a 620 milioni, da corrispondere, in parte mediante la cessione dell’immobile dei suoceri, ed in parte in denaro; che, dopo gli accordi raggiunti, con conseguente conclusione dell’affare, le parti non avevano più interpellato l’agenzia e, di propria iniziativa, avevano sottoscritto un preliminare, in base al quale il C.A. si impegnava a vendere l’immobile di sua proprietà ed il P. si impegnava ad acquistarlo, in parte, mediante cessione in permuta dell’immobile dei suoceri – che avevano anch’essi sottoscritto il preliminare di vendita -, ed, in parte, con versamento in denaro; che il possesso degli immobili in questione era stato trasmesso quasi contemporaneamente alla sottoscrizione del preliminare.

Il convenuto si costituiva contestando il fondamento della domanda.

Il Pretore, con sentenza del 24.3.1999, accoglieva la domanda condannando il convenuto al pagamento della somma di L. 18.600.000 in favore della C..

L’impugnazione di tale sentenza, proposta dal C.A., si concludeva con la sentenza della Corte d’Appello in data 8.11.2003, che, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava che il il C.A. non era tenuto alla corresponsione, in favore della agenzia (omissis), della somma come liquidata dal primo giudice.

Quest’ultima, in persona della titolare, ha proposto ricorso per Cassazione affidato a due motivi illustrati da memoria.

Resiste con controricorso il C.A..

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3. Violazione e falsa applicazione delle norme di diritto con riferimento all’art. 1754 c.c., comma 1, ed all’art. 1755 c.c..

Con il secondo motivo denuncia la omessa, insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

I due motivi, per la stretta connessione delle censure con gli stessi proposte, possono essere esaminati congiuntamente.

Essi sono fondati per le ragioni appresso illustrate.

La Corte di merito ha accertato e valutato l’incarico di mediazione concluso fra le parti come segue.

"Occorre in primis por mente all’incarico a procurare la vendita sottoscritto in data (omissis) dal C.A. sul modulo predisposto dall’Agenzia (omissis) e avente durata di dodici mesi.

Risulta dalla lettura di tale documento che le parti, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, hanno liberamente voluto e disciplinato due distinte situazioni, da cui derivano diverse conseguenze giuridiche.

Hanno, cioè, previsto che, quando il mandato è vigente, il diritto al compenso dell’Agenzia matura con la stipula di un semplice contratto preliminare (o compromesso), mentre, quando il mandato è scaduto, occorre la vendita definitiva.

Questo concetto è ribadito nella clausola che stabilisce testualmente: "nessun compenso vi sarà dovuto dal sottoscritto ad incarico scaduto, in caso di mancata vendita".

Su tale base, la stessa Corte d’appello ha rilevato che "nel caso di specie, il contratto preliminare fu stipulato in data (omissis), dopo la scadenza del mandato in discorso, e fu in seguito consensualmente risolto a motivo dell’inadempimento del promissario acquirente".

Ed ha concluso: "E’ quindi documentalmente provato che le parti originarie del contratto preliminare, C.A. e P. O., non addivennero alla stipula della vendita definitiva, dopo la scadenza del mandato", con il conseguente diniego del diritto del mediatore al compenso per l’attività prestata.

Così ripercorso l’iter motivazionale, non può non convenirsi che una tale interpretazione si pone in contrasto con le norme di cui agli artt. 1366 e 1367 c.c..

A tal fine, non è inopportuno ribadire che, ai sensi dell’art. 1754 c.c. si qualifica mediatore colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, risultando idonea, al fine del riconoscimento del diritto alla provvigione, anche l’esplicazione della semplice attività consistente nella ricerca ed indicazione dell’altro contraente o nella segnalazione dell’affare.

Ciò vuol dire che, perchè sorga il diritto del mediatore al compenso, è sufficiente che la conclusione dell’affare possa ricollegarsi all’opera dallo stesso svolta per l’avvicinamento dei contraenti, purchè, però, tale attività costituisca il risultato utile della condotta posta in essere dal mediatore stesso e, poi, valorizzata dalle parti (da ultimo Cass. 17.7.2008 n. 19705; Cass. 15.4.2008 n. 9884; Cass. 20.12.2005 n. 28231; Cass. 16.12.2004 n. 23438; Cass. 8.3.2002 n. 3438).

D’altronde, anche quando il conferimento di incarico al mediatore è con patto di esclusiva per un determinato periodo di tempo, ciò non è indicativo anche della volontà del preponente di rifiutare l’attività del mediatore stesso dopo la scadenza del termine di validità del patto, con la conseguenza che l’opera prestata dal mediatore, se idonea ed efficiente alla conclusione dell’affare, determina per ciò stesso il diritto alla provvigione (Cass. 13.6.2002 n. 8437).

Ne consegue che il fondamento del diritto al compenso è da ricercarsi in ciò, che l’attività di mediazione, che si concreta nella messa in relazione delle parti, costituisca l’antecedente indispensabile per pervenire, attraverso fasi e vicende successive, alla conclusione dell’affare, (v. anche Cass. 8.3.2002 n. 3438).

Nella specie, la conclusione dell’affare – è integrata dalla conclusione del contratto preliminare di vendita intervenuta fra le parti, mentre, ai fini del riconoscimento del diritto alla provvigione, sono indifferenti le vicende successive che, nella specie, hanno condotto le parti alla mancata conclusione del contratto definitivo.

Alla conclusione del contratto preliminare va, quindi, riconosciuto l’effetto dell’insorgere del diritto alla provvigione, indipendentemente dalla scadenza o meno del mandato.

E’ ben vero che la clausola contenuta nell’accordo di mediazione prevedeva che nessun compenso era dovuto "ad incarico scaduto, in caso di mancata vendita", ma, l’interpretazione accolta dalla Corte di merito – che ha ritenuto non dovuto il compenso, posto che "il contratto preliminare fu stipulato in data (omissis), dopo la scadenza del mandato in discorso, e fu in seguito consensualmente risolto a motivo dell’inadempimento del promissorio acquirente" – non può essere seguita.

Una tale interpretazione, infatti, è in contrasto con i principi di buona fede e correttezza come ormai facenti parte del tessuto connettivo dell’ordinamento giuridico.

In questa ottica deve, infatti, – ancora una volta – ribadirsi che l’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale – la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica, proprio per il suo rapporto sinergico con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., che a quella clausola generale attribuisce forza normativa e ricchezza di contenuti -, applicabile, sia in ambito contrattuale, sia in quello extracontrattuale (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462).

In questa prospettiva, si è giunti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo o integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi (v. S.U. 15.11.2007 n. 23726 ed i richiami ivi contenuti).

Calato, poi, nell’ambito contrattuale, va affermato che il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase.

La buona fede, pertanto, si atteggia come un impegno od obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna parte di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere del neminem laedere, senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte (Cass. 11.1.2006 n. 264; Cass. 7.6.2006 n. 13345).

Ora, sulla base dei principi enunciati, non può non convenirsi che l’interpretazione dell’accordo mediatorio fornito dal giudice di merito si pone in contrasto con i principi di buona fede e correttezza, più sopra selezionati, consentendo che comportamenti elusivi, posti in essere dalle parti, tolgano effetto allo stesso contratto di incarico.

Ne consegue che la clausola in esame dovrà essere interpretata – sulla base dei principi indicati in materia di mediazione – alla luce del canone generale di buona fede, come più sopra enunciato.

Conclusivamente, il ricorso va accolto, la sentenza cassata e la causa rinviata alla Corte di Appello di Ancona in diversa composizione.

Le spese del giudizio di cassazione vanno rimesse al giudice del rinvio.

P.Q.M.

LA CORTE Accoglie il ricorso. Cassa e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Ancona in diversa composizione.

Redazione