Corte di Cassazione Civile sez. III 3/3/2000 n. 2367; Pres. Duva V.

Redazione 03/03/00
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il 15 aprile 1990 il quotidiano "Alto Adige" pubblicò un articolo, dal titolo "L’Ospedale a rischio senza filo per sutura", il quale riferiva riguardo all’esposto presentato alla Procura della Repubblica di Trento da C. D., infermiere dell’ospedale.

Con atto di citazione notificato il 4 settembre successivo la società Bieffe Medital convenne dinanzi al Tribunale di Trento il D., E. S. e la società Editrice Atesina (S.e.t.a.) – gli ultimi due, rispettivamente, quali direttore ed editore del predetto giornale – e ne chiese la condanna solidale al risarcimento dei danni asseritamente prodotti da tale pubblicazione, ritenuta diffamatoria.

Resistendo i convenuti, con sentenza del 2 novembre 1995 l’adito Tribunale respinse la domanda sul rilievo che il quotidiano si era limitato a riportare la notizia dell’esposto del D., che doveva pertanto tenersi conto della verità della notizia piuttosto che della verità del fatto oggetto della stessa, e che lo stesso quotidiano aveva esercitato il diritto di cronaca riportando una notizia acquisita in buona fede dal cronista da una fonte attendibile quale l’infermiere D..

In accoglimento dell’impugnazione proposta avverso tale decisione dalla società attrice, con la sentenza, ora gravata, la Corte di appello ha condannato i convenuti in solido a pagare all’appellante la somma di lire 80.000.000, oltre gli interessi legali dalla data della decisione al saldo ed oltre la metà delle spese del doppio grado di giudizio, con la compensazione della residua metà e la pubblicazione della sentenza, per estratto, sui giornali "L’Adige" e "L’Alto Adige".

La Corte ha ritenuto che "con il narrare fatti non veri, vengono lesi non solo diritti fondamentali della persona, ma lo stesso diritto della collettività ad informazione rispondente al vero; ed il giornalista è tenuto, quale suo obbligo inderogabile (art. 2 legge 3.2.1963 n. 69), a rispettare la verità dei fatti nell’esercizio del suo diritto di cronaca, data dalla corrispondenza tra l’oggettivamente narrato e lo storicamente accaduto".

Affermato conseguentemente che, nel contemperamento degli opposti interessi, l’esercizio del diritto di cronaca richiede la verità oggettiva della notizia, od almeno la verità putativa purché la buona fede del giornalista sia stata dallo stesso dimostrata attraverso l’indicazione della diligenza prestata per accertare il fondamento di quanto oggetto di divulgazione, ha osservato che nella specie nessun minimo accertamento risultava essere stato eseguito dal giornale in ordine ai fatti oggetto dell’esposto del D., esposto che poteva essere stato dettato da motivi non necessariamente ispirati dalla verità dei fatti e, pertanto, di non sicura affidabilità, ed in effetti di natura diffamatoria e lesivo della credibilità del prodotto dell’appellante: donde la sussistenza dell’illecito di cui all’art. 2043 c.c.

La Corte territoriale ha quindi liquidato il danno morale, in via equitativa, in lire 80 milioni alla data della decisione, ha affermato che esso era risarcibile anche a favore di persone giuridiche, ed ha aggiunto che il fatto diffamatorio non aveva "inciso più di tanto sull’andamento degli affari di una società solidamente strutturata", quale sembrava essere l’appellante, ed aveva inoltre avuto una risonanza soltanto locale: la somma liquidata era comprensiva – ha precisato – di interessi e riparazione pecuniaria.

Per la cassazione di tale decisione la S.e.t.a. ed il S. hanno congiuntamente proposto ricorso, affidato a quattro motivi, cui la Bieffe Medital resiste con controricorso, contenente altresì un unico motivo di ricorso incidentale. Nessuna attività difensiva è stata invece svolta dal D.. I ricorrenti principali hanno depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I due ricorsi, iscritti con numeri di ruolo diversi, devono essere riuniti (art. 335 c.p.c.) perché investono la medesima sentenza.

2. Con il primo motivo del ricorso principale si deduce la violazione dell’art. 2043 c.c. e si afferma che, essendosi il giornalista limitato a riferire la denuncia del D., senza esprimere alcuna opinione, sussistevano i requisiti per escludere l’antigiuridicità del fatto e cioè la verità oggettiva della notizia, la verità putativa per l’affidamento ingenerato dalla qualifica professionale del D., l’interesse pubblico all’informazione e l’esposizione civile dell’articolo.

Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

La sentenza impugnata ha qualificato diffamatorio l’esposto del D., osservando che esso indicava fatti sicuramente lesivi della credibilità del prodotto della Bieffe, che nulla era stato acquisito in causa in ordine alla verità di tali fatti – smentiti, al contrario, da un primario ospedaliero -, e che del resto non era risultato che in sede penale fosse stato dato alcun seguito all’esposto.

Su tale punto della decisione si è formato il giudicato, non avendo il D. proposto ricorso, e non essendo esso investito dalle censure dei ricorrenti principali, le quali sono limitate alla diversa questione della connessa responsabilità del giornalista e del direttore.

Nell’affermare la responsabilità anche di costoro, la sentenza impugnata ha adesivamente richiamato il consolidato indirizzo giurisprudenziale, per il quale la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell’altrui onore in tanto può considerarsi lecito esercizio del diritto di cronaca, in quanto ricorrano le condizioni della verità oggettiva della notizia pubblicata, dell’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (c.d. pertinenza) e della correttezza formale dell’esposizione (c.d. continenza); in particolare, la condizione della verità della notizia comporta l’obbligo del giornalista non solo di controllare l’attendibilità della fonte (non sussistendo fonti informative privilegiate), ma anche di accertare e rispettare la verità sostanziale dei fatti oggetto della notizia, con la conseguenza che, solo se tale obbligo sia stato scrupolosamente osservato, potrà essere utilmente invocata l’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca (da ultimo, in tal senso, Cass. 4.7.1997 n. 6041 e 2.7.1997 n. 5947).

La Corte territoriale, premesso che nella specie era in discussione la sola condizione della verità della notizia (inammissibili sono, pertanto, le censure che investono le diverse condizioni della pertinenza e della continenza), ha affermato che l’anonimo articolista si era limitato a riportare l’esposto del D. senza effettuare un minimo accertamento perlomeno sulle eventuali voci che circolavano nell’ambiente ospedaliero.

Orbene, tale accertamento involge una questione di fatto, la quale non forma oggetto di specifiche censure ex art. 360 n. 5 c.p.c. (il motivo in esame è infatti limitato ad una pretesa violazione dell’art. 2043 c.c.), mentre il dedotto affidamento sulla qualifica professionale del D. è irrilevante, stante il richiamato obbligo, da parte del giornalista, di controllare l’attendibilità della fonte, obbligo che, come i giudici del merito hanno esattamente osservato, attiene al necessario contemperamento tra l’interesse pubblico all’informazione ed il dovuto rispetto del diritto alla reputazione ed all’onore della persona.

3. Con il secondo motivo del ricorso principale si allega omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa la sussistenza del nesso di causalità tra pubblicazione della notizia ed evento di danno sotto il profilo che non è stata fornita la prova che le asserite difficoltà commerciali della società Bieffe fossero da mettere in relazione alla pubblicazione dell’articolo, e, con il quarto, che in realtà non si comprende se sia stato liquidato il solo danno morale od anche un qualche danno patrimoniale, del quale però mancava la prova.

A sua volta la ricorrente incidentale, con l’unico motivo del proprio ricorso, denuncia la violazione dell’art. 1226 c.c. nonché contraddittoria motivazione nel punto concernente l’omessa liquidazione del danno patrimoniale.

I tre motivi, strettamente connessi, possono essere esaminati congiuntamente.

Il secondo e quarto motivo del ricorso principale sono inammissibili perché investono una voce di danno – quello, appunto, patrimoniale – che non è stata liquidata.

E’ infondato, invece, il ricorso incidentale: accertare, invero, se da una determinata condotta sia derivato un danno, e, in caso affermativo, quantificarne l’ammontare, è questione di fatto, come tale rimessa al giudice del merito e non censurabile in sede di legittimità se il relativo convincimento sia motivato ed immune da vizi logici e giuridici: come nella specie deve riconoscersi, diversamente da quanto invece pretende la ricorrente società.

La sentenza impugnata, infatti, pur avendo preso in considerazione le risultanze processuali favorevoli all’attrice appellante, ha altresì dato atto di un dato contrastante (lettera U.s.l. 18.5.1993), ha conclusivamente ritenuto che il fatto diffamatorio non poteva "aver inciso più di tanto sull’andamento degli affari di una società solidamente strutturata" quale la Bieffe Medital, ed ha poi aggiunto che la somma di tre miliardi di lire, da questa pretesa, era comunque spropositata e priva di significativi elementi di ragguaglio.

Duplice è, dunque, la ratio decidendi, la quale investe sia l’an che il quantum: e poiché la prima, basata sulla insufficienza degli elementi probatori acquisiti, è immune da vizi motivazionali e di per sé sufficiente a sorreggere la decisione, la stessa è insindacabile in questa sede di legittimità.

4. Con il terzo motivo del ricorso principale si deduce la violazione dell’art. 2059 c.c. e si afferma che l’esclusione della responsabilità penale comportava l’irrisarcibilità del danno non patrimoniale, il quale comunque non poteva essere preteso dalla Bieffe Medital trattandosi di società commerciale di capitale.

Il motivo è infondato.

Come questa C.S. ha affermato (sent. 10.7.1991 n. 7642 e 5.12.1992 n. 12951) danno non patrimoniale e danno morale sono nozioni non coincidenti: il primo comprende infatti qualsiasi conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad una valutazione monetaria basata su criteri di mercato, non possa essere oggetto di risarcimento, sibbene di riparazione, mentre il secondo consiste nella c.d. pecunia doloris.

Ancorché, nella specie, i giudici del merito abbiano qualificato il danno liquidato come morale, essi, per le motivazioni che sorreggono la decisione, hanno tuttavia inteso far riferimento a quello non patrimoniale: come, del resto, i ricorrenti principali, i quali così lo qualificano, mostrano di ritenere.

Tanto premesso e precisato, la prima censura non ha fondamento, atteso che la sentenza impugnata ha qualificato – incidenter tantum ed in parte esplicitamente ed in parte implicitamente – come penalmente rilevante la condotta sia del D. che del S.: ciò, legittimamente, giacché ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale l’inesistenza di una pronuncia del giudice penale non costituisce impedimento all’accertamento, da parte del giudice civile, della sussistenza degli elementi costitutivi del reato (Cass. 22.7.1996 n. 6527; Cass. 10.11.1997 n. 11038 precisa a sua volta che la risarcibilità del danno predetto non richiede che l’illecito integri in concreto un reato, essendo sufficiente che sia astrattamente preveduto come tale, come si desume dall’art. 198 c.p., secondo cui l’estinzione del reato o della pena non importa l’estinzione delle obbligazioni civili derivanti dal reato medesimo).

Orbene, la sentenza impugnata ha addebitato al D. la natura diffamatoria dell’esposto – aggiungendo che il relativo dolo generico è costituito dalla sola consapevolezza di pronunciare o scrivere una frase lesiva dell’altrui reputazione, e facendo così implicito riferimento all’art. 595 c.p. -, ed ha ascritto al S. l’omesso controllo sulla verità dell’esposto, con riferimento, del pari implicito, all’art. 57 c.p.

L’obbligazione risarcitoria del responsabile civile ha la stessa estensione di quella dell’autore del fatto reato e, pertanto, comprende anche la responsabilità per il danno non patrimoniale, che ha natura intrinseca di sanzione civile, come tale suscettibile di essere azionata verso ogni soggetto, che dell’evento è tenuto a rispondere (Cass. 20.11.1998 n. 11741): null’altro, pertanto, doveva aggiungere la sentenza impugnata nei riguardi dell’editore.

Dalla distinzione tra danno non patrimoniale e danno morale la giurisprudenza ha tratto che, comprendendo il primo anche gli effetti lesivi che prescindono dalla personalità psicologica del danneggiato, esso è riferibile anche ad entità giuridiche prive di fisicità (sent. nn. 7642/91 e 12951/92, citate; peraltro Cass. 15.4.1998 n. 3807 ha riconosciuto la legittimazione dell’ente esponenziale territoriale ad esigere il risarcimento anche del danno morale da reato).

Irrilevante è la circostanza che, come i ricorrenti sottolineano, la danneggiata sia una società commerciale di capitali.

Quanto, infatti, alla sussistenza del danno non patrimoniale conseguenza di un fatto reato, devesi indagare se il soggetto, che lamenta il danno stesso, sia o non effettivo titolare del diritto pregiudicato dal fatto reato.

La soluzione, implicitamente affermativa, cui nella specie è pervenuta la sentenza impugnata, non forma oggetto di censure di sorta (che investono le sole conseguenze tratte dalla Corte territoriale da tale implicita premessa), e, del resto, non è seriamente contestabile che anche una siffatta società, lesa nella propria reputazione commerciale da un articolo denigratorio, possa, in sede penale, proporre querela (art. 120 c.p.) e costituirsi parte civile (art. 74 c.p.p.), ovvero agire in sede civile.

5. Il rigetto di entrambi i ricorsi comporta la compensazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte riuniti i ricorsi, li rigetta e compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Redazione