Corte di Cassazione Civile sez. III 29/2/2008 n. 5505; Pres. Di Nanni L.F.

Redazione 29/02/08
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Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato in data 6/2/2002 il sig. C.M. interponeva gravame avanti alla Corte d’Appello di Firenze avverso l’ordinanza del 29/9/2001 emessa ex art. 186 quater c.p.c., dal Tribunale di Pistoia di reiezione dell’istanza di condanna del sig. Z.U. e della di lui compagnia assicuratrice Zurigo Assicurazioni s.p.a. al pagamento di somme ulteriori rispetto a quelle già liquidate nel corso del giudizio nei confronti di questi ultimi proposta per ivi sentirli condannare al ristoro dei danni subiti in conseguenza di sinistro stradale occorso il 01/11/1988.

Nella resistenza della sola società Zurigo Assicurazioni s.p.a., lo Z. essendosi mantenuto contumace, con sentenza del 22/12/2003 l’adita corte del merito rigettava l’appello, compensando integralmente le spese di lite del grado.

Avverso la suddetta sentenza il C. propone ora ricorso per Cassazione, affidato a 4^ motivi.

Resiste con controricorso la compagnia assicuratrice Zurigo Assicurazioni s.p.a., che propone altresì ricorso incidentale condizionato sulla base di unico motivo.

Motivi della decisione

Con il 1^ motivo il ricorrente principale denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 393 del 1958, art. 106, comma 1; artt. 2043, 2054 c.c.; artt. 40, 41 e 43 c.p.; nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si duole che la corte di merito abbia erroneamente interpretato l’art. 106 del previgente C.d.S., là dove prevede(va) che il conducente il quale intenda sorpassare deve – tra l’altro – "assicurarsi … che disponga di uno spazio libero sufficiente" per effettuare tale manovra, come applicabile anche alla "eventualità dell’apertura di uno sportello".

Lamenta che "La norma, come interpretata dalla Corte di Appello porterebbe a risultati francamente assurdi ed aberranti, in quanto, avuto riguardo all’ingombro medio di uno sportello aperto (circa 100 c.), se la norma dovesse essere davvero interpretata nel senso che per effettuare sorpasso occorre(va) tenere una distanza tale da ovviare alla possibile apertura di uno sportello, e quindi di circa 100 cm, sarebbe di fatto quasi sempre precluso, sia nelle città che in strade extraurbane il sorpasso di veicoli; e sempre vietato il sorpasso di camion, caravan e camper (la cui larghezza massima è pari a cm 250, e quella usuale di cm 220-230), pari circa alla larghezza massima della maggior parte delle corsie; ben di più per i camion".

Si duole che la corte di merito non abbia in ogni caso applicato, "in presenza di una pluralità (foss’anche a ritenerla tale) di condotte causali", il principio per il quale "l’efficacia assorbente di una la pone come causa esclusiva dell’evento", che avrebbe altrimenti indotto a "concludere per la natura esclusiva della responsabilità dello Z.".

Il motivo è infondato.

Risponde a principio consolidato in giurisprudenza di legittimità che il sorpasso costituisce una manovra pericolosa e complessa, stante i rischi che comporta in relazione alla possibilità di scontri stradali ed il presentarsi di circostanze che, per la loro pericolosità possono imporne la relativa "estensione", sicchè esso deve essere effettuato solamente con estrema cautela e in presenza di condizioni di assoluta sicurezza (v. Cass., 18/6/1958, n. 2100).

Non soltanto, quindi, con l’uso delle prescritte segnalazioni, ma in condizioni di via libera, e mai a distanza ravvicinata dal veicolo che procede innanzi, ovvero con irregolare sopravanzamento sulla destra (v. Cass., 27/5/1964, n. 1307).

Questa Corte ha già avuto modo altresì di precisare che siffatte condizioni di assoluta sicurezza non possono ad esempio considerarsi sussistenti allorchè un autoveicolo, eseguito un sorpasso mentre la strada trovasi ad un certo punto ostruita nella sua direzione di marcia, debba immediatamente spostarsi sulla destra, invadendo la mezzeria stradale del sopraggiungente veicolo sorpassato, a cosi breve distanza da esso da rendere inevitabile la collisione delle due vetture (v. Cass., 27/5/1964, n. 1307). Ovvero quando il conducente, prima di decidersi al sorpasso, non abbia la certezza che il veicolo da sorpassare non taglierà la strada (v. Cass., 18/6/1958, n. 2100).

Orbene, a tale stregua nell’accingersi ad un sorpasso il conducente di un veicolo deve non solo attivare la propria attenzione, ma altresì constatare che vi sia spazio libero sufficiente perchè esso possa avvenire senza alcun pericolo, potendo essere cioè effettuato anche con la messa in atto di manovre di emergenza che dovessero rendersi necessarie, essendo invero tenuto a soprassedere laddove, in relazione alla particolari circostanze del caso concreto, non abbia la certezza della sussistenza di spazio sufficiente ad escludere ogni possibilità di collisione (cfr. Cass., 9/12/1986, n. 7748).

Quanto alle distanze di sicurezza da mantenersi rispetto ai veicoli che si intendono sorpassare, in assenza di previsione normativa di una misura fissa in proposito spetta in genere al giudice valutarne, di volta in volta, la congruità, in relazione alle circostanze del caso concreto (cfr. Cass., 28/2/1983, n. 1510).

Premesso che è del tutto indifferente che un veicolo, perchè possa considerarsi "in circolazione" sia in marcia ovvero in sosta in luoghi ove si svolga il traffico veicolare, dovendo qualificarsi come "scontro" qualsiasi urto tra due (o più) veicoli in marcia ovvero tra uno in moto ed uno fermo (cfr. Cass., 16/2/2006, n. 3437; Cass., 21/9/2005, n. 18618; Cass., 5/7/2004, n. 12284), va sotto altro profilo osservato come risponda invero a pacifico principio che gli apprezzamenti del giudice di merito circa lo svolgimento di un incidente stradale e la efficienza causale delle persone coinvolte concretano un giudizio di fatto, non riesaminabile in sede di legittimità in presenza di congrua motivazione (v. Cass., 6/12/2007, n. 25492; Cass., 14/3/1995, n. 2932; Cass., 21/4/1990, n. 3343).

D’altro canto, in relazione alla determinazione del grado delle colpe concorrenti il giudice del merito assolve l’obbligo della motivazione con l’esprimere come nella specie il proprio convincimento circa la maggiore o uguale gravita dell’una o dell’altra colpa, in base ad una valutazione complessiva dei fatti e dell’efficienza causale del comportamento colposo di ciascuno dei corresponsabili (v. Cass., 17/’4/1982, n. 2337; Cass., 21/3/1977, n. 1110; Cass., 29/1/1971, n. 226. E già Cass., 3/4/1964, n. 861).

Orbene, nel ritenere che il C. "non usò", nel caso, "la dovuta prudenza nell’effettuare il sorpasso della lunga coda di autovetture ferme in prossimità dell’incrocio regolato da semaforo …, tenuto conto della situazione di intenso traffico, dovuto al fatto che provenivano altri veicoli dall’opposto senso di marcia"; ed altresì che "in violazione della norma di cui all’art. 106 C.d.S., comma 1, previgente" il medesimo "omise di osservare la distanza laterale di sicurezza, tanto più necessaria, considerato l’ingombro del porta oggetti situato nella parte posteriore del motociclo"; e nel sottolineare, ancora, come "Sotto tale profilo occorre osservare che, alla stregua della norma in esame, il sorpasso può essere effettuato solo quando lo consentono condizioni di sicurezza", sicchè la manovra può essere iniziata "solo quando, sia in profondità che lateralmente, esista uno spazio libero sufficiente ad escludere l’insorgere di pericoli durante tutto il tempo del suo svolgimento; nonchè nel concludere che "pur in presenza della grave imprudenza di Z.U., il quale aprì la portiera della autovettura senza prima accertarsi che non sopraggiungesse alcun veicolo da tergo, deve ritenersi che tale comportamento non sìa in collegamento eziologico esclusivo con l’evento dannoso, non potendosi configurare come un evento del tutto imprevedibile ed inevitabile", per cui "non sussistono i presupposti per escludere il concorso di colpa di C.M." nella verificazione del sinistro, e "valutati comparativamente i singoli comportamenti delle parti" alla stregua delle "circostanze emerse nel corso del processo" la responsabilità dell’evento dannoso deve "essere ascritta a carico di Z.U. nella misura del 70% e a carico di C. M. nella residua quota del 30%", la corte di merito ha fatto invero, nell’esercizio dei poteri ad essi spettanti, corretta applicazione dei suindicati principi.

Al riguardo, si noti, vale in particolare osservare che, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente (il quale a relativo sostegno fa richiamo a non recenti precedenti della Cassazione penale) anche l’apertura dello sportello effettuato senza essersi preventivamente accertati della possibilità di farlo liberamente costuisce evento da prevedersi dal conducente diligente che intraprenda una manovra di sorpasso di autovettura in sosta o fermata – e a fortiori di più autovetture come nella specie incolonnate al semaforo segnalante luce rossa -, come il verificarsi di numerosi eventi del genere (tra cui quegli stessi di cui ai precedenti evocati dall’odierno ricorrente) vale invero sintomaticamente ad attestare (cfr. in argomento Cass., 6/6/2002, n. 8216), e come può agevolmente desumersi dalla circostanza che lo stesso legislatore ha inteso prevenire e debitamente sanzionare il fenomeno, introducendo la specifica ed autonoma disposizione di cui al D.Lgs. n. 285 del 1992, art. 157, comma 7.

Con il 2^ motivo il ricorrente principale denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 1227, 2043, 2054, 2056, 2059 c.c., art. 185 c.p., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (in tema di determinazione del quantum del risarcimento a titolo di danno biologico).

Si duole che i giudici di merito abbiano fatto ricorso, ai fini della liquidazione del quantum del risarcimento a titolo di danno biologico, alle tabelle applicate presso il Tribunale di Milano, altresì "in una versione anteriore a quella della data della liquidazione", quelle cioè "in vigore nel distretto al momento del sinistro anzichè della sentenza", senza fornire alcuna motivazione o giustificazione logica, nonchè recanti somme inferiori a quelle di cui alle tabelle previste dalla L. n. 57 del 2001, senza provvedersi altresì al relativo adeguamento al caso concreto mediante la c.d. "personalizzazione".

Si duole che si sia analogamente provveduto per il danno morale, liquidato come "quota parte" del danno biologico, senza che "i Giudici di merito spiegassero (la Corte di appello, tra l’altro, di ciò espressamente investita) il perchè di una scelta "al massimo ribasso".

Lamenta che la corte di merito non abbia nemmeno provveduto ad adeguare gli ammontari liquidati dal giudici di prime cure, all’esito della riforma della decisione di quest’ultimo con la riduzione dal 70% al 50% della ritenuta responsabilità dello Z..

Il motivo è infondato.

Va anzitutto premesso che l’esercizio del potere discrezionale di determinare l’ammontare del danno in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c., non essendo censurabile in sede di legittimità se non per vizi della motivazione (cfr. Cass., 11/10/2006, n. 21802), non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità laddove la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito (v. Cass., 27/6/2001, n. 8807; Cass., n. 409 del 2000).

In tema di danno biologico e morale, la liquidazione per punto d’invalidità effettuata sulla scorta delle c.d. tabelle, elaborate nei diversi uffici giudiziari, si fonda invero sul potere del giudice di fare ricorso al criterio equitativo previsto dall’art. 1226 c.c..

Atteso che dette tabelle non costituiscono norme di diritto, nè rientrano nella nozione di fatto di comune esperienza di cui all’art. 115 c.p.c., la parte che in sede di legittimità lamenti il vizio di motivazione della sentenza (consistente nell’incongrua applicazione delle tabelle) non può limitarsi ad una generica denuncia del vizio relativamente al valore del punto preso in considerazione, ma deve dare conto delle tabelle invocate, indicando in quale atto esse siano state prodotte, e in quale senso siano state disapplicate o incongruamente applicate dal giudice di merito (v. Cass., 1/6/2006, n. 13130; Cass., 16/12/2005, n. 27723).

Orbene, premesso, da un canto, che la Corte Suprema di Cassazione ha da tempo avallato la legittimità del riferimento, da parte dei giudici di merito a parametri applicati in casi analoghi ai fini della determinazione della somma dovuta a titolo di risarcimento del danno "morale" in una frazione dell’importo riconosciuto per il risarcimento del danno alla salute (v. Cass., 5/8/2004, n. 15001); e, per altro verso, che le riferite doglianze del ricorrente suscettibili di disamina in questa sede di legittimità sono solamente quelle concernenti il denunziato vizio di motivazione, va sottolineato come il ricorrente medesimo abbia invero omesso -in violazione del principio di autosufficienza – di riportare nel ricorso le diverse tabelle asseritamente applicabili in luogo di quelle c.d. "di Milano" nel caso utilizzate dai giudici di merito.

Tabelle che, si noti, questa Corte ha avuto modo di affermare essere invero le maggiormente testate, al punto da palesarsi come idonee ad orientare ad una liquidazione in termini statisticamente più egualitari (v. Cass., 12/7/2006, n. 15760).

Va d’altro canto sottolineato che, nell’esaminare le analoghe doglianze dall’odierno ricorrente già in sede di gravame di merito proposte, il giudice dell’appello ha dato atto in motivazione che "i criteri di liquidazione del danno adottati dal Tribunale di Pistoia risultano corrispondenti a quelli usualmente applicati nel distretto (tabelle del Tribunale di Milano)" altresì sottolineando che "il giudice di primo grado ha adeguato la liquidazione alle peculiarità della specifica fattispecie concreta, tanto che ha determinato i postumi permanenti in misura superiore a quella indicata dal C.T.U.".

E come tale giudice si sia del pari attenuto al criterio usualmente utilizzato: anche ai fini della liquidazione del danno morale, da determinarsi nell’importo, in misura variabile, dalla metà ad un terzo del danno biologico, a tale stregua "pervenendo alla determinazione ritenuta più adeguata al caso concreto, con la conseguenza che non possono essere condivise le censure sul punto".

Motivazione invero sufficiente e conforme, che pertanto sì sottrae alle censure mosse (anche) nella presente sede.

La Corte di merito ha infatti dato atto che il giudice di prime cure ha sulla questione preso in considerazione i criteri di liquidazione del danno "usualmente applicati nel distretto" (e corrispondenti a quelli delle tabelle del Tribunale di Milano), correttamente provvedendo quindi a realizzarne la c.d. personalizzazione (v. Cass., 25/5/2007, n. 12247; Cass., 29/3/2007, n. 7740; Cass., 12/7/2006, n. 15760; Cass., 18/11/2005, n. 24451), con l’adeguare "la liquidazione alle peculiarità della specifica fattispecie concreta".

Con il 3^ motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 1227, 2043, 2054, 2056, 2059 c.c., art. 185 c.p., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c..p.c., comma 1, n. 5 (in tema di determinazione del quantum del risarcimento a titolo di danno patrimoniale per riduzione della capacità di guadagno).

Lamenta l’erroneità del calcolo operato dai giudizi di merito, per essersi, da un canto, fatto riferimento alle tabelle allegate al R.D. n. 1403 del 1922 "in maniera del tutto acritica ed automatica", applicando "sic et simpliciter il coefficiente tabellare e lo scarto tra vita fisica e lavorativa previsto"; ed essersi per altro verso – al fine di determinare la relativa incidenza degli acconti versati – proceduto alla devalutazione della somma liquidata a titolo di risarcimento alla data del sinistro.

Il motivo è infondato.

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, nel procedere alla liquidazione del danno futuro il giudice del merito può far ricorso alle tabelle di cui al R.D. n. 1403 del 1922, oppure ricorrere alle regole di equità di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ., trattandosi di criteri (peraltro integrabili tra loro) non tassativi, e costituendo tale scelta un giudizio di merito che, se congruamente motivato, è insindacabile in sede di legittimità (v. Cass., 13/1/2005, n. 572; Cass., 19/8/2003, n. 12124).

Anche l’entità di detto scarto, costituendo una valutazione di merito, è invero insindacabile in sede di legittimità, in presenza di congrua motivazione (v. Cass., 16/5/2003, n. 7629).

Si è d’altro canto precisato che ove la liquidazione del danno da lucro cessante venga effettuata in base a parametri di riferimento noti (quale, ad esempio, il triplo della pensione sociale L. n. 39 del 1977, ex art. 4, comma 3), ed a sistemi di capitalizzazione largamente invalsi ( quale quello di cui alle tabelle allegate al R.D. n. 1403 del 1922), in tanto è configurabile un vizio della motivazione della sentenza che non abbia esposto i valori di riferimento ed il sistema del calcolo in quanto il ricorrente non si limiti all’affermazione che la somma riconosciuta dal giudice è insufficiente o eccessiva, ma specificamente assuma che, in base a quei parametri ed a quei sistemi, la somma da liquidare sarebbe stata apprezzabilmente diversa, indicandone l’entità e chiarendo le ragioni della diversità del risultato.

Un vizio della motivazione della sentenza che abbia capitalizzato, pur senza indicazione dei coefficienti applicati, la somma dovuta al danneggiato a titolo di danno da lucro cessante da perdita o diminuzione della capacità di produrre un reddito futuro è allora configurabile laddove si assuma come vero che la somma è, appunto, "immotivatamente" ed apprezzabilmente diversa da quella che si sarebbe ottenuta in applicazione dei coefficienti di cui al R.D. n. 1403 del 1922, che è onere del ricorrente indicare.

Il giudice del merito è infatti tenuto a motivare in ordine alle ragioni che lo abbiano indotto a considerare aspetti particolari ed a discostarsi da quel risultato, ma non anche a spiegare perchè al risultato aritmetico si sia invece attenuto – a meno che situazioni particolari non siano state specificamente prospettate dalle parti e sia stata, tuttavia, omessa ogni considerazione al riguardo – (v. Cass., 23/1/2006, n. 1215).

Orbene, va osservato che nel caso, nell’affrontare la questione già sottoposta in sede di gravame di merito, e nel riconoscere – diversamente dal giudice di prime cure – l’incidenza dei postumi permanenti "accertati dal C.T.U. … nella misura del 23%" (anche) "sulla capacità di guadagno" dell’odierno ricorrente, la corte di merito ha invero proceduto alla "liquidazione tabellare, utilizzando come parametro i redditi percepiti nel 2001 … devalutati alla data del luglio 1995, presumibile inizio dell’attività lavorativa", al riguardo altresì considerando "il reddito annuo … ", e pervenendo quindi ad una determinazione dell’importo dovuto stimata all’attualità, sul punto riformando la sentenza del giudice di primo grado che aveva invero erroneamente liquidato le somme dovute a C.M. alla data del 1997, epoca dell’ultimo acconto versato dalla Zurigo Assicurazioni s.p.a., invece che alla data della ordinanza-sentenza".

Ed ha fatto quindi luogo "alla rivalutazione delle somme liquidate nella ordinanza-sentenza impugnata dal 1997 ad oggi", con riconoscimento altresì sugli importi a tale stregua rideterminati della corresponsione degli interessi, "in applicazione del principio stabilito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 1712 del 17.2.1995".

A fronte di siffatta liquidazione correttamente operata all’attualità (cfr. Cass., 23/1/2006, n. 1215; Cass., 3/9/2005, n. 17743), non osservando i suindicati principi il ricorrente si limita invero a riportare un non meglio precisato brano di sentenza senza nemmeno indicare – in violazione del principio di autosufficienza – in base a quali altri parametri ed altri sistemi la somma da liquidare sarebbe nel caso stata apprezzabilmente diversa, omettendo di indicarne l’entità e di chiarire le ragioni della diversità del risultato.

Con il 4^ motivo il ricorrente principale denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 1227, 2043, 2054, 2056, 2059 c.c., art. 185 c.p., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (in tema di determinazione del quantum del risarcimento a titolo di danno patrimoniale per spese mediche e varie).

Lamenta che erroneamente i giudici del merito hanno rigettato la domanda di risarcimento delle spese vive per "mancata produzione dei giustificativi", laddove per i danni patrimoniali che derivano da "un decremento patrimoniale quotidiano connesso alle singole e di per sè all’occorrenza modeste uscite patrimoniali connesse allo stato di ricovero, di malattia, di degenza e di convalescenza", deve farsi ricorso, trattandosi di probatio diabolica, alla valutazione equitativa.

Il motivo è infondato.

Va anzitutto premesso che il danno per spese di assistenza, divenute necessarie in conseguenza di un incidente stradale subito dal danneggiato, costituisce una componente del danno patrimoniale, e non del danno biologico, in quanto l’assistenza è un rimedio per sopperire alle conseguenze del danno alla salute non diversamente dalla necessità di cure sanitarie, e l’entità del danno è pari alla misura della spesa sostenuta per l’assistenza.

Ne consegue che se tale spesa non viene sostenuta la voce di danno non sussiste, e che la prova dei costi sopportati deve essere fornita dal soggetto danneggiato, salvo che, sussistendone le condizioni, il giudice non ritenga di ricorrere ad una valutazione equitativa (v. Cass., 8/4/2003, n. 5504).

Deve quindi ribadirsi che la liquidazione del danno in via equitativa risponde ad un potere discrezionale conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., il cui esercizio è peraltro subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile per la parte interessata provare il danno nel suo preciso ammontare (v. Cass., 18/8/2005, n. 16992).

In ogni caso esso non attiene anche all’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, in ordine al quale presuppone già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno, nè esonera la parte stessa dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre perchè l’apprezzamento equitativo sia per quanto possibile ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della determinazione dell’equivalente pecuniario del danno (cfr. Cass., 11/7/2007, n. 15585; Cass., 7/6/2007, n. 13288; Cass., 18/11/2002, n. 16202).

Con specifico riferimento alle spese "vive", si è d’altro canto precisato (pur se in ordine a diversa fattispecie) che va fornita la prova di quelle effettivamente sostenute, di cui si chieda il ristoro (cfr. Cass., 23/1/2002, n. 738).

Orbene, nel caso il ricorrente nemmeno precisa di quale voce di danno lamenta il mancato ristoro, facendo genericamente riferimento, in violazione altresì del principio di autosufficienza, a "danni patrimoniali che derivino da un periodo di tempo continuativo e prolungato, caratterizzato da un decremento patrimoniale quotidiano connesso alle singole e di per sè all’occorrenza modeste uscite patrimoniali connesse allo stato di ricovero, di malattia, di degenza, e di convalescenza".

Danni che la corte di merito ha osservato non essere stati invero nemmeno provati nell’an ("in difetto di qualunque elemento di prova in ordine ai dedotti esborsi, deve respingersi anche il motivo di gravame relativo alla omessa liquidazione degli importi relativi alle spese di degenza, di prestazioni chirurgiche e diagnostiche, nonchè di assistenza e di viaggi, e per danni al vestiario, spese peraltro neppure specificate, se non con riferimento agli atti del procedimento di primo grado, che non risultano allegati"), sicchè ne rimane conseguentemente preclusa la logicamente successiva questione dell’accertamento del relativo quantum.

Con unico motivo la ricorrente incidentale in via condizionata denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2056, 1223 e 1225 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Lamenta che erroneamente la corte di merito ha, in riforma sul punto della decisione di prime cure, riconosciuto alla controparte il risarcimento del danno patrimoniale conseguente ai postumi permanenti invalidanti, senza al riguardo considerare che, come affermato dal C.T.U., all’epoca del sinistro il C. era uno studente universitario.

Si duole altresì che del tutto illogicamente e contraddittoriamente i giudici di merito abbiano fissato l’inizio dell’attività lavorativa del C. al luglio 1995, "pur avendo rilevato che (soltanto) nel corso del giudizio di appello egli ha prodotto una dichiarazione dei redditi delle persone fisiche relativa all’anno 2001", sicchè "sarebbe stato logico ritenere che solo in quell’anno il danneggiato abbia iniziato una attività di lavoro autonomo".

Stante il rigetto del ricorso principale il motivo è invero assorbito.

L’esito finale della lite induce a disporre la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi. Rigetta il ricorso principale. Dichiara assorbito il ricorso incidentale. Spese compensate.

Redazione