Corte di Cassazione Civile sez. III 28/8/2009 n. 18805; Pres. Varrone M.

Redazione 28/08/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 2 e il 12.10.1995 B. S. ha convenuto davanti al Tribunale di Monza la s.p.a.

Clinica (omissis), di (omissis), e il Dott. D.C.P. F.I., chirurgo estetico, chiedendo il risarcimento dei danni subiti a seguito di un intervento di ingrandimento del seno, liposuzione delle cosce e rinoplastica, il primo dei quali aveva dato risultati negativi, residuando cicatrici deturpanti, che non era stato possibile eliminare, nonostante due successivi interventi chirurgici riparatori.

Ciò le aveva provocato gravi danni, patrimoniali e non patrimoniali, considerato che essa, appena ventenne all’epoca del fatto, aveva iniziato l’attività di indossatrice e di dimostratrice di capi d’abbigliamento prodotti dall’azienda di famiglia.

I convenuti si sono costituiti, il D.C. negando la sua responsabilità e la Clinica (omissis) eccependo la sua carenza di legittimazione passiva, poichè il chirurgo non era suo dipendente o collaboratore, ma utilizzava episodicamente la Clinica per gli interventi sui suoi pazienti.

Esperita l’istruttoria anche tramite CTU, con sentenza n. 1630 del 2001, il Tribunale di Monza ha condannato i convenuti, in via solidale, a pagare in risarcimento dei danni la somma complessiva di L. 229.993.000, oltre interessi dalla data della sentenza.

Proposto appello principale dalla B. e incidentale dalla Casa di cura, e rimasto contumace il D.C., con sentenza 28 ottobre-28 novembre 2003 n. 3273 la Corte di appello di Milano, in parziale riforma, ha condannato gli appellati a pagare, in aggiunta alle somme liquidate dal Tribunale, Euro 15.000,00 in risarcimento dei danni patrimoniali ed Euro 5.834,00, in rimborso dei costi di un intervento chirurgico riparatore, non liquidati in primo grado; oltre rivalutazione monetaria ed interessi su entrambe le somme.

Con atto notificato il 7.1.2005 la B. propone un motivo di ricorso per cassazione.

Resiste con controricorso la Clinica, proponendo quattro motivi di ricorso incidentale.

La ricorrente ha depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Va preliminarmente disposta la riunione dei due ricorsi (art. 335 cod. proc. civ.).

2.- Premesso che risulta definitivamente accertata la responsabilità personale del chirurgo, non essendo stata impugnata sul punto la sentenza del Tribunale, conviene prendere anzitutto in esame il primo motivo del ricorso incidentale, che concerne l’estensibilità alla Clinica (omissis) della responsabilità per i danni subiti dalla B., mentre gli altri motivi, principali e incidentali, riguardano la quantificazione dei danni.

Denunciando violazione degli artt. 1176, 1228, 2043, 2049 e 2236 cod. civ., art. 189 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, la Clinica (omissis) assume di non dover rispondere personalmente e solidalmente dell’operato del chirurgo, come ha disposto la Corte di appello, poichè la B. ebbe a concordare l’esecuzione dell’intervento esclusivamente e direttamente con il ********** P., e fu quest’ultimo, non la paziente, a scegliere la clinica nella quale eseguire l’intervento, a prenotare la camera e la sala operatoria ed a riscuotere direttamente dalla cliente il proprio onorario.

Rileva la ricorrente che il chirurgo non era legato da alcun rapporto di lavoro dipendente o di collaborazione stabile con la Clinica, presso la quale eseguiva solo sporadicamente interventi chirurgici per la sua personale clientela; che la B. pagò alla Clinica solo le fatture relative alla degenza, mentre i compensi per l’intervento chirurgico e per le prestazioni dell’anestesista erano stati da lei direttamente pagati al D.C.; che il rimanente personale della Clinica non ha svolto alcuna attività in favore della B..

Assume che la responsabilità dell’ente ospedaliero può essere affermata solo in relazione all’inadempimento di obbligazioni proprie dell’ente stesso, obbligazioni non sussistenti nel caso di specie, ove non è prospettabile alcuna sua responsabilità contrattuale, per mancanza di accordo diretto fra essa e la B.; nè alcuna responsabilità extracontrattuale, essendo la colpa dell’accaduto da ascrivere solo al chirurgo.

Richiama la giurisprudenza di questa Corte secondo cui – ove la prestazione medica sia stata direttamente concordata fra medico e paziente – la responsabilità dell’ospedale può essere affermata solo per l’inadempimento delle obbligazioni a carico dello stesso (Cass. civ. n. 9556/2002).

2.1.- Il motivo non è fondato.

La ricorrente assume, nella sostanza, che la B. avrebbe concluso un contratto con la Clinica, relativo alla degenza, ed altro separato contratto con il chirurgo, avente ad oggetto l’intervento operatorio.

Essendosi i danni verificati solo per errore del chirurgo, la Clinica non dovrebbe risponderne.

Premesso che non si può escludere, in linea di principio ed in astratto, che le parti liberamente assumano accordi di tal genere, è indubbio che una tale, inconsueta regolamentazione richiederebbe quanto meno la prova certa e rigorosa dell’esistenza dei due separati contratti, con espressa specificazione nelle relative clausole – approvate dal paziente in piena libertà e consapevolezza – delle prestazioni incluse nell’uno e nell’altro e dei soggetti su cui gravano le conseguenti responsabilità (nei limiti in cui la legge permette l’esplicarsi dell’autonomia privata in materia), considerato che non è sempre agevole parcellizzare e separare fra loro i diversi contributi inerenti ad una prestazione sanitaria complessa quale un intervento chirurgico (quali sono le prestazioni incluse nella degenza? Solo il vitto e l’alloggio? Chi risponde delle prestazioni pre e post operatorie? Chi è responsabile delle medicazioni e delle terapie, quanto alla prescrizione e quanto all’esecuzione e somministrazione dei medicamenti? come si valuta il concorso fra le ipotetiche negligenze?…).

Nella specie nulla di tutto ciò risulta dimostrato ed è chiaro che si tratta di un modello a dir poco inconsueto e difficilmente praticabile.

La Corte di appello ha assunto la sua decisione sul presupposto che i fatti si siano svolti in modo diverso, cioè secondo il modello consueto, nel senso che la B. ha preso per la prima volta contatto con il D.C.P. e – una volta deciso di sottoporsi all’intervento chirurgico – si è rivolta alla Clinica alla quale il chirurgo l’ha indirizzata, per ottenere la prestazione chirurgica unitamente a tutte le prestazioni accessorie, mediche e non, senza alcuna separazione o delimitazione di competenze e responsabilità.

La Corte di appello ha altresì accertato che all’intervento chirurgico ha partecipato anche personale medico alle dipendenze della Clinica: vi hanno partecipato, in particolare, il direttore del reparto con mansioni di aiuto chirurgo, e l’anestesista.

Su questi presupposti, giustamente ha affermato la responsabilità solidale della Clinica per l’esito infausto dell’intervento.

Ed invero, ove un istituto ospedaliero autorizzi un chirurgo od un medico ad operare al suo interno, mettendogli a disposizione le sue attrezzature e la sua organizzazione, e con esso cooperi, concludendo con il paziente il contratto per la degenza e le prestazioni accessorie, esso viene ad assumere contrattualmente, rispetto al paziente, la posizione e le responsabilità tipiche dell’impresa erogatrice del complesso delle prestazioni sanitarie, ivi inclusa l’attività del chirurgo.

La circostanza che il paziente sia pervenuto alla clinica solo attraverso il medico e per sua indicazione rimane irrilevante (cfr., fra le altre, Cass. civ. S.U. Sez. U, 1 luglio 2002 n. 9556; Cass. civ. Sez. 3, 14 giugno 2007 n. 13953; Cass. civ. Sez. 3, 26 gennaio 2006 n. 1698).

Ed invero, il medico non avrebbe potuto operare se non nell’ambito dell’organizzazione ospedaliera ed, accettandone l’attività, la casa di cura ha assunto le conseguenti responsabilità.

Non si può certo ammettere che un ente ospedaliero dia accesso a chiunque si presenti, senza averne previamente verificati i titoli di abilitazione, la serietà, la competenza e affidabilità, anche in relazione alle esperienze pregresse, per poi trasferire sui pazienti gli effetti dannosi dell’eventuale imperizia dell’operatore, adducendo a motivo di averlo solo estemporaneamente ospitato.

Si consideri, ancora, che la suddetta ospitalità non è prestata a titolo gratuito, in quanto la casa di cura trae vantaggio quanto meno dalle rette di degenza pagate dai clienti introdotti dal medico esterno, se non anche dall’eventuale corrispettivo versato dallo stesso. Traendo un utile dall’attività, l’impresa ospedaliera non può poi sottrarsi ai conseguenti rischi.

Infine, il risultato dell’intervento o della cura è o può essere il frutto del concorso di una molteplicità di fattori, non sempre agevolmente distinguibili fra loro, di cui va imputata la responsabilità a chi, avendone assunti l’organizzazione ed il coordinamento, sia in grado di individuare gli effettivi responsabili ben più e meglio che non il paziente danneggiato.

Sotto ogni profilo, pertanto, la decisione della Corte di appello di estendere alla Clinica (omissis) la responsabilità per l’operato del D.C.P. appare conforme alla legge.

3.- Con l’unico motivo la ricorrente principale lamenta la violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c. e l’omessa o insufficiente motivazione, quanto alla liquidazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali conseguenti all’invalidità temporanea e permanente.

3.1.- Quanto ai danni patrimoniali, deve essere preliminarmente disatteso il terzo motivo del ricorso incidentale – che viene congiuntamente esaminato – che denuncia l’insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto, poichè la danneggiata non avrebbe fornito la prova di avere svolto attività remunerata come modella, nè la prova della diminuita capacità lavorativa.

La sentenza appare sul punto adeguatamente motivata, con il richiamo degli elementi di prova da cui la Corte ha tratto il suo convincimento e pertanto non appare censurabile, essendo la valutazione delle prove rimessa alla discrezionalità del giudice di merito, con il solo limite dell’adeguata motivazione.

3.2.- La ricorrente principale contesta invece il medesimo capo della decisione sotto il profilo dell’entità della liquidazione, sul rilievo che la Corte di appello – pur avendo riconosciuto che le lesioni le causeranno la perdita di chances lavorative, tenuto conto della documentazione acquisita agli atti circa la sua attività di modella e fotomodella – ha quantificato il danno in termini sostanzialmente arbitrari, senza indicare i parametri ai quali ha voluto fare riferimento.

E’ incorsa poi in palese contraddizione, quantificando i danni patrimoniali in Euro 30.000-000,00 nella motivazione, ed in Euro 15.000,00 nel dispositivo.

La Clinica (omissis) ha chiesto la correzione della sentenza, assumendo che la somma di 30 milioni va letta come Lire, anzichè come Euro, e che – avendo il Tribunale già liquidato L. 20 milioni per i danni patrimoniali da perdita di chances – il dispositivo va inteso come condanna al pagamento della differenza, pari ad Euro 5.164,57.

L’istanza di correzione è stata respinta, non trattandosi di semplice errore materiale, e la ricorrente, alla luce delle considerazioni contenute nella motivazione, assume che deve escludersi che la Corte di appello volesse incrementare la somma da liquidare solo di tale minimo importo, per di più comprensivo di rivalutazione monetaria e di interessi.

4.- Le censure sono fondate.

Giustamente rileva la ricorrente che il giudice, pur quando decida in via equitativa, deve indicare i criteri ai quali ha voluto fare riferimento per determinare la somma dovuta. Nel caso di danno patrimoniale da perdita di chances tali criteri consistono, in linea di massima, nell’entità dei guadagni percepiti dal danneggiato al momento dell’illecito; nella concreta prevedibilità di un loro incremento in futuro; nella misura in cui le lesioni possono pregiudicare la capacità di guadagno e l’incremento della stessa.

(Fermo restando peraltro che è onere della danneggiata offrire al giudicante la prova dei dati di fatto rilevanti allo scopo).

Inoltre, risulta effettivamente incomprensibile quale somma la Corte di appello abbia voluto liquidare in risarcimento dei danni patrimoniali.

E’ presumibilmente da escludere che abbia voluto attribuire la somma di Euro 30 milioni, che figura nella motivazione.

Non è dato comprendere, tuttavia, se l’errore debba essere corretto in L. 30 milioni, oppure in Euro 30.000. Nè risulta se la quantificazione del danno – qualunque essa sia – si riferisca al danno globale, e vada quindi intesa al lordo delle somme già liquidate dal Tribunale, o se sia da attribuire in aggiunta a quanto già liquidato.

La sentenza impugnata deve essere per questa parte annullata con rinvio, per l’integrazione della motivazione, nella parte in cui è lacunosa, e per la decisione circa la somma dovuta in risarcimento dei danni patrimoniali.

5.- La ricorrente lamenta poi che la Corte di appello abbia confermato la sentenza di primo grado nella parte in cui le ha attribuito un’unica somma in risarcimento dei danni fisici – le lesioni subite, la malattia, tre interventi operatori, la protesi ad un seno e un’infezione sviluppatasi nell’altro seno, con fenomeni di rigetto) – senza tenere conto dei danni "non fisici", cioè dei danni alla vita di relazione, ivi inclusi i gravi turbamenti della sfera affettiva e sessuale, sebbene essa ne avesse chiesto con l’atto di appello il separato conteggio.

La motivazione della Corte di appello è gravemente lacunosa e contrastante con i rilievi del CTU – a cui la sentenza ha dichiarato di volersi uniformare – nella parte in cui ha dichiarato che le lesioni al seno non hanno carattere funzionale e che i problemi di depressione avrebbero potuto essere agevolmente superati.

Il CTU ha infatti valutato l’incidenza delle lesioni nella misura del 50% del totale, ed ha ritenuto necessario un trattamento psicoterapeutico per il superamento dello stato depressivo.

5.1.- La censura è fondata.

La motivazione con cui la Corte di appello ha confermato sul punto la sentenza di primo grado appare insufficiente e contraddittoria.

Da un lato essa ha fatto riferimento all’asserito carattere non funzionale delle lesioni, concetto che non appare in termini con riferimento ai danni fatti valere nel caso di specie. Il concetto di funzionalità va posto in relazione con la natura del danno di cui si chiede il risarcimento, e la presenza di cicatrici deturpanti sul seno non può considerarsi "non funzionale", allorchè vengano in considerazione l’estetica e la sfera sessuale della persona.

Appare poi intrinsecamente contraddittorio il rilievo che il danno da depressione è di scarso momento perchè potrebbe essere superato tramite cure psicoterapiche.

Il fatto stesso che si debba ricorrere ad una psicoterapia manifesta la presenza di un turbamento grave.

Manca inoltre nella motivazione ogni riferimento alla specificità delle voci di danno non patrimoniale a cui si è inteso dare riparazione mediante la somma liquidata.

La più recente giurisprudenza di questa Corte ha precisato che i danni non patrimoniali di cui all’art. 2059 cod. civ. comprendono tutti i pregiudizi non connotati dalla patrimonialità, e che la categoria non può essere suddivisa in diverse sottovoci suscettibili di autonomo risarcimento (danno esistenziale, alla vita di relazione, estetico, morale, biologico, ecc), come si è spesso verificato in passato nella prassi giurisprudenziale. Sicchè va liquidata un’unica somma in risarcimento di tutti i danni non patrimoniali (cfr. Cass. civ. S.U. 11 novembre 2008 n. 26972, n. 26973).

La sentenza impugnata non appare meritevole di censura, pertanto, nella parte in cui non ha attribuito somme diverse a titolo di risarcimento dei danni che la ricorrente definisce fisici (tradizionalmente, danni biologici) e dei danni morali veri e propri.

La Corte di appello non ha però tenuto conto che i diversi aspetti che il danno non patrimoniale presenta nel singolo caso debbono essere tenuti in considerazione, nel quantificare l’unica somma da attribuire in risarcimento, ed ha confermato la liquidazione del Tribunale, senza verificare se essa fosse adeguata alla reale consistenza dei danni non patrimoniali nel caso di specie, in considerazione della loro attinenza all’integrità fisica, alla sfera relazionale, psichica, sessuale, emotiva, ecc..

E’ chiaro infatti che l’unica somma da attribuire in risarcimento dei danni non patrimoniali può e deve essere diversamente quantificata nei diversi casi, in relazione alle natura delle conseguenze lesive prodotte dall’illecito, secondo che esse attengano prevalentemente ad uno o ad altro aspetto, od a più aspetti congiuntamente, sì da attribuire in ogni caso concreto ed effettivo ristoro dell’intero danno, in tutti i suoi aspetti.

Sotto questo profilo la sentenza impugnata appare del tutto carente di motivazione, sebbene l’appellante avesse espressamente sollecitato, con i motivi di appello, la considerazione di tutti i peculiari aspetti che i danni non patrimoniali hanno assunto nel caso particolare e sebbene l’esigenza che la liquidazione sia accompagnata da congrua e specifica motivazione assuma particolare rilievo, con riguardo alla liquidazione globale e onnicomprensiva, al fine di evitare sia eccessive disparità di trattamento fra i diversi casi;

sia l’attribuzione di somme inadeguate, per difetto o per eccesso, rispetto alla reale consistenza dei danni.

6.- Con il secondo motivo del ricorso incidentale la Clinica (omissis) deduce omessa e contraddittoria motivazione, per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto che la sua domanda di rinnovazione della CTU non fosse stata proposta in appello e per avere quindi omesso di decidere in proposito.

Afferma che nella comparsa di risposta in appello essa aveva rilevato che l’istruttoria svolta in primo grado aveva accertato la falsità di alcune affermazioni contenute nell’elaborato peritale, ed in particolare di quelle secondo cui essa Clinica sarebbe priva del reparto di terapia intensiva, ed il suo dipendente, dott. T., sarebbe entrato in camera operatoria con gli abiti inquinati; che pertanto il perito ed i suoi accertamenti non potevano essere ritenuti affidabili.

7.- Il motivo è inammissibile perchè relativo alla valutazione delle prove, valutazione che spetta esclusivamente al giudice di merito, con decisione non censurabile in sede di legittimità, ove sia congruamente e correttamente motivata, come nel caso di specie.

La ricorrente non ha posto in evidenza lacune o contraddizioni nell’iter logico in base al quale la Corte di appello è pervenuta alla sua decisione, nè la conclusione da essa raggiunta, secondo cui la rinnovazione della CTU era irrilevante, non avendo l’appellante impugnato l’accertamento della responsabilità del chirurgo.

Le sue censure si rivolgono esclusivamente al merito della decisione, nè si può prendere in esame in questa sede la questione relativa alla rispondenza al vero delle circostanze di fatto che avrebbero dovuto indurre il giudice a ritenere inattendibile la CTU. 8.- Con il quarto motivo la Clinica (omissis) lamenta la violazione degli artt. 112, 329 e 346 cod. proc. civ. per avere la Corte di appello liquidato all’appellante le spese del giudizio di primo grado, sebbene il capo relativo non fosse stato specificamente impugnato dall’attrice.

8.1.- Il motivo non è fondato.

Solo nel caso di rigetto del gravame il giudice di appello non può modificare la statuizione sulle spese del giudice di primo grado.

Ove invece accolga l’impugnazione, egli deve procedere ad una nuova regolamentazione delle spese dell’intero processo, ivi incluso il giudizio di primo grado, anche d’ufficio e a prescindere da specifica richiesta, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata.

L’onere delle spese, infatti, deve essere attribuito e ripartito tenendo presente l’esito complessivo della controversia (Cass. civ. S.U. 17 ottobre 2003 n. 15559; Cass. civ. Sez. 3, 4 giugno 2007 n. 12963; Cass. civ. Sez. 3, 11 giungo 2008 n. 15483).

P.Q.M.

La Corte di cassazione riunisce i ricorsi. Accoglie il ricorso principale e rigetta il ricorso incidentale. Cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, che deciderà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

Redazione