Corte di Cassazione Civile sez. III 22/6/2007 n. 14576

Redazione 22/06/07
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L’equo indennizzo previsto per i dipendenti dello Stato (o di altri enti pubblici) in caso di infermità derivante a causa di servizio ha natura retributiva e non risarcitoria, sicchè di esso non può tenersi conto né ai fini della liquidazione dei danni subiti dal dipendente nello svolgimento del servizio, anche se connessi a quell’infermità, né ad altri fini, quale la decorrenza del termine prescrizionale per l’esercizio dell’azione di risarcimento, diversi essendo i presupposti e l’area coperta dai due istituti.

 

(Omissis)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto del 3 dicembre 1997 B.G. ha adito il Tribunale di L’Aquila per la condanna del Ministero dell’Interno al risarcimento dei danni conseguenti al fatto che, quale agente della Polizia di Stato, era stato mantenuto in servizio presso il Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza, reparto particolarmente stressante, nonostante le sue condizioni di salute, note all’Amministrazione, fossero incompatibili con quel servizio.

Il Tribunale e la Corte d’appello di L’Aquila hanno rispettivamente respinto la domanda e l’impugnazione del B. per estinzione del diritto per prescrizione quinquennale, decorrente dal 5 gennaio 1991, data della dispensa dal servizio per motivi di inabilità fisica.

Avverso la sentenza della Corte d’appello il B. ha proposto ricorso per cassazione affidandolo a tre motivi, illustrati da memoria.

Il Ministero si è costituito al solo fine della eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo (violazione dell’art. 2938 c.c. e art. 112 c.p.c.), il ricorrente ha dedotto, come nei precedenti gradi di giudizio, di avere proposto una duplice domanda di risarcimento del danno, da responsabilità contrattuale, ex art. 2087 c.c., ed extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., sicchè l’amministrazione convenuta avrebbe dovuto necessariamente tipizzare l’eccezione di prescrizione a seconda che si riferisse all’una o all’altra delle due azioni, diverso essendo il termine prescrizionale per ciascuna di esse, con conseguente inammissibilità dell’eccezione sollevata in quanto formulata in termini estremamente generici e divieto per il giudice, per il carattere dispositivo dell’eccezione, di individuare d’ufficio il tipo concretamente applicabile.

La censura è infondata.

Grava sulla parte che eccepisce la prescrizione estintiva unicamente l’onere di allegare l’inerzia del titolare del diritto dedotto in giudizio e di manifestare la volontà di avvalersene, non anche di tipizzare l’eccezione secondo una delle varie ipotesi previste dalla legge, ossia di specificare a quale tra le prescrizioni, diverse per durata, intenda riferirsi, spettando al giudice stabilire se, in relazione alla domanda che può conoscere nel merito e al diritto applicabile nel caso concreto, la prescrizione sia maturata (Cass. S.U. n. 10955 del 2002 e n. 3126 del 2003). E ciò anche se sia stata cumulativamente proposta una duplice azione, di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, spettando altresì al giudice stabilire se con riferimento alla fattispecie sostanziale sottoposta al suo esame, previa qualificazione giuridica della stessa, l’eccezione di prescrizione sia stata fatta valere con riferimento all’una o all’altra azione.

Correttamente pertanto il primo giudice (e con esso la Corte d’appello nel confermarne la pronuncia), ritenuto di poter conoscere la sola azione di responsabilità extracontrattuale da fatto illecito, ha applicato la prescrizione quinquennale stabilita dall’art. 2947 c.c..

Col secondo motivo (violazione e falsa applicazione di norme di diritto, nonchè difetto, contraddittorietà e illogicità della motivazione), il ricorrente ha dedotto che la Corte di merito ha errato nel far decorrere il termine prescrizionale dalla data di cessazione del fatto generatore del danno, ossia dalla dispensa dal servizio (5 gennaio 1991), anzichè dalla data del provvedimento di concessione dell’equo indennizzo (5 gennaio 1995), avendo egli potuto sapere solo in tale momento di non essere stato integralmente risarcito e comportando detto provvedimento, in quanto costituente riconoscimento del diritto ex art. 2944 c.c. interruzione della prescrizione, con decorrenza di un nuovo periodo prescrizionale ai sensi del successivo art. 2945 c.c., e conseguente tempestività dell’azione proposta con l’atto del 3 dicembre 1997. Ha altresì dedotto che la Corte territoriale è caduta in palese contraddizione per avere da un lato affermato che la questione della decorrenza della prescrizione era stata proposta come motivo d’appello, dall’altro ritenuto, escludendone l’ammissibilità, che era stata sollevata solo con la comparsa conclusionale.

Le censure sono infondate.

Per l’art. 2935 c.c. la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere e pertanto, quanto al diritto al risarcimento del danno da fatto illecito, dal momento in cui il danno si è verificato. La norma si riferisce soltanto alla possibilità legale di far valere il diritto, per cui sono irrilevanti, ai fini della decorrenza del termine prescrizionale, gli impedimenti di mero fatto, quale l’ignoranza del danneggiato, e gli altri motivi attinenti alla sua sfera soggettiva, come l’attesa della definizione del procedimento amministrativo di concessione dell’equo indennizzo per valutare, all’esito, l’idoneità della sua entità a coprire l’intera area del danno.

D’altra parte, l’equo indennizzo previsto per i dipendenti dello Stato (o di altri enti pubblici) in caso di infermità derivante da causa di servizio ha natura retributiva e non risarcitoria (Cass. n. 17353 del 2005), sicchè di esso non può tenersi conto nè ai fini della liquidazione dei danni subiti dal dipendente nello svolgimento del servizio, anche se connessi a quell’infermità, nè ad altri fini, quale la decorrenza del termine prescrizionale per l’esercizio dell’azione di risarcimento, diversi essendo i presupposti (l’equo indennizzo non richiede la colpa, come ritenuto da Cass. n. 11609/2005) e l’area coperta dai due istituti (Cass. n. 13887/2004).

La Corte d’appello ha ritenuto inammissibile, perchè proposta con la comparsa conclusionale, la sola questione dell’efficacia da attribuire al provvedimento di concessione dell’equo indennizzo, se di riconoscimento del diritto e di atto interruttivo della prescrizione, non anche la questione, ritualmente formulata con i motivi di impugnazione, della decorrenza del termine prescrizionale dalla data del provvedimento stesso, che ha esaminato e risolto nel senso di escludere tale decorrenza, sicchè non è caduta in alcuna contraddizione.

Se poi col motivo di ricorso il ricorrente ha inteso implicitamente sostenere di aver posto con l’appello anche la questione dell’efficacia da attribuire al provvedimento di concessione dell’equo indennizzo, di riconoscimento del diritto e di atto interruttivo, la censura, mancando della necessaria autosufficienza, per non essere stato riportato il contenuto del relativo motivo, è da ritenere inammissibile.

Col terzo motivo (difetto di motivazione) il ricorrente ha dedotto di avere altresì sostenuto con l’appello che – semmai – il termine prescrizionale dovesse decorrere dal 1996, anno in cui gli era stata diagnosticata la cirrosi epatica da epatite di tipo “C”, malattia diversa e più invalidante dell’epatopatia cronica attiva di tipo “B”, diagnosticata all’epoca della dispensa dal servizio, ossia dal momento in cui si era prodotto il nuovo diverso evento dannoso e non, come erroneamente ritenuto dalla Corte d’appello, dal momento in cui era stato posto in essere o si era esaurito il fatto colposo, e che la sentenza impugnata, nell’affermare apoditticamente che si trattava di semplice aggravamento e sviluppo della prima malattia, così ignorando completamente le risultanze cliniche e mediche in atti, era incorsa nel denunciato vizio motivazionale.

La censura è fondata, non consentendo l’apoditticità dell’affermazione, secondo cui si sarebbe trattato di mero aggravamento del danno già insorto, e non di ulteriore autonoma conseguenza dannosa, non costituente sviluppo di quella precedentemente manifestatasi, l’individuazione della ratio decidendi e, quindi, l’identificazione del procedimento logico giuridico seguito dal giudice.

In tal senso e in tali limiti va accolto il motivo, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Perugia che accerterà, ai fini della decorrenza del termine prescrizionale, se la cirrosi epatica da epatite di tipo “C” diagnosticata nel 1996 costituisca un semplice aggravamento o sviluppo dell’epatopatia cronica attiva di tipo “B”, precedentemente manifestatasi, ovvero un nuovo diverso evento dannoso.

P.Q.M.

la Corte rigetta il primo e il secondo motivo del ricorso, accoglie in parte il terzo motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Perugia.

Redazione