Corte di Cassazione Civile sez. III 2/2/2007 n. 2311; Pres. Nicastro G.

Redazione 02/02/07
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione (15/29 luglio 1997) C.L., nella veste di danneggiato da incidente stradale (avvenuto in Roma il 23 giugno 1994) conveniva dinanzi al tribunale di Roma il conducente danneggiante M.M.P., il proprietario assicurato G.S. e l’impresa assicuratrice Winterthur e ne chiedeva la condanna in solido al risarcimenti di tutti i danni, biologici, morali, patrimoniali e non patrimoniali conseguenti all’incidente, riferito alla responsabilità esclusiva della M.. Si costituiva la impresa assicuratrice contestando le pretese, restavano contumaci le altre parti.

Il Tribunale di Roma, con sentenza del 10 giugno 1999 accertava la responsabilità esclusiva della conducente M. venuta a collisione con il veicolo condotto dal C., e condannava in solido l’impresa e le parti convenute al risarcimento dei danni nella misura complessiva di 810 milioni ai valori attuali, oltre interessi legali e spese di lite da distrarsì in favore del difensore antistatario. La decisione era impugnata dalla Winterthur che ne chiedeva la riforma sulla base di due motivi, resisteva il C. e proponeva appello incidentale per una migliore liquidazione delle voci di danno biologico e per la grave compromissione dell’attività sessuale. Restavano contumaci le altre parti. La Corte di appello di Roma con sentenza del 8 maggio 2002 cosi decideva: accoglie l’appello principale per quanto di ragione, rideterminando la liquidazione (vedi amplius in motivazione) e compensando tra le parti la metà delle spese dei due gradi del giudizio, ponendo il resto a carico dell’assicuratrice; rigetta l’appello incidentale ed incidentale condizionato.

Contro la decisione ricorre il C. deducendo tre motivi di ricorso; le controparti non hanno svolto difese.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è infondato in ordine al primo motivo, mentre merita accoglimento per il secondo ed il terzo per le seguenti considerazioni.

Nel primo motivo si deduce l’error in iudicando per la violazione degli artt. 1224, 1226, 2056 c.c., in punto di ridotta liquidazione del danno da inabilità, in accoglimento della censura dell’assicurazione.

La tesi è che essendo convenzionale, quale parametro di riferimento, la tabella attuariale del tribunale di Roma in ordine alle poste risarcitorie della inabilità assoluta e relativa del danneggiato, era apodittica la riduzione basata sul parametro delle tabelle, essendo la liquidazione a carattere equitativo.

In senso contrario si osserva che la Corte (ff 8 della motivazione) riduce lo aumento della diaria giornaliera, compiuto dal primo giudice, in quanto non giustificato, dal momento che la liquidazione è stata determinata all’attualità della sentenza, allorchè erano in vigore le tabelle elaborate dal tribunale.

Tale riduzione rientra nel potere discrezionale valutativo dalla congruità della perdita non patrimoniale (tale essendo la incapacità del fare in relazione alla inabilità che precede la guarigione), sulla base di una specifica censura.

Il motivo di ricorso sostiene invece una migliore misura, ma non indica le ragioni della maggiorazione o della erroneità dei parametri utilizzati al fine del migliore ristoro: difetta dunque di specificità e concerne un apprezzamento in fatto adeguatamente motivato.

Nel secondo motivo di ricorso si deduce l’error in iudicando ed il vizio della motivazione, insufficiente e contraddittoria, in merito alla perdita della capacità lavorativa, pur evidente nella consequenzialità di una invalidità calcolata nella misura del 20%.

La censura è fondata, essendo carente sul punto la motivazione (ff 8 e 9 della sentenza), la dove esclude la maggiore usura delle energie psicofisiche dello infortunato, adagiandosi sul parere negativo del consulente di ufficio.

Come è noto il riconoscimento della perdita della capacità lavorativa generica, come componente strutturale del danno biologico nella sua complessità e nella sua natura dinamica e permanente, risale a teorie scientifiche della medicina legale italiana, ed è scientificamente testata come perdita di capacità lavorativa, per la permanente riduzione della resistenza fisica al lavoro esercitato o alle chances lavorative, secondo l’evoluzione delle offerte di lavoro e delle libere scelte del giovane lavoratore. La stessa riforma del mercato di lavoro si fonda sul principio della mobilità. Orbene, se è logico che nella valutazione globale del danno biologico, la indicazione del punteggio finale derivi dalla valutazione di tutte le componenti, fisiche e psichiche, interrelazionali ed esistenziali (come si desume dalla definizione analitica del danno biologico di non lieve entità, contenuta nell’art. 138 del codice di assicurazione, che considera i criteri uniformi di risarcimento ai fini dell’illecito civile della circolazione) al fine della realizzazione del principio fondamentale del risarcimento integrale del danno alla persona (cfr: Corte Cost. sent. 14 giugno 1986 n. 184 e Cass. 22 giugno 2001 n. 8899 e successive, sino a Cass. 1 dicembre 2004 n. 22599), la esclusione di tale componente fisico psichica usurante da una compromissione non lieve e permanente della salute, appare una contraddizione in termini e deve essere adeguatamente motivata, posto che deve essere a prova scientifica controfattuale.

Si vuoi dire che per la regola causale della probabilità elevata, la lesione grave della salute reca come conseguenza negativa una apprezzabile perdita della capacità lavorativa. Il negare tale rilevanza costituisce fattore eccezionale, presente in taluni casi in cui, per la eminente attività intellettuale prestata, una menomazione psicofisica potrebbe non incidere sulla potenzialità delle capacità lavorative, pur compromesse.

Esigere dal lavoratore una prova rigorosa in relazione al cd. danno futuro, o negare la natura biologica di tale perdita, contraddice la stessa configurazione del danno biologico come danno a struttura complessa, che incide su vari aspetti della vita fisica e psichica della persona. Il motivo appare dunque fondato in relazione alla illogicità della motivazione, che non personalizza il danno biologico in relazione a tale componente essenziale, data la gravità del danno.

Sotto altro aspetto la perdita della capacità lavorativa integra la lesione del diritto del cittadino ad accedere al lavoro in condizioni di piena integrità (cfr. art. 4 Cost. correlato all’art. 3, comma 2 e art. 32 Cost. e cfr. Corte Cost. 9 giugno 1965 n. 45) e come tale ha un autonomo rilievo come perdita patrimoniale, ove l’attività lavorativa sia in atto.

Il motivo dev’essere pertanto accolto ed il giudice di rinvio dovrà attenersi ai principi di diritto come sopra enunciati, attraverso una valutazione analitica ed a prova scientifica e causale, in relazione alla presenza di una menomazione della capacità lavorativa, in soggetto in età lavorativa.

Parimenti fondato appare il terzo motivo dove si deduce la mancata liquidazione della perdita della capacità di avere rapporti sessuali per la conseguita impotenza coeundi (per la invalidità dell’asta virile e la insufficienza del tono erettile) con conseguente sindrome soggettiva ansioso depressiva.

La sentenza impugnata sul punto sorvola,con una enunciazione illogica e contraria al principio fondamentale della inviolabilità dei diritti umani (art. 2 Cost. e Corte Cost. 28 luglio 1983 n. 242 secondo cui i diritti inviolabili sono quei diritti che costituiscono il patrimonio irretrattabile della persona umana). Si legge in vero nella motivazione (ff 11) "Il Collegio ritiene che il danno esistenziale o la lesione dei diritti umani non sono categorie che esulano dal danno biologico,così come inteso dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Se così è, deve ritenersi che il CTU abbia tenuto conto di tutte le circostanze, nel momento in cui ha determinato i postumi nella misura del 20%".

Dove il ragionamento è errato in punto di principi fondamentali, posto che i diritti umani inviolabili nè si confondono con i danni esistenziali nè restano assorbiti nella globalità e complessità del danno biologico, ove abbiano una lesione propria, giuridicamente configurata come lesione del diritto.

Quanto al diritto alla sessualità, occorre ricordare l’incipit della Corte Costituzionale (Corte Cost. sentenza 18 dicembre 1987 n. 561) che lo inquadra tra i diritti inviolabili della persona (art. 2), come modus vivendi essenziale per lo espressione e lo sviluppo della persona. Certamente la perdita della sessualità costituisce anche danno biologico (la cui valutazione nelle tabelle medico legali convenzionali supera normalmente il livello della micropermanente e determina un rilevante ritocco del punteggio finale) consequenziale alla lesione per fatto della circolazione (come è nel caso di specie), ma nessuno ormai nega (v: da ultimo Cass. SS.UU. 24 marzo 2006 n. 6572 e Cass. 3^ sez. civile 12 giugno 2006 n. 13546) che la perdita o la compromissione anche soltanto psichica della sessualità (come avviene nei casi di stupro e di pedofilia) costituisca di per se un danno esistenziale, la cui rilevanza deve essere autonomamente apprezzata e valutata equitativamente in termini non patrimoniali e con una congrua stima dell’equivalente economico del debito di valore.

Non vengono qui in questione altri aspetti inerenti alla procreazione o alla vita sessuale familiare, dato lo status della vittima, ma certamente questi ulteriori aspetti sarebbero rilevanti ai fini della equilibrata valutazione del danno anche ai fini di un congruo ristoro.

L’accoglimento del secondo e del terzo motivo determina il rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma che si atterrà ai principi di diritto come sopra enunciati nella considerazione della compro missione della capacità lavorativa e della capacità sessuale, e dei conseguenti effetti sulle perdite patrimoniali e non patrimoniali seguendo i principi espressi dalla Corte Costituzionale e da questa Corte nelle sentenze sopracitate. Il giudice del rinvio provvedere anche in ordine alle spese di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.

Rigetta il primo motivo del ricorso,accoglie il secondo ed il terzo,cassa in relazione e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione ad altra sezione della Corte di appello di Roma.

Redazione