Corte di Cassazione Civile sez. III 19/2/2009 n. 4053; Pres. Di Nanni L.F.

Redazione 19/02/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata il 22.1.1995 M.D., dolendosi della pubblicazione in due puntate sul periodico "Visto" edito dalla RCS Periodici s.p.a. di un’intervista e relative immagini rilasciate alla giornalista D.E., conveniva l’Editrice e la giornalista davanti al Tribunale di Milano per sentirli condannare al risarcimento del danno non patrimoniale.

Assumeva l’attore di essere un ex rapinatore di banche convertito all’Evangelo del Signore Gesù; che intendeva fornire la sua autobiografia ad un giornale; che egli aveva acconsentito all’intervista, purchè non venissero riportati i nomi degli altri personaggi e che non fossero pubblicate sue fotografie dalle quali risultasse riconoscibile; che la giornalista aveva accettato tali condizioni, poi non rispettate, con conseguente messa in pericolo della sua vita e tranquillità nonchè di quelle dei suoi familiari.

Il Tribunale rigettava la domanda con sentenza n. 11877/00.

La corte di appello di Milano, adita dall’attore, rigettava l’appello.

Riteneva la corte di appello che nessuna prova della "messa in pericolo" della sua tranquillità o della sua vita aveva fornito l’attore; che le prove richieste in appello non erano ammissibili;

che lo stesso comportamento del M. appariva in contrasto con la dedotta volontà di non essere riconosciuto.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l’attore, che ha anche presentato memoria.

Resiste con controricorso la RCS Periodici s.p.a..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione ed erronea applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

Assume il ricorrente che erratamente la corte di appello ha ritenuto che non poteva ritenersi sussistente un danno non patrimoniale costituito dalla "messa in pericolo" della sua persona e di quella dei suoi familiari, attesa l’interpretazione evolutiva che è stata data all’art. 2059 c.c., per cui non è necessario, ai fini della sussistenza di tale danno, che la fattispecie integri un reato.

2.1. Il motivo è infondato e va rigettato.

E’ vero che nel vigente assetto ordinamentale il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., non può più essere identificato (secondo la tradizionale restrittiva lettura dell’art. 2059 c.c., in relazione all’art. 185 c.p.) soltanto con il danno morale soggettivo, costituito dalla sofferenza contingente e dal turbamento dell’animo transeunte, determinati da fatto illecito integrante reato. Esso deve essere, piuttosto, inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui si verifichi un’ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, costituzionalmente garantito, dalla quale conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica senza soggezione al limite derivante dalla riserva di legge correlata dall’art. 185 c.p. (Cass. 31/05/2003, n. 8827 e 8828; Cass. 9/11/2006, n. 23918; e, da Ultimo, Cass. S.U. 26972 dell’11.11.2008).

Sennonchè nella fattispecie la corte di merito non ha contraddetto tale principio, anzi lo ha implicitamente confermato allorchè ha ritenuto che il rigetto della domanda dovesse fondarsi non sul rilievo che la messa in pericolo dell’incolumità personale non costituisse un danno non patrimoniale risarcibile, ma sul ben diverso rilievo che nella fattispecie non era stato provato appunto che la pubblicazione in questione avesse leso tale valore della persona umana dell’attore e che, cioè, avesse messo in pericolo la sua incolumità. Osserva la corte di appello che l’unico danno lamentato dall’attore in conseguenza della pubblicazione dell’articolo e della sua immagine era la messa in pericolo della sua incolumità e quella della sua famiglia e che appunto tale danno non era stato provato (pag. 6 della sentenza). Con la memoria il ricorrente fa valere un diverso profilo di danno in relazione alla pubblicazione della sua immagine (violazione della riservatezza e lesione del diritto all’immagine), rispetto a quello ritenuto dalla sentenza impugnata come oggetto della domanda, nei termini suddetti. Sennonchè per potere far valere ciò, il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con il ricorso la sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in tema di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato ovvero per erronea interpretazione della domanda in merito al danno lamentato, menare tanto non è stato fatto.

2.2. Non essendo stata provata l’esistenza del danno, costituito dalla messa in pericolo dell’incolumità dell’attore e della sua famiglia, correttamente il giudice non ha potuto provvedere alla liquidazione del quantum, contrariamente a quanto assunto dal ricorrente.

Infatti la liquidazione equitativa del danno è ammissibile solo quando questo sia certo nella sua esistenza ontologica ("ex multis", Cass. 10 gennaio 1986 n. 69), e dunque, posto pure che non possa essere provato nel suo ammontare, che esso sia stato (innanzi tutto specificamente allegato, e quindi) provato nella sua esistenza (per il che può soccorrere anche la prova per presunzioni semplici), mentre un danno meramente potenziale non soddisfa tale requisito (Cass. 30/05/2002, n. 7896).

3. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la contraddittorietà della motivazione dell’impugnata sentenza, poichè il giudice ha ritenuto insussistente il pericolo di danno in quanto il comportamento complessivamente tenuto dall’attore nell’occasione dell’intervista, concessa con il suo vero nome, era in contrasto con la dedotta volontà di non essere riconosciuto; che in ogni caso tale comportamento dei convenuti violava i patti tra loro intervenuti e quindi era un comportamento censurabile anche a norma dell’art. 1337 c.c., in quanto tenuto in violazione della buona fede.

4.1. Il motivo in parte è infondato ed in parte è inammissibile.

Osserva questa Corte, anzitutto, che il rigetto della domanda è stato fondato sul rilievo che in primo grado non era stata fornita alcuna prova della messa in pericolo dell’incolumità dell’attori e dei suoi familiari per effetto dell’intervista con i nomi dei personaggi e della pubblicazione della fotografia di esso attore con le attuali sembianze, mentre le prove richieste in secondo grado erano inammissibili per novità a norma dell’art. 345 c.p.c..

Tale punto non risulta censurato dal ricorrente.

4.2. Quanto alla considerazione fatta dalla corte di appello in merito al preteso contrasto tra il rilascio dell’intervista ed il pericolo assunto dall’attore, trattasi di un argomento ad abundantiam rispetto a quello della mancanza di prova del lamentato danno non patrimoniale.

Va, a tal fine, rilevato che la riferita affermazione della sentenza impugnata ha natura di affermazione ad abundantiam, consistente cioè in argomentazione rafforzativa di quella costituente la premessa logica della statuizione contenuta nel dispositivo. Tali affermazioni vanno considerate di regola superflue e quindi giuridicamente irrilevanti ai fini della censurabilità qualora, come nella fattispecie, l’argomentazione rafforzata sia per sè sufficiente a giustificare la pronuncia adottata. Infatti le argomentazioni ad abundantiam non sono suscettibili di impugnazione in sede di legittimità indipendentemente dalla loro esattezza o meno, se il dispositivo sia fondato su corretta argomentazione avente carattere principale ed assorbente.

E’ quindi inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che censura un’argomentazione della sentenza impugnata svolta "ad abundantiam", e pertanto non costituente "ratio decidendo" defila medesima, non avendo nessuna influenza sul dispositivo e, quindi, non producendo effetti giuridici (Cass. 4 agosto 2000, n. 10241; Cass. 10 giugno 1999, n. 5714; Cass. 23 luglio 1987, n. 6431; Cass. 13 giugno 1987, n. 5231).

4.3. Quanto alla pretesa esistenza del danno sotto il profilo della violazione del principio di buona fede di cui all’art. 1337 c.c., a parte il rilievo che la norma in questione attiene alla responsabilità precontrattuale, si tratta di questione nuova e, come tale inammissibile.

Infatti è giurisprudenza pacifica di questa Corte che i motivi del ricorso per Cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in Cassazione questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase del merito e non rilevabili di ufficio (Cass. n. 6989/2004; Cass. n. 5561/2004; Cass. n. 1915/2004).

5. Il ricorso va pertanto rigettato ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione sostenute dalla resistente.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione sostenute dalla resistente, liquidate in complessivi Euro 3100,00, di cui Euro 100,00, per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.

Redazione