Corte di Cassazione Civile sez. III 14/9/2010 n. 19517

Redazione 14/09/10
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Svolgimento del processo
Con sentenza del 15 settembre 2005 la Corte di appello di Trieste, in accoglimento dell’impugnazione di P.C. e A. e D.S.S. aumentava, secondo un criterio equitativo puro, ad Euro 60.000.000 il risarcimento del danno non patrimoniale subito dalla prima, e riconosceva Euro 30.000.000 a ciascuna delle seconde, in conseguenza della grave invalidità – 80% – riportata dal rispettivo marito e padre, infortunatosi sul lavoro. Ricorrono per Cassazione le danneggiate cui resiste Telecom.

Le ricorrenti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo le predette deducono la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia in relazione al risarcimento del danno morale e l’insufficiente e comunque contraddittoria motivazione circa un punto decisivo per la controversia – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – sulla spettanza del danno morale e l’omessa motivazione sulla liquidazione del medesimo per averne la Corte di merito correttamente affermato la risarcibilità anche nel caso di presunzione legale della colpa – art. 2051 c.c. – senza poi provvedere alla relativa liquidazione, essendosi limitata ad aumentare il danno esistenziale per la moglie e a riconoscerlo per le figlie; sul punto anche la motivazione è insufficiente.

Il motivo è infondato.

La Corte di merito ha infatti correttamente applicato il principio ormai consolidato (S.U. 26972/2008) secondo il quale il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dal danneggiato, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici, sì che il danno biologico, il danno morale, quello alla vita di relazione e quello cosiddetto esistenziale devono esser valutati unitariamente nella voce del danno non patrimoniale (S.U. 26972/2008).

2.- Con il secondo motivo deducono la falsa applicazione di norme di diritto – artt. 2056 e 1226 c.c.; art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – per inadeguato esercizio del potere equitativo di cui all’art. 1226 c.c. sotto il profilo della mancata personalizzazione del risarcimento; insufficiente e contraddittoria motivazione circa i criteri di quantificazione del danno – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – e lamentano che il criterio equitativo puro, riconosciuto dall’art. 1226 c.c., non può risolversi in arbitrio e perciò il giudice deve personalizzare il risarcimento ed indicare i parametri considerati.

Il motivo è infondato.

Nella sentenza impugnata – pag. 8 – i giudici di appello hanno date conto, nell’adottare il criterio equitativo puro – ossia svincolato da tabelle standardizzate e criteri automatici – delle circostanze oggettive e soggettive del caso concreto considerate, ed in particolare del danno alla sfera sessuale conseguita all’infortunio, fonte di "sconvolgimento delle abitudini di vita in relazione all’esigenza di provvedere ai maturati gravi bisogni del familiare, nonchè della corrispondente diminuzione del contributo relazionale e di sostegno che a sua volta il familiare può offrire agli altri". 3.- Pertanto il ricorso va respinto.

Si compensano le spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Compensa le spese del giudizio di Cassazione.

Redazione