Corte di Cassazione Civile sez. III 13/5/2009 n. 11059; Pres. Preden R.

Redazione 13/05/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- Nel luglio del 1995 A.A. ed altre 85 persone residenti in prossimità dell’impianto produttivo dell’ICMESA s.p.a. di (omissis) dal quale, in data (omissis), era fuoriuscita una nube tossica composta da diossina, convennero in giudizio la predetta società in liquidazione chiedendone la condanna – per quanto in questa sede interessa – al risarcimento del danno morale.

La convenuta resistette.

Con sentenza n. 7825/03 l’adito tribunale di Milano rilevò tra l’altro che era intervenuta condanna per il reato di disastro ambientale di cui all’art. 449 c.p., nei confronti di soggetti del cui fatto la convenuta era civilmente responsabile e la condannò a pagare a ciascuno degli attori la somma di Euro 5.000,00, liquidata all’attualità, compensando le spese.

2.- La società soccombente propose appello, dolendosi che la domanda fosse stata accolta nonostante la mancanza di prova circa la sussistenza di un danno effettivo, in subordine sostenendo che la liquidazione era stata eccessiva.

Il gravame, cui avevano resistito gli attori, è stato respinto dalla corte d’appello di Milano con sentenza n. 2829 del 2005, che ha anche condannato l’appellante alle spese del grado.

3.- Avverso detta sentenza ricorre per cassazione la ICMESA s.p.a. in liquidazione sulla base di sette motivi, illustrati anche da memoria, cui resistono con unico controricorso C.S., D.G. e D.M., i quali hanno rilasciato procura speciale in calce al controricorso.

Gli altri 77 intimati indicati non hanno svolto attività difensiva, non essendo valida la procura richiamata in controricorso, rilasciata per il giudizio di merito e dunque priva del requisito di specialità.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con i sette motivi di ricorso la sentenza è rispettivamente censurata:

a) per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., laddove aveva posto a base della decisione un’inesatta nozione di fatto notorio, violando anche le norme sulle presunzioni semplici e finendo col considerare notorio il danno stesso, che era invece il fatto da provare;

b) per violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè per omessa o insufficiente motivazione su punto decisivo nella parte in cui aveva ritenuto che dal fatto notorio della sottoposizione dei residenti nell’area contaminata a controlli sanitari ed a prescrizioni di comportamento potesse "certamente inferirsi, secondo l’id quod plerumque accidit, che in ciascuno dei soggetti anzidetti si sia determinato quel patema d’animo, ovvero quello stato di preoccupazione per la propria salute (esposta a pericolo di disastro ambientale, e quindi di turbamento, di tensione e di ansia – transeunte ancorchè duraturo – che viene a configurare il danno morale" (pagina 9 della sentenza); si sostiene che in tema di prova per presunzioni il fatto ignoto da accertarsi deve profilarsi come la sola conseguenza logicamente possibile del fatto noto, o quantomeno in termini di ragionevole certezza e non di mera possibilità;

c) per violazione e falsa applicazione dell’art. 2727 c.c., per avere, in violazione del divieto del praesumptum de praesumpto, dedotto in via presuntiva che danno vi fosse stato dalla presunzione che dai controlli sanitari fossero derivati agli attori "evidenti timori sia per la propria salute che per quella di soggetti diversi…" (pagina 6 della sentenza);

d) per violazione e falsa applicazione degli artt. 2059 e 2697 c.c., per aver identificato il danno con la lesione dell’interesse, senza considerare che il danno, anche quello non patrimoniale, non è mai configurabile in re ipsa, ma è pur sempre conseguenza del fatto, che va dunque provato, e va inoltre personalizzato, come precisato nel precedente specifico costituito da Cass. sez. un., n. 2515/02;

e) per violazione e falsa applicazione dell’art. 81 c.p.c., laddove, mediante il rilievo conferito alla notorietà degli inconvenienti in cui era incappata "tutta la popolazione residente nelle zone circostanti lo stabilimento ICMESA", dato in realtà ingresso ad una class action, ignota al nostro ordinamento, dove invece vige il principio secondo il quale, fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere in nome proprio un diritto altrui;

f) per violazione e falsa applicazione degli artt. 2059, 2043 e 2697 c.c., giacchè, affermando che il fatto avrebbe determinato riflessi nella vita sociale e di relazione degli attori per i controlli sanitari cui sarebbero stati sottoposti per dieci anni con conseguenti limitazioni del normale svolgimento della vita, la Corte territoriale avrebbe in realtà riconosciuto non il danno morale, che per sua natura consiste in un transeunte perturbamento, ma il danno "esistenziale", che consistendo in un non facere esteriore, va più rigorosamente provato;

g) per violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 2056 e 2059 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione alla quantificazione uniforme del danno per tutti gli attori nel riconosciuto difetto di elementi per una differenziazione delle varie posizioni, a conferma della carenza di prova sopra rilevata ed a rivelazione di una carenza di motivazione in punto di effettuata liquidazione equitativa.

2.- Le censure, che possono essere congiuntamente esaminate per la connessione che le connota, sono tutte infondate.

La corte d’appello ha dato analiticamente conto (alle pagine 5, 6 e 7 della sentenza impugnata) delle ragioni che avevano indotto il tribunale all’accoglimento della domanda, espressamente riferendo che tutti coloro, come gli attori, che risiedevano nelle zone delimitate come "B" ed "R", come risulta dalla documentazione prodotta (così, testualmente, a pagina 5) vennero sottoposti, in quanto soggetti a rischio, a ripetuti controlli sanitari, sia nell’immediatezza dell’evento sia successivamente, per parecchi anni, almeno fino al 1984. Lo stesso concetto è nuovamente espresso a pagina 9, capoverso, dove si afferma essere notorio e comunque documentato che i controlli interessarono anche specificamente gli attori/appellati, nessuno di essi escluso.

Il fatto da cui la corte ha preso le mosse per la configurazione del danno non patrimoniale in capo agli attori (ravvisato nel patema d’animo indotto in ognuno dalla preoccupazione per il proprio stato di salute) è stato dunque ritenuto, al di là del riferimento al notorio, documentalmente provato, sicchè manca il presupposto stesso delle censure mosse alla sentenza con i primi tre motivi.

Per il resto la sentenza è del tutto conforme a diritto dove afferma che il danno non patrimoniale consistente nel patema d’animo e nella sofferenza interna ben può essere provato per presunzioni e che la prova per inferenza induttiva non postula che il fatto ignoto da dimostrare sia l’unico riflesso possibile di un fatto noto, essendo sufficiente la rilevante probabilità del determinarsi dell’uno in dipendenza del verificarsi dell’altro secondo criteri di regolarità causale.

Nè è stata fatta confusione di sorta tra interesse leso e danno derivatone, avendo la corte d’appello chiarito che il tribunale – in linea con la richiamata Cass., sez. un., n. 2515/02 – aveva ritenuto che l’art. 449 c.p., prevede un delitto colposo di pericolo presunto a carattere plurioffensivo, in quanto incidente sia sul bene pubblico immateriale ed unitario dell’ambiente che sulla sfera individuale dei singoli soggetti che si trovano in concreta relazione con i luoghi interessati dall’evento dannoso in ragione della loro residenza o frequentazione abituale; sicchè l’interesse nella specie leso è quello rafforzato, e niente affatto adespota, proprio dei soggetti che si siano trovati, come tutti gli attori, in particolare relazione con l’ambiente inquinato da sostanze altamente tossiche. Da tale relazione è derivato il patema d’animo e la preoccupazione che la corte ha correttamente ritenuto costituire danno non patrimoniale risarcibile in quanto derivante da reato.

E tanto evidenzia l’infondatezza del quarto e del quinto motivo.

Quella del sesto discende dai principi recentemente enunciati da Cass., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972, che ha escluso l’autonomia della categoria del cosiddetto danno esistenziale, al contempo chiarendo che nell’ipotesi in cui il fatto illecito si configuri come reato il danno non patrimoniale è risarcibile nella sua più ampia accezione di danno determinato da lesioni di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica; che la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l’effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo, assumendo rilievo la sua durata ai fini della quantificazione del risarcimento; che, nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula "danno morale" non individua un’autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sè considerata; che, in conclusione, è compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore uomo si siano verificare.

Comunque li abbia qualificati, la corte d’appello ha appunto risarcito tutti i pregiudizi che ha ragionevolmente ritenuto derivati dal reato, in linea con gli enunciati principi.

L’infondatezza del settimo motivo, infine, è connessa al rilievo che la corte d’appello ha ritenuto che, alla luce degli elementi che hanno caratterizzato la vicenda in questione (gravità del fatto e delle sue possibili conseguenze per la salute della popolazione residente nell’area inquinata, lungo periodo per cui si sono protratti i controlli di laboratorio ed il regime di vigilanza) l’importo di Euro 5.000 liquidato in via equitativa in favore di ciascuno degli attori corrispondesse ad una valutazione prudenziale, "se non addirittura minima" del danno morale in questione (a pagina 10 della sentenza, sub 2.3.). Il che non altro significa che, secondo l’apprezzamento di fatto compiuto dal giudice di merito con motivazione senz’altro adeguata, in nessun caso potesse ipotizzarsi, per ognuno, una valutazione equitativa del danno inferiore a quell’importo.

3.- Il ricorso è respinto.

Le spese (in favore dei tre intimati che hanno depositato controricorso) seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese, che liquida in Euro 2.200,00, si cui 2.000,00, per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Redazione