Corte di Cassazione Civile sez. III 13/5/2008 n. 11893; Pres. Vittoria P.

Redazione 13/05/08
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato al Fallimento CO.GE.FI s.r.l. in data 18 luglio 1997, la s.p.a. BN COMMERCIO e FINANZA, derivata dalla fusione per incorporazione della BN Factoring s.p.a nella BN Leasing s.p.a. esponeva che:

– con contratto registrato il 30 maggio 1989 la BN Leasing s.p.a. aveva concesso in locazione finanziaria alla CO.GE.FI. s.r.l. un immobile di sua proprietà sito in (omissis), da adibire ad uso ufficio;

– il contratto si era risolto, ai sensi dell’art. 6, per mancato esercizio del diritto di opzione nei termini contrattualmente previsti (art. 6 del contratto);

– con sentenza del gennaio 1997, n. 68, era stato dichiarato il fallimento della CO.GE.FI.;

– il Fallimento non aveva inteso subentrare nella posizione contrattuale della CO.GE.FI, nè aveva restituito l’immobile che era dunque detenuto senza alcun titolo.

Tanto premesso, la società COMMERCIO e FINANZA chiedeva che il Tribunale ordinasse il rilascio dell’immobile.

Si costituiva in giudizio il Fallimento, eccependo che a termini del contratto nel caso di specie non si era realizzata la risoluzione del contratto per inadempimento, bensì solo la sua cessazione.

Precisava che alla data di notificazione della citazione (luglio 1997) non sussisteva alcun obbligo di restituzione, poichè l’art. 6 del contratto prevedeva semplicemente che in ipotesi di cessazione del contratto l’immobile dovesse, essere restituito a tre mesi dalla scadenza dell’ultimo canone (e quindi entro tre mesi dal 21 giugno 1997).

Proponeva domanda riconvenzionale diretta ad ottenere la restituzione dei canoni di locazione versati dalla società in bonis, sul presupposto che il contratto tra le parti doveva essere inquadrato nella fattispecie del c.d. "leasing traslativo".

Con memoria ex art. 183 c.p.c., u.c., la società attrice modificava la domanda iniziale in termini di richiesta di rilascio per cessazione del contratto di locazione finanziaria, determinato dal mancato esercizio del diritto di opzione.

Il Fallimento replicava che si trattava di domanda nuova, dichiarando di non accettare su di essa il contraddittorio.

Con sentenza 22 luglio – 14 ottobre 1999, il Tribunale di Napoli condannava il Fallimento CO.GE.FI, alla restituzione dell’immobile per cessazione della locazione finanziaria, fissando la data del diritto alla restituzione al 21 settembre 1997. Condannava quindi la BN COMMERCIO e Finanza al pagamento della somma di L. 24.000.000 in favore del Fallimento (effettuando una compensazione tra dare ed avere e detraendo dai ratei riscossi l’equo compenso, ex art. 1526 c.c. ed il risarcimento del danno per mancata riconsegna).

Con atto notificato in data 27 novembre 2000, il Fallimento CO.GE.FI. proponeva appello avverso tale decisione.

L’appellante deduceva il vizio di ultrapetizione, rilevando che la attrice non aveva mai avanzato richiesta di equo indennizzo, nè di risarcimento dei danni.

La stessa non aveva neppure eccepito la compensazione – intesa in senso atecnico – in risposta alla domanda riconvenzionale:

Con un secondo motivo, proposto in via del tutto subordinata, l’appellante si doleva della errata quantificazione dell’equo indennizzo e del risarcimento del danno.

Con un ultimo motivo, l’appellante osservava che il primo giudice avrebbe dovuto riconoscere interessi e rivalutazione monetaria per i canoni pagati dalle singole scadenze dei pagamenti (anzichè dal 30 ottobre 1997).

La società appellata si costituiva in giudizio, insistendo per il rigetto dell’appello.

Con sentenza 13 dicembre 2002 – 3 marzo 2003 (corretta con ordinanza 28 novembre – 5 dicembre 2003) la Corte d’Appello di Napoli, in parziale riforma della decisione del locale Tribunale del 22 luglio- 14 ottobre 1999, condannava la società BN COMMERCIO E FINANZA s.p.a. al pagamento della maggior somma di Euro 79.220,18 in favore dell’appellante Fallimento CO.GE.FI. s.r.l..

I giudici di appello rilevavano che nel caso di specie vi era ultrapetizione per quel che concerneva il riconosciuto diritto al risarcimento del danno, poichè la società attrice non aveva formulato alcuna domanda in tal senso nei confronti del Fallimento.

Doveva invece ritenersi compresa nelle domande formulate dalla BN COMMERCIO e FINANZA la richiesta di pagamento di un equo indennizzo, che doveva riconoscersi "come automatico sviluppo della combinazione tra la domanda della concedente, di restituzione dell’immobile per cessazione del contratto per mancato esercizio del diritto di opzione, e la domanda riconvenzionale della curatela, di restituzione dei canoni, trattandosi di domande le quali, alla stregua della giurisprudenza formatasi in tema di "leasing traslativo", quale è pacificamente quello di specie, sono potenzialmente comprensive di ragioni di credito e debito, rispetto alle quali deve operare il meccanismo di equilibrio di cui all’art. 1526 c.c.".

Sulla base di tali premesse, la Corte territoriale condannava la BN COMMERCIO e FINANZA al pagamento della maggior somma sopra specificata, rideterminando il canone da assumere a parametro dell’equo compenso nella minor somma di Euro 516,46, rapportata ai mesi di disponibilità dell’immobile (108).

Avverso tale decisione la COMMERCIO e FINANZA LEASING e FACTORING s.p.a. (già B.N. COMMERCIO e FINANZA) ha proposto ricorso per Cassazione sorretto da due motivi.

Resiste il Fallimento della società ********* s.r.l. con controricorso, illustrato da memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la società COMMERCIO e FINANZA LEASING e FACTORING spa denuncia violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 112 c.p.c. e art. 1526 c.c., nonchè carenza e contraddittorietà della motivazione.

I giudici di appello avevano affermato, da un lato, che la domanda di risarcimento del danno non era mai stata proposta dalla società BN COMMERCIO e FINANZA, dall’altro, che una tale richiesta sarebbe stata, comunque, incompatibile con la domanda di cessazione del rapporto per mancato esercizio del diritto di opzione da parte della utilizzatrice CO.GE.FI. La giurisprudenza di questa Corte – sottolinea la società ricorrente – da tempo riconosce la applicabilità in via analogica della disciplina della vendita con riserva della proprietà, ed in particolare dell’art. 1526 c.c., al contratto di leasing c.d. traslativo.

Da tali premesse, osserva la COMMERCIO e FINANZA discende che, anche nel caso di specie, nel quale il fallimento dell’utilizzatore era stato dichiarato in epoca successiva alla cessazione del rapporto, il concedente aveva diritto alla restituzione del bene ed era tenuto alla ripetizione dei ratei riscossi.

Da tale importo doveva detrarsi comunque – in conformità alla disciplina prevista dall’art. 1526 c.c., comma 1, – un equo compenso per l’utilizzo dell’immobile oltre al risarcimento del danno per avere CO.GE.FI, restituito l’immobile solo dopo qualche tempo e, tra l’altro, in pessime condizioni (pag. 9 del ricorso).

Senza tener conto di tali principi, più volte affermati dalla giurisprudenza anche di questa Corte, i giudici di Appello avevano invece negato il diritto di COMMERCIO e FINANZA al risarcimento dei danni, limitandosi a dedurre che nessuna domanda era stata formulata dalla attrice a tale riguardo.

La detenzione senza titolo protrattasi per oltre un anno, osserva la società ricorrente, aveva costituito indubbiamente fonte di danni che dovevano essere risarciti alla proprietaria.

Tra l’altro, il diritto al risarcimento del danno discendeva da una esplicita previsione del contratto e prescindeva dunque dalla necessità di formulare una specifica richiesta, nel successivo giudizio (art. 6, u.c.).

Sotto altro profilo, la ricorrente rileva che secondo la previsione dell’art. 1526 c.c., comma 1, l’equo compenso costituisce una espressione unitaria e complessiva che deve tener conto del corrispettivo del godimento del bene, nonchè del danno derivante al concedente dalla conclusione del contratto (deterioramento della cosa, perdita di valore della stessa, danni subiti per effetto del contratto).

Tanto premesso in linea generale, conclude la ricorrente, non poteva seriamente dubitarsi che nel caso di specie la ritardata restituzione dell’immobile, per pacifica ammissione della stessa controparte, rappresentava causa di danno per la società proprietaria, la quale si era vista costretta a vendere il proprio cespite ad un prezzo nettamente inferiore rispetto a quello corrisposto al momento dell’acquisto.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce omessa ed insufficiente motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione all’art. 1526 c.c..

I giudici di appello avevano frettolosamente ritenuto eccessivo l’importo di lire duemilioni mensili riconosciuto dal Tribunale, considerando che si trattava di un monolocale di soli cinquanta metri quadri, situato a piano terra.

In realtà, sarebbe stata sufficiente una semplice lettura dell’appendice del contratto per accertare che il locale era in realtà ubicato al primo piano: con ogni conseguenza in ordine alla valutazione del canone.

L’indagine compiuta dai giudici di appello non aveva considerato, inoltre, che l’immobile in questione era situato in zona centralissima di (omissis) e faceva parte di uno stabile di prestigio, ricompreso nell’elenco dei beni di interessi storico ed artistico.

La Corte territoriale, infine, non aveva tenuto conto del fatto che nel caso di specie si era trattato di una operazione finanziaria complessa, che non poteva certamente essere paragonata alla comune locazione di un immobile.

Quindi, per la determinazione dell’equo compenso non poteva farsi riferimento esclusivamente al canone di locazione.

Osserva il Collegio:

I due motivi, da esaminare congiuntamente, in quanto connessi tra di loro, non sono fondati.

Appare opportuno premettere che la società ricorrente non contesta affatto la osservazione contenuta nella sentenza, impugnata secondo la quale la originaria attrice non avrebbe mai formulato espressamente una domanda di risarcimento del danno, limitandosi invece a richiedere il rilascio dell’immobile previa risoluzione del contratto per inadempimento (domanda poi mutata nella richiesta di accertamento della cessazione del rapporto di locazione finanziaria).

La tesi della ricorrente è che nel caso di specie una esplicita domanda di risarcimento del danno non sarebbe stata comunque necessaria, essendo stata pattuita una clausola del contratto che prevedeva in modo automatico una autonoma voce di danno proprio in ipotesi di mancato o ritardato rilascio.

Sotto altro, autonomo, profilo la ricorrente rileva inoltre che l’equo compenso costituisce una espressione unitaria e complessiva che deve tener conto del corrispettivo del godimento del bene, nonchè del danno derivante al concedente dalla conclusione del contratto (deterioramento della cosa, perdita di valore della stessa, danni subiti per effetto del contratto).

Tutte queste domande (e componenti di una medesima voce contabile) sarebbero implicitamente contenute nella domanda della concedente, intesa ad ottenere il rilascio dell’immobile e nella domanda riconvenzionale della CO.GE.FI che aveva richiesto la restituzione di quanto versato, previa detrazione di un equo compenso per i mesi di utilizzazione dell’immobile.

Le censure formulate sono infondate, sotto tutti i profili.

Quanto ai primo profilo di censura, è appena il caso di osservare che lo stesso confonde gli aspetti sostanziali con quelli processuali della vicenda. Non è sufficiente, infatti, la constatazione che il risarcimento del danno da ritardata riconsegna del locale fosse espressamente riconosciuta come autonoma voce di danno nel contratto, per escludere che la concedente avesse, comunque, l’onere di proporre una domanda al riguardo per ottenerne il riconoscimento in sede giudiziaria.

Per quanto riguarda invece il riconoscimento del danno, si richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, secondo il quale lo stesso costituisce una autonoma domanda rispetto all’equo compenso per l’utilizzo della cosa (Cass. 28 agosto 2007 n. 18195):

"Al leasing traslativo, al quale si applica la disciplina della vendita con riserva di proprietà, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, mentre quest’ultimo, restituita la cosa, ha diritto alla restituzione delle rate riscosse, al concedente la norma riconosce, oltre al risarcimento del danno, il diritto ad un equo compenso per l’uso dei beni oggetto del contratto, che costituisce la remunerazione del godimento dei beni medesimi e del deprezzamento conseguente alla sua non commerciabilità come nuovo ed al logoramento per l’uso.

Il risarcimento del danno ed il diritto all’equo compenso costituiscono, pertanto, azioni distinte, che adempiono a scopi diversi e che, quindi, richiedono la espressa domanda".

Tali affermazioni si pongono sulla scia della consolidata giurisprudenza di questa Corte (a partire da Cass. s.u. 7 gennaio 1993 n. 65):

"La risoluzione della locazione finanziaria, per inadempimento dell’utilizzatore, non si estende alle prestazioni già eseguite, in base alle previsioni dell’art. 1458 c.c., comma 1, in tema di contratti ad esecuzione continuata e periodica ove si tratti di "leasing" cosiddetto di godimento, pattuito con funzione di finanziamento, rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto (con consequenziale marginalità dell’eventuale opzione), e dietro canoni che configurano esclusivamente il corrispettivo dell’uso dei beni stessi.

La risoluzione medesima, invece, si sottrae a dette previsioni, e resta soggetta all’applicazione in via analogica delle disposizioni fissate dall’art. 1526 c.c. con riguardo alla vendita con riserva della proprietà1, ove si tratti di "leasing" cosiddetto traslativo, pattuito con riferimento a beni atti a conservare a quella scadenza un valore residuo superiore all’importo convenuto per l’opzione, e dietro canoni che scontano anche una quota del prezzo in previsione del successivo acquisto (rispetto a cui la concessione in godimento assume funzione strumentale).

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno rilevato che "identiche essendo le situazioni che si verificano in caso di risoluzione per inadempimento del contratto di leasing c.d. "traslativo" e di quello di vendita con riserva della proprietà, si giustifica l’applicazione in entrambi i casi, per identità della ratio, di un’unica disciplina – quella dell’art. 1526 c.c. (estesa al leasing in via analogica) tendente ad evitare che, in seguito all’inadempimento del compratore, l’equilibrio contrattuale risulti alterato in suo danno, con indebito arricchimento del venditore.

Si è in tal modo riconosciuto alla norma imperativa dell’art. 1526 c.c., il valore di principio generale di tutela di interessi omogenei a quelli disciplinati dal leasing "traslativo" nonchè1 di strumento di controllo dell’autonomia negoziale delle parti".

Nello stesso senso, la giurisprudenza successiva di questa Corte (Cass. 6034 del 1997, 2069 del 2000, 4855 del 2000, 10265 del 2000, 1715 del 2001, 4208 del 2001, 9417 del 2001, 9161 del 2002, 12823 del 2003,18229 del 2003, 574 del 2005, 12317 del 2005, 24214 del 2006, 25125 del 2006, 4969 del 2007).

Tra l’altro, nel caso di specie, come già rilevato, la società ricorrente non censura la applicabilità dell’art. 1526 c.c. al caso di specie (nel quale non vi è stato un vero e proprio inadempimento dell’utilizzatore, il quale ha ritenuto piuttosto di non addivenire all’acquisto del bene, rinunciando così ad ima sua facoltà) limitandosi a contestare la entità dell’equo compenso riconosciuto per l’utilizzo dell’immobile e il mancato riconoscimento del danno per il ritardo nella riconsegna dello stesso.

Il contratto (con la clausola richiamata a pag. 13 del ricorso: art. 6, u.c.) prevedeva, infine, una indennità corrispondente agli importi dovuti, indipendentemente dal risarcimento di ulteriori danni che avrebbero comunque dovuto essere dimostrati dalla società concedente.

Analogamente, per quanto riguarda il maggior danno dovuto dal conduttore, per effetto del mancato tempestivo rilascio dell’immobile locato, ex art. 1591 c.c., la giurisprudenza di questa Corte richiede la prova rigorosa della esistenza del danno e della sua concreta entità cfr. Cass. nn. 4864 del 2000, 10485 del 2001, 13697 del 2001, 993 del 2002, 13628 del 2004, 14624 del 2004, 21581 del 2004, 5902 del 2006, 20829 del 2006, 7499 del 2007).

Nessuna prova al riguardo è stata fornita, e neppure dedotta, dalla società ricorrente.

Donde la inammissibilità, sotto tale ulteriore profilo, delle censure formulate con il primo motivo di ricorso.

Quanto alla misura dell’equo compenso riconosciuta dalla Corte d’Appello, le censure formulate al riguardo dalla ricorrente finiscono per sollecitare, attraverso la formale deduzione di un vizio della motivazione e di vizi di violazione di norme di legge, una diversa valutazione delle risultanze processuali, inammissibile in questa sede.

La ricorrente deduce che i giudici di appello non avrebbero tenuto conto di tutti i dati di fatto risultanti dalla istruttoria compiuta e di tutti gli elementi comunque acquisiti al processo, giungendo così a dimezzare l’indennizzo già riconosciuto dal primo giudice.

Osserva il Collegio che sul punto la Corte territoriale ha tenuto conto dei mesi di utilizzazione dell’immobile (centootto) riconoscendo al concedente l’equo compenso che ha determinato in complessivi Euro 55.777,68.

Le censure della società ricorrente riguardano solo il parametro di riferimento mensile e non già il numero di mesi complessivi (corrispondenti alla utilizzazione dell’immobile: mesi 108).

Per la determinazione di tale parametro mensile, i giudici di appello hanno considerato quale dato primario di orientamento il canone di locazione che l’utilizzatore avrebbe dovuto versare sul mercato, in alternativa alla locazione finanziaria, per un monolocale di analoga superficie e ubicazione.

Il canone concreto (ai fini della base di calcolo per l’equo compenso) è stato determinato – partendo da tale canone astratto – mediante il correttivo derivante dal peso dei plurimi obblighi previsti dal contratto di locazione finanziaria e non sopportati ordinariamente da un conduttore: come ad esempio dall’obbligo incondizionato della manutenzione straordinaria e del rischio del perimento totale dell’immobile (posto a carico di CE.GE.FI.).

Si tratta, come è evidente, di una valutazione di merito, logicamente motivata, che sfugge pertanto a qualsiasi censura in questa sede di legittimità.

Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, con la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese che liquida in Euro 6.100,00 (seimilacento,00) di cui Euro 6.000,00 (seimila,00) per onorari di avvocato, oltre spese generali ed accessori di legge.

Redazione