Corte di Cassazione Civile sez. III 13/1/2009 n. 480; Pres. Varrone M.

Redazione 13/01/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – Con sentenza del 15 gennaio 2004 la Corte di appello di Perugia, pronunciando sull’appello della ***** 2000 di ***************** & C. s.n.c. nei confronti di M.S. e Ma.Si. contro la sentenza del 2 luglio 2003 resa tra le parti dal Tribunale di Orvieto, riformava la sentenza di primo grado.

Il tribunale aveva statuito che nella fattispecie portata al suo esame andava applicato l’art. 1105 c.c., secondo il quale tutti i partecipanti alla comunione devono concorrere all’amministrazione del bene comune, in quanto ciascuno può disporre solo della quota ideale del bene comune stesso e – testualmente – "se ciò vale nei confronti del conduttore che sia divenuto medio tempore comproprietario del bene locato a maggior ragione deve valere nei confronti della ***** 2000 della quale il comproprietario Ma.Si. è legale rappresentante della società".

2. – A tale decisione si era pervenuti a seguito del ricorso dell’8 gennaio 2003, con cui M.S. intimava alla ***** licenza per finita locazione alla data del 31 dicembre 2003, citando contestualmente, per la convalida, la società.

L’intimante, a fondamento della domanda, riferiva che M. B., poi defunto, con contratto del 1 gennaio 1986 aveva concesso in locazione alla società un immobile, ubicato in (OMISSIS), frazione (OMISSIS), Via (OMISSIS), aggiungendo che, a seguito del decesso di M.B., erano succeduti esso M.S. e Ma.Si..

Nel costituirsi la società si opponeva alla convalida e deduceva, per quel che interessa in questa sede, il difetto di legittimazione ad agire del M.S., stante la sua qualità di comproprietario e la pendenza del giudizio di divisione tra i due fratelli S. e Si., i quali non concordavano sull’iniziativa.

Il Ma.Si. interveniva in giudizio per far constare il proprio dissenso all’azione promossa dall’intimante.

A fronte dell’accoglimento della domanda da parte del primo giudice il Ma.Si. proponeva appello, lamentando che il giudice di primo grado aveva errato nel non avvedersi che il M. S., stante il dissenso del comproprietario Si., non fosse legittimato a promuovere il giudizio di convalida.

3. – Nell’accogliere l’appello la Corte territoriale ha ritenuto applicabile, nella specie, non già l’art. 1105 c.c., comma 1, bensì l’art. 1103 c.c., comma 1.

Secondo il giudice d’appello si tratta di locazione di cosa appartenente a più persone in comunione pro indiviso e, in questo caso, il relativo rapporto, ossia la locazione dell’intero e non delle singole quote di cui ciascuno può disporre come erede ai sensi dell’art. 1103 c.c., comma 1, costituisce esercizio di amministrazione della cosa comune.

Dopo aver svolto una lunga premessa in diritto circa la legittimazione da parte del singolo comproprietario a dare in locazione la cosa comune per giungere alla conclusione, con il conforto della giurisprudenza di questa Corte (p. 12 s.i.), che il singolo comproprietario possa agire per il rilascio, quando consti la esistenza di un contrasto nell’ambito della comunione rispetto all’azione giudiziaria, venendo in tal caso meno la presunzione che l’uno agisca nell’interesse di tutti, la Corte Territoriale affronta la fattispecie.

Secondo il giudice di appello si è in presenza di un’azione di reclamo intrapresa dal singolo comproprietario, al di fuori della norma di cui all’art. 1105 c.c., nel manifesto dissenso dell’altro.

Non solo, ma in quanto unici eredi del padre, l’oggetto è in comunione pro parte dimidia, che non consente alcuna deliberazione, rendendo, invece, indispensabile il ricorso al giudice.

Pertanto, il M.S. non poteva agire per la cessazione della locazione e del rilascio.

4. – A questa decisione il M.S. reagisce con un ricorso articolato in due motivi.

Resistono con controricorso la ***** 2000 e Ma.Si..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1102 c.c., commi 1 e 2, dell’art. 1103 c.c., comma 1 e falsa applicazione dell’art. 1105 c.c..

A dire del ricorrente, il problema non consisterebbe nell’avere o no il consenso del comproprietario, ma la disponibilità del bene comune in presenza di comproprietari, per cui la limitazione al godimento dello stesso avrebbe dovuto essere valutata alla luce del disposto dell’art. 1102 c.c..

Peraltro, la stessa Corte di cassazione ammetterebbe la locazione di quota e il M.S. era interessato a riottenere la disponibilità giuridica del bene nei limiti della quota di sua spettanza per poterne, mediante il godimento diretto ovvero indiretto, curare di nuovo la gestione.

2. – Con il secondo motivo lamenta la violazione dell’art. 1102 c.c., commi 1 e 2 e art. 1103 c.c., comma 1, nonchè falsa applicazione dell’art. 1105 c.c., comma 4.

In questo motivo si asserisce che, nel caso di specie, nessuna controversia era sorta tra i comproprietari circa l’opportunità di procedere giudizialmente contro il conduttore e questa opportunità è sorta solo dopo che il M.S. aveva citato in giudizio il conduttore.

L’opposizione del Ma.Si., interventore nella causa, non è stata motivata dal fatto che egli volesse godere direttamente o indirettamente la sua quota ideale del bene a prescindere dalla volontà del comproprietario, bensì dal fatto che si dovesse attendere l’esito di un giudizio di divisione.

Nella specie, poichè l’art. 1105 c.c., non indica in quale sede debba essere risolto il conflitto tra i comproprietari e non specifica il procedimento da seguire, nel momento in cui il Ma.Si. ha fatto rilevare il suo dissenso è stato instaurato il contraddittorio sul punto e il giudice adito è chiamato a decidere e risolvere il conflitto, come è accaduto.

3. – Questi due motivi, in realtà, vanno esaminati congiuntamente.

Infatti, il loro filo comune attiene alla legittimità dell’intimata finita locazione da parte del M.S., pur essendo egli contitolare della quota pro indivisa dell’immobile a suo tempo locato dal defunto padre M.B. alla ***** 2000 di Ma.Si. dal 1 gennaio 1986.

Il nucleo centrale del presente ricorso concerne, in punto di diritto, la legittimazione del singolo comproprietario della cosa locata alle azioni ad essa pertinenti e, nella specie, all’azione per finita locazione intentata da uno di essi senza il consenso dell’altro.

Al riguardo, va ricordato che è costante indirizzo interpretativo di questa Corte quello che individua tra i partecipanti alla comunione l’esistenza di un reciproco rapporto di rappresentanza, in virtù del quale è riconosciuto a ciascuno di essi il potere di provvedere alla locazione del bene comune e così quello di agire per la cessazione e la risoluzione del contratto e la consegna della cosa comune locata, anche nell’interesse degli altri partecipanti alla comunione. Si tratta, infatti, di atti di utile gestione rientranti nell’ambito dell’ordinaria amministrazione della cosa comune, per i quali è da presumere, salva prova contraria, che il singolo comunista abbia agito anche per il consenso degli altri (tra le tante, Cass. n. 1582/85).

Già in una lontana sentenza di questa Corte (Cass. n. 3043/62) si è affermato che il singolo comunista è legittimato ad agire per la risoluzione del rapporto di locazione sull’essenziale presupposto che non esista dissenso con altri compartecipanti alla comunione, trovando, così, ragion d’essere nella presunzione del consenso, insita nel comportamento passivo dei comproprietari in relazione ad un atto di ordinaria amministrazione, effettuato dal comproprietario resosi attivo a tutela di comuni interessi e così è venuto ad assumere la figura di tacito mandatario o di utile gestore.

In tale prospettiva è conseguente osservare che nel caso di dissenso, che invece sia espresso, come nella specie, da uno dei comunisti nei confronti dell’esperimento dell’azione di rilascio intentata contro il conduttore della cosa locata – nel caso in esame la ***** 2000 di Ma.Si., soggetto diverso dal M. S., compartecipe della titolarità del bene come comproprietario di quota indivisa dello stesso bene – va esclusa, perchè incompatibile con qualsiasi presunzione di prestato consenso, non solo il tacito mandato, ma, altresì, in presenza di una prohibitio domini, la stessa ammissibilità di un’utile gestione (Cass. n. 1202/64).

In questa direzione si è, quindi, rilevato da questa Corte (tra le tante Cass. n. 4291/78) che la legittimazione del singolo comunista deve essere esclusa quando, a seguito dell’intervento in causa degli altri partecipanti alla comunione della cosa locata, si accerti l’esistenza del contrasto tra i compartecipanti.

In sostanza, se ciascuno del comproprietari locatori può svolgere le azioni che derivano dal contratto di locazione in funzione della presunzione del consenso degli altri, alla proposizione dell’azione giudiziaria ne resta, come limite, la possibilità per questi ultimi, ove rappresentino una quota maggioritaria, di opporsi all’azione medesima, essendo necessario, a tal’uopo, il preventivo intervento del giudice a norma dell’art. 1105 c.c., in caso di quote eguali e di dissenso dei comproprietari locatori (Cass. n. 1582/86). Tale dissenso, ponendo in evidenza un conflitto di interessi, che non può essere risolto in presenza di uguaglianza delle rispettive quote con il debito criterio della maggioranza economica secondo i principi vigenti in materia di amministrazione della cosa comune (art. 1105 c.c., comma 2), comporta, di necessità, l’intervento dell’autorità giudiziaria, come previsto dal citato art. 1105 c.c., u.c.. Si demanda, cioè, al giudice di dirimere (con i prescritti provvedimenti in camera di consiglio) il suddetto conflitto in ordine alla opportunità e necessità di determinati atti di amministrazione della cosa comune ed atto del genere è proprio l’esperimento della azione giudiziaria contro il terzo conduttore dell’immobile con la nomina, se del caso, di un amministratore, quando non sia possibile quella formazione della debita maggioranza fra i consociati, calcolata secondo il valore delle rispettive quote.

Se questo è l’iter giuridico-giudiziario che va seguito in caso di pluralità di comunisti, a maggior ragione nella comproprietà pro parte dimidia, come nella specie, la legittimazione ad agire con qualsiasi azione contro il conduttore dell’immobile comune, nonostante il divieto espresso da chi è comproprietario dell’altra metà, sia pure per quota, dello stesso, in tanto può sussistere in quanto si sia configurato il presupposto che egli sia abilitato all’esercizio, individuale ed esclusivo, di amministrare l’intero bene anche in modo difforme dalla volontà dell’altro compartecipe.

Ma, tale presupposto viene meno ove vi sia l’espresso divieto di tale compartecipe, atteso che la eguaglianza delle quote impedisce il prevalere della volontà del primo e che questi acquisti il diritto di decidere sulla opportunità o necessità dell’atto di amministrazione che vuole compiere e così non gli consente di assumere, contro il dissenso dell’altro paritario compartecipe alla comunione del bene, la rappresentanza sostanziale della comunione stessa, presupposto, a sua volta, della relativa rappresentanza in giudizio.

Il singolo compartecipe non può senza il consenso dell’altro, che è compartecipe per quota eguale, agire perchè quest’ultimo ha un uguale diritto di valutare la convenienza o la necessità dell’azione ed, altresì, di apprezzare la sussistenza o meno dei presupposti di essa, che l’altro intende promuovere anche ai fini delle conseguenze patrimoniali del giudizio.

Orbene, nel caso che ne occupa, nel giudizio instaurato da M. S. per finita locazione dell’immobile condotto dalla ***** 2000 di Ma.Si., è pacifica la uguale quota di partecipazione al bene dato in locazione; altresì, pacifico è il dissenso espresso dal compartecipe Ma.Si..

Il che doveva portare, come in tal senso ha correttamente statuito il giudice di appello, accogliendo la impugnazione di M.S. contro la sentenza di primo grado, al debito riconoscimento della carenza di legittimazione ad agire del Ma.So. per il rilascio dell’immobile, atteso che si doveva prendere atto dell’essere venuta meno, per la configurabilità di quella legittimazione, la presunzione di prestato consenso da parte del Ma.Si., che l’avrebbe, invece, giustificata.

Infatti, è emersa nel relativo processo la volontà contraria – con l’intervento del Ma.Si. – in tal senso da parte di esso Si. senza che, in mancanza di un applicabile sussidio del criterio della maggioranza economica ex art. 1105 c.c., comma 2, risultasse indicato l’esperimento del debito previo procedimento camerale a norma dell’u.c. del citato articolo, per risolvere l’anzidetto conflitto a pro del suddetto comproprietario e della sua abilitazione alla proposizione della anzidetta azione (v. Cass. n. 4261/91). Nè vale quanto sostiene l’attuale ricorrente, ossia che, comunque, poichè l’art. 1105 c.c., non indica in quale sede debba essere risolto il conflitto tra i comproprietari e non specifica il procedimento da seguire e, avendo il Ma.Si. fatto rilevare il suo dissenso avanti al giudice adito per la finita locazione, comunque si sìa instaurato il contraddittorio sul punto e, quindi, è quel giudice chiamato a decidere e risolvere il conflitto.

Infatti, il ricorso alla autorità giudiziaria, qualora ricorra l’ipotesi dell’art. 1105 c.c., comma 4, come nella specie, si configura necessario ed indispensabile ex lege, stante il dissenso del compartecipe pro quota dimidia ed è disciplinato nella linea dei procedimenti in Camera di consiglio di cui al comb. disp. artt. 737 e 742 bis, ovvero con modalità procedurali ben chiare e determinate:

il che, nel caso in esame non è affatto avvenuto.

Il ricorso va, dunque, respinto.

Sussistono giusti motivi, atteso che la questione vede protagonisti due fratelli, (il Ma.Si. è anche titolare della ***** 2000, che pure ha resistito al ricorso), pur se da posizioni antagoniste, per disporre la compensazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione tra tutte le parti.

Redazione