Corte di Cassazione Civile sez. III 13/1/2005 n. 583; Pres. Vittoria, P.

Redazione 13/01/05
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Il prestatore d’opera (nella specie professione sanitaria), che versa in colpa per un’errata scelta tecnica, che all’origine si poneva come di semplice soluzione, non può poi più avvalersi della delimitazione della propria responsabilità per solo dolo o colpa grave, si sensi dell’art. 2236 cod.civ., per gli eventuali problemi tecnico-professionali di speciale difficoltà, in cui sia incorso nel prosieguo dell’espletamento della tecnica operativa errata, con la conseguenza che in tal caso èanche irrilevante la difettosa tenuta della cartella clinica che – ove risulti provata l’idoneità della condotta a provocare il danno alla salute – non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta del medico, in relazione alla patologia accertata ed il danno subito alla salute (nella specie la Corte Cass. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto errata la scelta tecnica ed erronea la valutazione del parto – essendo rimasto accertato attraverso la espletata consulenza tecnica che l’originaria paralisi del neonato era stata conseguenza di un’errata manovra da parte del medico nella fase espulsiva del feto e dell’applicazione della ventosa, con una trazione ed entità di forza incongrua -, pur sottolineando che la fattispecie concreta doveva essere esaminata, più che con riferimento alla negligenza ed imprudenza, sotto il profilo della perizia, comportando l’adozione di una tecnica di parto errata, in relazione alle circostanze concrete ed in relazione ad un caso che non importava problemi tecnici di speciale difficoltà, un difetto di perizia da parte del medico; l’errata scelta iniziale della soluzione operativa che si presentava semplice ha costituito un antecedente dotato in concreto di efficienza causale, scaturente dal comportamento colpevole del prestatore d’opera professionale, anche per l’insorgenza dei problemi tecnici successivi e per l’evento dannoso conclusivo).

Svolgimento del processo

La S.P.A. S., Casa di Cura S. S., proponeva appello avverso la sentenza del tribunale di Napoli depositata il 10.11.1998, con cui essa ed il dr. A. C., ginecologo – ostetrico, venivano condannati al pagamento in favore di P. S. e R. B., quali genitori esercenti la patria potestà sul figlio minore E. S., della somma di Lire 520.000.000, oltre interessi dal 23.4.1987, nonché in favore di P. S. e della B. di Lire 40 milioni ciascuno, oltre spese processuali, convenendo davanti alla Corte di appello di Napoli i predetti coniugi S., in proprio e nella qualità, A. C. e la s.p.a. W. A..
Si costituivano i coniugi S., e la s.p.a. W., che chiedevano il rigetto dell’appello.
Si costituiva il C., che proponeva appello incidentale, chiedendo il rigetto della domanda.
La Corte di appello di Napoli, con sentenza depositata il 23.10.2002, rigettava l’appello principale e quello incidentale.
Riteneva la corte di merito, per la parte che ancora interessa, che dalla consulenza tecnica d’ufficio era emerso che il dr. C. erratamente aveva praticato il parto della B. per via naturale, mentre la macrosomia del feto (4100 grammi), il ritardo nel travaglio (43° settimana) ed il fatto che la B. fosse primipara, avrebbe dovuto indurre il C., ginecologo di fiducia della B., a praticare il parto cesareo; che tanto già costituiva imprudenza nella scelta della via naturale e negligenza nella valutazione dei rischi; che a ciò si associò l’imperizia nell’uso della ventosa, per senso della trazione ed entità della forza, provocando gravi danni irreversibili al nascituro.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione A. C., che ha anche presentato memoria.
Resistono con controricorso P. S. e R. B., in proprio e nella qualità, che hanno anche proposto ricorso incidentale.
 
Motivi della decisione

1. Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi.
Va poi rigettata l’eccezione di mancata integrazione del contraddittorio nei confronti della S. s.p.a., contro cui non era stato proposto il ricorso per cassazione.
Infatti, l’obbligazione solidale passiva tra i vari convenuti non comporta, sul piano processuale, l’inscindibilità delle cause e non da luogo a litisconsorzio necessario in quanto, avendo il creditore titolo per rivalersi per intero nei confronti di ogni debitore, è sempre possibile la scissione del rapporto processuale, il quale può utilmente svolgersi anche nei confronti di uno solo dei coobbligati.
Conseguentemente, nel caso di giudizio di impugnazione promosso da uno solo dei debitori solidali, la sentenza passa in giudicato nei confronti dei condebitori non impugnanti (Cass. 18/02/2000, n. 1808; Cass. 30/01/1995, n. 1078).
2.1. Con l’unico motivo di ricorso il ricorrente principale lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1176, 2043, 2236 e 2697 c.c., nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e l’omesso esame di un punto decisivo della controversia a norma dell’art. 360, n. 3 e 5 c.p.c..
Il ricorrente lamenta che erratamente la sentenza impugnata ha ritenuto imprudente la scelta del parto per via naturale e negligente la valutazione del fattore di rischio, tenuto conto della macrosomia del feto (kg. 4100) e del ritardo di una settimana nel travaglio, per cui doveva effettuarsi il taglio cesareo, ed imperite le manovre di estrazione del feto.
Secondo il ricorrente la corte di merito è incorsa in un error in procedendo, non avendo esaminato i dati risultanti dalla cartella clinica, che possono essere esaminati direttamente da questa Corte; che da tali dati emerge che il dr. C. si trovò di fronte ad un’improvvisa emergenza (la distocia della spalla del feto) non prevedibile da esso ricorrente, come rilevato dai consulenti di parte; che conseguentemente la responsabilità del C. andava valutata a norma dell’art. 2236 c.c. e quindi andava affermata solo in caso di colpa grave o dolo, nella specie inesistenti; che competeva agli attori fornire la prova che l’intervento era di facile soluzione; che, in quella situazione, bisognava provvedere all’immediata estrazione del feto per non provocarne la morte; che il giudice avrebbe dovuto esaminare tutta la documentazione prodotta in atti, che può essere esaminata da questa Corte; che il giudice di merito non aveva preso in esame l’assunto dei consulenti tecnici di parte, secondo cui nella fattispecie il peso non poteva che essere valutato dopo la nascita, mentre dalla cartella clinica non risultava che la partoriente fosse alla 43° settimana di gravidanza, non essendo riportata la data dell’ultima mestruazione; che nella cartella non era riportato il dato relativo ad assunte ecografie della partoriente; che il parto cesareo andava praticato solo allorché il feto superasse i 4500 grammi; che dalla cartella clinica non risultava che il neonato fosse cianotico per asfissia.
2.2. Ritiene questa Corte che, anche a ritenere ammissibile a norma dell’art. 366, n. 3 c.p.c., il ricorso sotto il profilo del requisito dell’esposizione dei fatti di causa, riportata ai limiti dell’insufficienza, il motivo di ricorso è in parte inammissibile ed in parte infondato.
2.3. occorre premettere alcuni principi in tema di responsabilità professionale medica e del relativo onere probatorio.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, da cui non vi è motivo di discostarsi, in tema di obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale l’inadempimento del professionista alla propria obbligazione non può essere desunto, "ipso facto", dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del tradizionale criterio della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale fissato dall’art. 1176, comma 2, c.c. – parametro da commisurarsi alla natura dell’attività esercitata.
Pertanto la responsabilità del medico per i danni causati al paziente postula la violazione dei doveri inerenti al suo svolgimento, tra i quali quello della diligenza, che va a sua volta valutato con riguardo alla natura dell’attività e che in rapporto alla professione di medico chirurgo implica scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione professionale (Cass. 12.8.1995, n. 8845).
Infatti il medico – chirurgo nell’adempimento delle obbligazioni inerenti alla propria attività professionale è tenuto ad una diligenza che non è solo quella del buon padre di famiglia, come richiesto dall’art. 1176, c. 1°, ma è quella specifica del debitore qualificato, come indicato dall’art. 1176,c. 2°, la quale comporta il rispetto di tutte le regole e degli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica.
Il richiamo alla diligenza ha, in questi casi, la funzione di ricondurre la responsabilità alla violazione di obblighi specifici derivanti da regole disciplinari precise. In altri termini sta a significare applicazione di regole tecniche all’esecuzione dell’obbligo, e quindi diventa un criterio oggettivo e generale e non soggettivo. Ciò comporta, come è stato rilevato dalla dottrina, che la diligenza assume nella fattispecie un duplice significato: parametro di imputazione del mancato adempimento e criterio di determinazione del contenuto dell’obbligazione.
Nella diligenza è quindi compresa anche la perizia da intendersi come conoscenza ed attuazione delle regole tecniche proprie di una determinata arte o professione.
Comunemente si dice che trattasi di una diligentia in abstracto, ma ciò solo per escludere che trattisi di diligentia quam in suis, e cioè la diligenza che normalmente adotta quel determinato debitore. Per il resto il grado di diligenza, per quanto in termini astratti ed oggettivi, deve essere apprezzato in relazione alle circostanze concrete e tra queste, quanto alla responsabilità professionale del medico, rientrano anche le dotazioni della struttura ospedaliera in cui lo stesso opera.
2.4. A norma dell’art. 2236 c.c., applicabile anche ai medici, qualora la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera risponde dei danni solo in caso di dolo o colpa grave.
Va altresì rilevato che la limitazione di responsabilità professionale del medico chirurgo ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2236 c.c., attiene esclusivamente alla perizia, per la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, con esclusione dell’imprudenza e della negligenza. (Cass. 16/02/2001, n. 2335; Cass. 18.11.1997, n. 11440; Corte Cost. 22.11.1973, n. 166).
Pertanto il professionista risponde anche per colpa lieve quando per omissione di diligenza o di prudenza provochi un danno nell’esecuzione di un intervento operatorio o di una terapia medica.
In altri termini la limitazione della responsabilità del medico alle sole ipotesi di dolo o colpa grave si applica unicamente ai casi che trascendono la preparazione media (Cass. 11.4.1995,n. 4152), ovvero perché la particolare complessità discende dal fatto che il caso non è stato ancora studiato a sufficienza, o non è stato ancora dibattuto con riferimento ai metodi da adottare (Cass. 12.8.1995,n. 8845).
2.5. Quanto alla ripartizione dell’onere probatorio, la giurisprudenza ritiene che incombe al professionista, che invoca il più ristretto grado di colpa di cui all’art. 2236 c.c., provare che la prestazione implicava la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, mentre incombe al paziente danneggiato provare quali siano state le modalità di esecuzione ritenute inidonee (Cass. 4.2.1998,n. 1127; Cass. 3.12.1974, n. 3957).
Invece incombe al paziente l’onere di provare che l’intervento era di facile o routinaria esecuzione ed in tal caso il professionista ha l’onere di provare, al fine di andare esente da responsabilità, che l’insuccesso dell’operazione non è dipeso da un difetto di diligenza propria (Cass. 21/07/2003, n. 11316; Cass. 11/03/2002, n. 3492; Cass. 30.5.1996, n. 5005; Cass. 18.11.1997, n. 11440; Cass. 11.4.1995, n. 4152).
Nel caso di intervento di facile esecuzione, non si verifica un passaggio da obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato, che sarebbe difficile dogmaticamente da giustificare a meno di negare la stessa distinzione tra i due tipi di obbligazioni (come pure fa gran parte della recente dottrina), ma opera il principio res ipsa loquitur, ampiamente applicato in materia negli ordinamenti anglosassoni (dove la responsabilità del medico è sempre di natura aquiliana), inteso come "quell’evidenza circostanziale che crea una deduzione di negligenza".
3.1. Nella fattispecie non sussistono le lamentate violazioni di legge, avuto riguardo ai suddetti principi di diritto.
Infatti, avendo il giudice di merito ritenuto in punto di fatto sulla base della c.t.u., che per la macrosomia del feto (pari a 4100 grammi e nota al dr. C., ginecologo di fiducia della partoriente), per essere la partoriente una primipara e per il ritardo nel travaglio (43° settimana), doveva essere praticato un parto cesareo, ha conseguenzialmente concluso che nella fattispecie fu imprudente la scelta della via naturale, negligente la mancata valutazione del rischio ed imperita la manovra di estrazione con l’applicazione della ventosa, per la modalità di forza applicata, con produzione di danni al nascituro.
Ne consegue che nella fattispecie, avendo il giudice di merito ritenuto che il comportamento del sanitario fu negligente ed imprudente, ciò già di per sé sarebbe sufficiente ad integrare la colpa, indipendentemente da ogni questione in merito alla perizia dello stesso.
In ogni caso, anche a voler ritenere più correttamente, pur in assenza di una specifica doglianza su detto inquadramento, che l’errata scelta della tecnica del parto e l’errata valutazione del rischio, impropriamente siano stati inquadrati dal giudice del merito nell’ambito della negligenza ed imprudenza, mentre, attenendo a scelte tecniche – professionali, dovevano essere esaminate anche esse sotto il profilo della perizia del medico, egualmente nella fattispecie risulta infondata la censura di errata applicazione degli artt. 1176 e 2236 c.c..
3.2. Infatti il giudice di merito, fondandosi sulla consulenza tecnica d’ufficio, ha ritenuto che la concomitanza delle tre condizioni suddette (macrosomia del feto, ritardo di una settimana nella nascita e primogenitura) "comportava secondo la letteratura corrente ed oggi possiamo dire di comune conoscenza, che doveva essere praticato un taglio estrattivo".
Proprio il riferimento addirittura alla comune conoscenza, effettuato dalla sentenza impugnata, comporta che la scelta operativa, che il sanitario avrebbe dovuto effettuare, aveva carattere di estrema semplicità o routinario.
L’aver adottato il sanitario una tecnica di parto errata, in relazione alle circostanze concrete, comporta un difetto di perizia, in relazione ad un caso che non importava la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, con la conseguenza che in merito a detta scelta imperita non si pone un problema di responsabilità solo per dolo o colpa grave a norma dell’art. 2236 c.c..
Ritenuta la colpa iniziale del sanitario nella scelta della tecnica operativa, non ha più rilevanza l’assunto del ricorrente, secondo cui la distocia della spalla e la paralisi del plesso brachiale, con la conseguente necessità di applicazione della ventosa, furono eventi imprevedibili, implicanti problemi tecnici di speciale difficoltà.
3.3. Infatti, a parte ogni considerazione sul punto se, in presenza di macrosomia del feto e ritardo di una settimana nel parto, possano ritenersi imprevedibili i suddetti eventi per un ostetrico e se gli stessi implichino problemi di particolare difficoltà, sotto il solo profilo di principio di diritto va rilevato che il prestatore d’opera (nella specie professionale sanitaria), che versa in colpa per un’errata scelta tecnica, che all’origine si poneva come di semplice soluzione, non può poi più avvalersi della delimitazione della propria responsabilità per solo dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2236 c.c., Per gli eventuali problemi tecnico – professionali di speciale difficoltà, in cui sia incorso nel prosieguo dell’espletamento della tecnica operativa errata.
Infatti all’origine della sequenza causale, che ha dato luogo al danno, si pone proprio l’errata scelta della soluzione operativa (che pure era semplice da effettuare), ed i problemi tecnici di speciale difficoltà insorti trovano essi stessi causa in quella scelta iniziale errata. In questo caso il prestatore d’opera professionale ha posto in essere un antecedente dotato in concreto di efficienza causale, scaturente dal suo comportamento colpevole, anche per l’insorgenza di tali problemi tecnici successivi e per l’evento dannoso conclusivo.
3.4. Né può farsi una questione di prevedibilità o meno di detti problemi tecnici di difficile soluzione, successivamente insorti: ciò è possibile solo se il sanitario non sia stato imperito (e quindi in colpa) nel momento della scelta dell’opzione operativa, essendovene più di una e tutte egualmente valide secondo i protocolli correnti.
Se, invece, l’opzione adottata è errata già all’origine, e quindi il medico è già in colpa per tale scelta, che non era di difficile soluzione e quindi sfuggiva alla limitazione di responsabilità ex art. 2236 c.c., a lui è imputabile, senza la delimitazione alla sola colpa grave o dolo, la mancata soluzione dei problemi tecnici di speciale difficoltà, insorti proprio per l’adozione di tale tecnica errata, indipendentemente dalla prevedibilità degli stessi, in quanto la colpa iniziale connota tutta l’attività successiva, ed i problemi tecnici, cui ha dato causa detta scelta imperita del professionista, costituiscono rischio, che rimane a suo carico.
Si verifica, in buona sostanza, quanto previsto in tema di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta di un contratto, che non può essere invocata dalla parte che sia già inadempiente (anche se non in mora) al momento in cui sarebbero sorte le cause dell’onerosità della sua prestazione (Cass. 31/10/1989, n. 4554; Cass. n. 5785 del 1985; Cass. 10/03/1987, n. 2468; Cass. 17/02/1983, n. 1219; Cass. n. 6510 /1980).
3.5. Nella fattispecie, quindi, per sfuggire a detta responsabilità, il C. avrebbe dovuto assumere e provare che la distocia della spalla, la paralisi del plesso brachiale e gli altri danni al nascituro da applicazione della ventosa, si sarebbero egualmente verificati anche con l’esatta scelta del parto cesareo e cioè che essi non erano conseguenza della errata opzione operativa.
Ne consegue che la sentenza impugnata non è incorsa in alcuna violazione o falsa applicazione delle norme di diritto indicate.
4.1. Quanto alle altre censure, attinenti tutte al vizio di motivazione, va anzitutto osservato che esse, stante la suddetta impostazione giuridica della questione, perdono gran parte del carattere di decisività.
In ogni caso va osservato che, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, l’omesso esame di documenti non dà luogo ad un error in procedendo del giudice, ma si risolve in un vizio di motivazione, censurabile solo se esso concerne un punto decisivo della controversia, ossia se l’esame del documento avrebbe determinato una decisione diversa da quella adottata (Cass. 28/11/2001, n. 15113).
Ciò comporta che da una parte il giudice non può passare direttamente all’esame dell’incarto processuale e dall’altra che il motivo di censura per essere ammissibile e non generico, deve rispettare il principio di autosufficienza del ricorso. Qualora, con il ricorso per Cassazione, venga dedotta l’omessa od insufficiente motivazione della sentenza impugnata per l’asserita mancata valutazione di risultanze processuali (un documento, deposizioni testimoniali, dichiarazioni di parti, accertamenti del c.t., ecc.), è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata (o insufficientemente valutata), che il ricorrente precisi – ove occorra, mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso – la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, il controllo deve essere consentito alla corte di cassazione sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative (Cass. 24.3.2003, n. 3158; Cass. 25.8.2003, n. 12444; Cass. 1 febbraio 1995, n. 1161).
Ne consegue che il motivo di ricorso è inammissibile nella parte in cui ritiene che non siano stati valutati i documenti prodotti, e segnatamente la cartella clinica, senza riportare nel ricorso quale sarebbe il contenuto di detta cartella clinica e dei documenti non esaminati, ma richiedendone l’esame diretto da parte di questa Corte.
4.2. Quanto alla doglianza secondo cui il giudice di appello non avrebbe tenuto conto delle censure mosse alla consulenza tecnica d’ufficio ad opera dei consulenti di parte. e segnatamente ai rilievi che nella cartella clinica non era riportato alcun riferimento ad assunte ecografie della gestante – partoriente, né alla data dell’ultimo ciclo mestruale né ad assunti dati cianotici del neonato, va, anzitutto, osservato che le censure non sono decisive, in quanto relativamente alle ecografie della gestante – partoriente o al raggiungimento della 43° settimana di gestazione, o allo stato cianotico (o meno) del neonato, la censura si limita a sostenere che detti dati non risultano dalla cartella clinica, ma non che essi sono falsi, perché in contrasto con quanto riportato specificamente sui punti nella cartella.
Peraltro, poiché la cartella clinica relativamente ad una partoriente deve contenere detti dati, la mancanza degli stessi si risolvono in omissione imputabile al medico nella redazione della cartella clinica.
4.3. Sennonché in tema di responsabilità professionale del medico – chirurgo, la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici in relazione alla patologia accertata ed il danno subito alla salute, ove risulti provata l’idoneità di tale condotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova ed al rilievo che assume a tal fine la "vicinanza alla prova", e cioè la effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla (Cass. 21/07/2003, n. 11316; Cass. 12/05/2003, n. 7201).
4.4. Va inoltre rilevato che la sentenza di appello ha ritenuto che l’originaria paralisi del neonato fu conseguenza di un’errata manovra da parte del medico nella fase espulsiva del feto e dell’applicazione della ventosa, con una trazione ed entità di forza incongrua, basandosi sulle risultanze della consulenza. Sotto questo profilo tale sentenza si presenta come confermativa di quella di primo grado che aveva osservato, come risulta dal controricorso, che tutti gli elementi coincidevano nell’indicare il trauma meccanico subito durante il parto come causa del grave danno fisico del neonato, e segnatamente la lacerazione di tutte le radici da C5 a D1, risultando tutti i requisiti necessari per la determinazione del nesso causale: criterio cronologico, topografico, efficienza qualitativa e quantitativa, con esclusione di altre cause.
Ne consegue che, sia pure con motivazione sintetica, ma immune da vizi logici rilevabili in questa sede di legittimità, risulta disatteso dal giudice di merito il nucleo centrale dei rilievi critici mossi dalla consulenza di parte.
4.5. Quanto alla censura di mancata ammissione dei mezzi istruttori richiesti, egualmente il ricorso è inammissibile, per genericità, sotto il profilo sempre della mancanza di autosufficienza del ricorso, non essendo stato riportato il contenuto di detti mezzi istruttori, e, quanto alla richiesta di rinnovo della consulenza, i quesiti che si intendevano proporre al c.t.u. (Cass. 16/02/2004, n. 2953).
5. Passando all’esame del ricorso incidentale, preliminarmente all’esame del motivo, attinente alla liquidazione delle spese processuali di secondo grado, ne va dichiarata l’inammissibilità per mancata esposizione dei fatti di causa, a norma del combinato disposto degli artt. 371, c. 3, e 366, c. 1° n. 3, c.p.c..
Infatti il controricorso, avendo la sola funzione di resistere all’impugnazione altrui non richiede a pena di inammissibilità l’esposizione sommaria dei fatti di causa, ben potendo richiamarsi ai fatti esposti nella sentenza impugnata ovvero nel ricorso principale (Cass. 21.2.1996, n. 1341; Cass. 9.9.1997, n. 8746).
Ove tuttavia detto controricorso contenga anche un ricorso incidentale, per l’ammissibilità di quest’ultimo, data la sua autonomia rispetto al ricorso principale, deve sussistere l’esposizione sommaria dei fatti di causa ed è pertanto inammissibile il ricorso incidentale (e non il controricorso) tutte le volte in cui si limiti ad un mero rinvio all’esposizione del fatto contenuta. nel ricorso principale, potendo il requisito di cui all’art. 366 c. 1, n. 3 c.p.c, ritenersi sussistente, solo quando dal contesto dell’atto di impugnazione si rinvengono gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni assunte dalle parti, senza necessità di ricorso ad altre fonti (Cass. S.U. 13.2.1998, n. 1513).
Nella fattispecie neppure dal contenuto del controricorso emergono tutti questi elementi suddetti relativi allo svolgimento dei fatti di causa.
6. In definitiva va rigettato il ricorso principale e dichiarato inammissibile l’incidentale.
Esistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile l’incidentale. Compensa tra le parti le spese del giudizio di Cassazione.

Redazione