Corte di Cassazione Civile sez. III 11/2/2009 n. 3350; Pres. Fantacchiotti M.

Redazione 11/02/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nel settembre 1995 L.S. ha convenuto davanti al Tribunale di Roma la Banca Popolare di Lecco, la Banca Toscana e la Banca Popolare di Milano, esponendo che persona a lui sconosciuta – successivamente identificata in un certo A.F. – aveva aperto rapporti di conto corrente a suo nome presso ognuna delle tre banche, presentando come documento di identità la patente di guida che egli aveva smarrito e di cui aveva denunciato lo smarrimento due anni prima. Il suddetto A. si era fatto poi consegnare libretti di assegni, che aveva messo in circolazione e lasciato protestare a suo nome.

Ne erano conseguiti numerosi procedimenti penali a carico di esso L. per emissione di assegni a vuoto, sebbene egli non avesse intrattenuto alcun rapporto con le suddette banche e le avesse anzi diffidate dal far protestare assegni bancari apparentemente a sua firma, con atti notificati per ufficiale giudiziario il 3 agosto e l’8 settembre 1992.

Ha chiesto, pertanto, che il Tribunale accertasse la responsabilità delle convenute per avere tenuto una condotta negligente nel verificare l’identità della persona che aveva aperto i conti correnti e le condannasse al risarcimento dei danni, quantificati in non meno di L. 300 milioni, a titolo di responsabilità extracontrattuale; che ordinasse altresì la cancellazione del suo nome dal bollettino dei protesti.

Le convenute hanno resistito alla domanda, affermando che l’apertura dei conti correnti era avvenuta tramite l’esibizione da parte del richiedente di regolare patente di guida intestata al L. e comunicazione del numero di codice fiscale dello stesso L.; che legittimamente, quindi, erano stati consegnati al correntista i libretti di assegni; che l’attore – avendo appreso fin dal (omissis) dalla Banca Popolare di Lecco che era stato aperto un conto corrente a suo nome – aveva denunciato l’abuso con ritardo, cioè solo il (omissis) successivo.

Con sentenza 23.6.1999 il Tribunale ha respinto la domanda nei confronti della Deutsche Bank (subentrata nel frattempo alla Popolare di Lecco), addebitando all’attore di non avere dato tempestiva comunicazione della sua estraneità al rapporto di conto corrente. Ha invece ravvisato un comportamento negligente a carico della Banca Toscana e della Popolare di Milano (BPM), che ha condannato al risarcimento dei danni nella misura di L. 40 milioni.

Hanno proposto autonome impugnazioni contro la sentenza il L., la Banca Toscana e la BPM. Ha resistito agli appelli la Deutsche Bank.

Riunite le impugnazioni, con sentenza 2 marzo/29 aprile 2004 n. 2040 la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, ha assolto le banche appellanti da ogni domanda, condannando il L. a restituire le somme ricevute in esecuzione della sentenza di primo grado e compensando le spese dell’intero giudizio.

Avverso la sentenza, a lui notificata il 1.10.2004, propone ricorso per cassazione il L., con atto notificato il 30.11.2004, affidandone l’accoglimento a quattro motivi.

Resistono con separati controricorsi Deutsche Bank, Banca Toscana e Banca Popolare di Milano.

L. e Deutsche Bank hanno depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- La Corte di appello ha respinto le domande del danneggiato, rilevando che le banche hanno aperto i conti correnti dietro esibizione di un documento di identità intestato al L., documento che non era stato in alcun modo falsificato o alterato, mediante sostituzione della fotografia; che non si può esigere che le banche richiedano l’esibizione di due documenti di identità o del tesserino originale di rilascio del codice fiscale; men che mai lo si poteva richiedere all’epoca dei fatti, allorchè il furto di identità costituiva un modus operandi del tutto eccezionale. Ha rilevato che il danneggiato non ha dimostrato che le sembianze dell’usurpatore fossero diverse da quelle risultanti dalla fotografia sul documento; ed anzi, il fatto stesso che lo scambio di persona non sia stato rilevato induce a ritenere verosimile che vi fosse un’apprezzabile somiglianza; che non si possono richiedere alle banche accertamenti particolarmente sofisticati sull’autenticità dei documenti presentati dai correntisti, accertamenti che ostacolerebbero lo svolgimento degli affari; tanto più che la prassi in materia tende ad evolvere verso una sempre maggiore semplificazione dei rapporti, ove si consideri che oggi l’apertura di un conto corrente può avvenire per via telematica, senza alcun contatto fisico fra il correntista e l’istituto di credito.

Ha concluso che alle banche non può essere imputato alcun comportamento negligente o colposo, neppure per avere proceduto al protesto degli assegni, trattandosi di atto dovuto. Ha respinto anche la domanda di cancellazione del nome del L. dal bollettino dei protesti, perchè l’ordine di sospensione del procedimento amministrativo di pubblicazione o di cancellazione dei protesti richiede una particolare procedura, che deve svolgersi fra il debitore e il creditore del titolo cartolare, o fra il debitore e chi abbia dato luogo all’ingiusta negoziazione del titolo.

2.- Con il primo motivo, deducendo nullità della sentenza per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, il ricorrente rileva che, dovendosi l’attività bancaria qualificare come attività pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 cod. civ., gravava sulle banche convenute l’onere di dimostrare di avere effettuato tutti i controlli e le verifiche occorrenti al fine di evitare il compimento dell’illecito, prova che non è stata fornita; che il rilievo della Corte di appello, secondo cui è da presumere che vi fosse somiglianza fra l’immagine sulla fotografia e l’aspetto dello sconosciuto è da ritenere apodittico e indimostrato; tanto è vero che l’A. è stato successivamente arrestato perchè l’impiegato alla reception di un albergo, al quale aveva esibito la stessa patente, ha rilevato la dissomiglianza fra il suo aspetto e la fotografia sul documento. Soggiunge di avere avvertito a voce la Banca Popolare di Lecco del furto di identità ben prima del (omissis), appena avuta notizia dell’abusiva apertura del conto corrente a suo nome.

2.1.- Il motivo è fondato, sotto il profilo dell’insufficienza e contraddittorietà della motivazione.

Va disatteso il richiamo all’art. 2050 cod. civ., non potendosi l’attività bancaria considerare attività pericolosa, di per sè od in relazione alla natura dei mezzi adoperati, nei termini di cui alla citata norma, come si è venuta storicamente formando e come viene normalmente interpretata.

L’attività bancaria può indubbiamente sollecitare (più di altre) iniziative e comportamenti illeciti da parte di terzi, anche pericolosi per l’incolumità altrui. Nè si può escludere che in futuro – con il moltiplicarsi del numero e della potenzialità dannosa degli illeciti – possano essere elaborate regole peculiari e più ampie di imputazione della responsabilità, a tutela degli utenti dei servizi bancari.

Ad oggi, l’esercizio dell’attività bancaria si considera mera occasione dell’esposizione a pericolo del patrimonio od anche dell’incolumità fisica della clientela; non invece la causa prima ed originaria dei corrispondenti rischi (così per esempio, in relazione ai danni conseguenti ad una rapina, Cass. civ. Sez. 3^, 27 maggio 2005 n. 11275).

Ciò premesso in ordine alla violazione di legge, va però rilevato che la motivazione della Corte di appello appare illogica e contraddittoria sotto svariati profili.

In primo luogo perchè richiama la non esigibilità di controlli particolarmente sofisticati da parte della banca, mentre nella specie si trattava di verificare se fossero stati effettuati i controlli minimi indispensabili al fine di identificare il cliente, cioè la verifica della corrispondenza della fotografia riportata sul documento alla persona del richiedente il servizio.

In secondo luogo perchè incorre in una vera e propria petizione di principio, quando afferma che la foto era da presumere somigliante perchè il falso non è stato riconosciuto, dando così per dimostrato il fatto che l’impiegato allo sportello avesse controllato il documento e la fotografia, circostanza che era invece da dimostrare.

Il fatto che il documento non fosse stato in alcun modo falsificato o alterato induce a presumere che lo scambio di identità fosse immediatamente riconoscibile (come è stato in effetti riconosciuto da altro operatore economico, a breve distanza di tempo).

Risultando in fatto dimostrati il furto di identità e l’utilizzazione da parte del reo di un documento altrui in nulla alterato o modificato, la riconoscibilità dell’abuso era da ritenere in re ipsa, e da presumere fino a prova contraria. Era a carico della banca, quindi, e non del danneggiato, l’onere di fornire la prova della scusabilità del suo errore (per la somiglianza fra le due persone o per altra causa), contrariamente a quanto ha affermato la Corte di appello.

2.- Con il secondo motivo, deducendo la nullità della sentenza impugnata per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, il ricorrente lamenta che i protesti degli assegni siano stati considerati come "atti dovuti", mentre tali non erano nei confronti del L., una volta accertato il furto di identità e la falsità delle firme apposte con il nome di lui; che le banche trattarle, essendo esse stesse responsabili dell’indebita emissione degli assegni a vuoto, erano legittimate a contraddire alla sua domanda di cancellazione dei protesti; che anzi avrebbero dovuto esse stesse richiedere al presidente del tribunale la cancellazione, ai sensi della L. 12 giugno 1973, n. 349, art. 12, dettata per la cambiale, ma applicabile anche al protesto di assegni; che la mancata richiesta è dovuta al fatto che esse non hanno voluto ammettere il loro errore, aggravando i danni subiti dal ricorrente, che ha perso la caparra relativa ad un acquisto immobiliare, non conclusosi a causa del protesto a suo carico, e ha dovuto sostenere ingenti spese per la propria difesa in sede penale.

3.- Il motivo non è fondato.

In primo luogo l’accertamento dell’ipotetico illecito delle banche nel procedere ai protesti o nel non richiederne la cancellazione presuppone una serie di accertamenti in fatto – circa la data in cui è stato scoperto l’abuso, le date in cui le singole banche ne sono state informate, le date in cui sono stati eseguiti i protesti, ecc. – accertamenti che nella specie non vengono in alcun modo richiamati o documentati. Il ricorrente neppure specifica quali e quanti siano i protesti di cui avrebbe dovuto essere disposta la cancellazione.

In ogni caso, l’ordine di cancellazione può essere emesso solo in esito alle peculiari procedure previste dalla normativa speciale in materia (L. 12 giugno 1973, n. 349, art. 12; oggi anche art. 8 Regolamento di attuazione del registro informatico dei protesti, approvato con Decreto 9 agosto 2000, n. 316, a norma del D.L. 18 settembre 1995, n. 381, art. 3 bis. convertito, con modificazioni, dalla L. 15 novembre 1995, n. 480; L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 18, 1 comma, in tema di usura).

La motivazione della Corte di appello – pur se non del tutto chiara sul punto – ha fatto per l’appunto riferimento a quanto sopra.

4.- Il terzo ed il quarto motivo – con cui il ricorrente lamenta la mancata valutazione dei danni, nonchè la mancata condanna delle banche ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ. – sono inammissibili, trattandosi di questioni su cui la Corte di appello non ha deciso, ritenendole assorbite dalla sua decisione di rigetto delle domande attrici in punto responsabilità.

Le questioni dovranno essere riproposte al giudice di rinvio.

5.- La sentenza impugnata deve essere cassata, limitatamente al capo di cui al primo motivo, con rinvio della causa alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, affinchè decida sulle domande proposte dal ricorrente, uniformandosi ai principi sopra enunciati.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione accoglie il primo motivo di ricorso, rigetta il secondo e dichiara inammissibili il terzo e il quarto.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di Cassazione.

Redazione