Corte di Cassazione Civile sez. II 7/10/2008 n. 24729; Pres. Vella A.

Redazione 07/10/08
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 25 febbraio 2002, il tribunale di Vibo Valentia, in accoglimento della domanda proposta nel gennaio 1996 da GeCo srl avverso G.C., dichiarava risolto per inadempimento della convenuta e per effetto di diffida stragiudiziale il contratto preliminare di compravendita stipulato il 20 ottobre 1994, relativo ad un appartamento sito in (omissis). Su appello della G., che lamentava inadempimento della società costruttrice per mancato possesso del certificato di abitabilità, la Corte d’appello di Catanzaro il 4 febbraio 2004 riformava la sentenza di primo grado e rigettava la domanda principale.

GeCo srl ha proposto ricorso per cassazione imperniato su quattro motivi. La G. ha resistito con controricorso e ha proposto ricorso incidentale.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente va disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

I quattro motivi del ricorso principale potranno essere trattati congiuntamente, perchè tutti connessi e tendenti a dimostrare che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto fondata l’eccezione di inadempimento mossa dall’acquirente a causa del mancato rilascio del certificato di abitabilità.

Con la prima censura Geco denuncia la violazione del D.P.R. n. 425 del 1994, art. 4, consistita nel non aver riconosciuto che a seguito del perdurante silenzio dell’amministrazione comunale sull’istanza volta ad ottenere il certificato di abitabilità si era formato il silenzio assenso previsto dalla norma citata e dalla L. n. 241 del 1990.

La seconda censura evidenzia la carenza di motivazione: della sentenza impugnata, che non avrebbe tenuto conto delle circostanze emerse nella relazione di consulenza tecnica d’ufficio acquisita in primo grado, nella quale era stato precisato che l’istanza era stata corredata da tutta la documentazione prevista, in parte depositata in giudizio.

Collegandosi alla precedente, la terza censura (violazione e falsa applicazione degli artt. 61, 62, 115, 194 e 195 c.p.c., nonchè dell’art. 2697 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, e carenza di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5) è rivolta contro la mancata considerazione della consulenza tecnica acquisita dal giudice di primo grado, poichè il secondo giudice avrebbe dovuto almeno indicare in sentenza i motivi per i quali disattendeva la consulenza ritualmente acquisita in giudizio e la sua positiva verifica.

Infine nella quarta censura parte promittente venditrice lamenta violazione dell’art. 1460 c.c., evidenziando come l’avvenuta consegna dell’appartamento e il godimento effettivo da parte dell’acquirente, protrattosi per il corso del giudizio (oltre dieci anni), costituivano prova della sussistenza di "tutte le caratteristiche igienico sanitarie necessarie per l’impiego abitativo". Di qui, secondo la ricorrente, la illogicità della motivazione, che aveva addebitato alla GeCo e non alla G. il grave inadempimento.

Il ricorso è fondato per ogni aspetto.

Risulta dalla sentenza impugnata (pag. 13 e pag. 15) che dopo il rigetto di una prima istanza rivolta al Comune per ottenere il certificato di abitabilità, GeCo ne aveva presentata un’altra (il 2 9 settembre 1995), alla quale non era stata data risposta alcuna. Il tribunale aveva pertanto ritenuto, ai sensi del D.P.R. n. 425 del 1994, art. 4, che "la attestazione della abitabilità era maturata fin dal 13 novembre 1995, con lo spirare del 45^ giorno successivo". La Corte d’appello è andata in contrario avviso, reputando che il silenzio protrattosi per 45 giorni non dia luogo ad una fattispecie di silenzio assenso, ma ad una attestazione della abitabilità, che deve essere integrata dalla sussistenza dei requisiti e dei presupposti previsti dalla legge per il rilascio della certificazione. Ha aggiunto che non erano stati prodotti in causa i documenti allegati all’istanza, sicchè la "fattispecie permissiva" non sarebbe venuta a giuridica esistenza. Ha addebitato al venditore la responsabilità del mancato rilascio del certificato, per ottenere il quale avrebbe dovuto attivarsi in caso di inerzia del Comune.

Questa ricostruzione del sistema non è condivisibile. Il D.P.R. citato, art. 4, (ora abrogato dal D.P.R. n. 380 del 2001) prevedeva che "in caso di silenzio dell’amministrazione comunale, trascorsi quarantacinque giorni dalla data di presentazione della domanda, l’abitabilità si intende attestata. In tal caso, l’autorità competente, nei successivi centottanta giorni, può disporre l’ispezione di cui al comma 2, del presente articolo, e, eventualmente, dichiarare la non abitabilità, nel caso in cui veri fichi l’assenza dei requisiti richiesti alla costruzione per essere dichiarata abitabile".

E’ da escludere che nel caso in esame sia stata dichiarata la non abitabilità ai sensi dell’ultimo inciso di detto articolo, sia perchè la sentenza tace sul punto, sia perchè i provvedimenti cui parte controricorrente (pag. 12 e 13) fa rinvio non sono stati riportati nè integralmente nè parzialmente (cfr. Cass. 11886/06; 8960/06; 7610/06), così impedendone l’esame a questa Corte, che non ha accesso agli atti di causa in ordine alle doglianze che non siano di carattere processuale.

Occorre quindi interrogarsi sulla rilevanza ai fini civilistici dell’attestazione di cui all’art. 4, e del suo consolidamento, che oggi è temporalmente anticipato, giacchè nella nuova normativa (D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) gli artt. 25 e 26, non menzionano più il potere dell’amministrazione di dichiarare nei 180 giorni l’assenza dei presupposti per l’abitabilità. La sentenza d’appello si è limitata a dar conto dell’orientamento espresso nel 1996/98 dalle sezioni penali di questa Corte e più di recente dai giudici amministrativi per i quali "il silenzio non costituisce una forma di silenzio-assenso, ma solo una legittimazione "ex lege", che prescinde dalla pronuncia della p.a. e trova il suo fondamento nell’effettiva sussistenza di tutti i presupposti richiesti dalla legge per il rilascio della licenza".

Il senso della previsione di una fattispecie di assenso e di quel termine di centottanta giorni per l’esercizio di un potere correttivo dell’amministrazione va secondo questa Corte valorizzato. Nell’intento del legislatore risponde allo scopo, coerente con tutta la normativa che regolamenta l’attività edilizia, di: a) agevolare il rapporto con la pubblica amministrazione; b) responsabilizzare il privato – che tramite l’attività del professionista può conseguire effetti equivalenti alla certificazione -; c) facilitare i traffici commerciali di beni di rilevante valore. E’ infatti noto che lentezze e ritardi degli apparati amministrativi nello svolgere i controlli sulle istanze in materia edilizia hanno portato il legislatore a semplificare il settore (si consideri per esempio che il D.P.R. n. 380 del 2001, (T.U. edilizia) dove possibile, ha sostituito l’autorizzazione edilizia con la denuncia di inizio attività). Si è proceduto addebitando ai singoli professionisti il compito di corredare le istanze con adeguata documentazione, con la relativa responsabilità nelle attestazioni, nonchè attribuendo al decorso del tempo il consolidamento di facoltà e diritti, delle imprese e dei cittadini, connessi alla realizzazione delle opere intraprese.

La soppressione del limite di 180 giorni per il controllo è stata interpretata dalla dottrina preferibile nel senso di sottrarre alla P.A. il potere di correzione del silenzio assenso nel frattempo formatosi, giacchè non si può pensare che detta facoltà permanga a tempo illimitato in capo all’amministrazione. Sarebbe altrimenti violato il principio di affidamento del cittadino, principio via via affermatosi dopo l’enucleazione teorica posta dalla dottrina al principio degli anni ’70.

Privata del potere di dichiarare la decadenza del tacito assenso dopo il decorso del termine dei 180 giorni, la P.A. mantiene solo la facoltà di intervento in via di autotutela, soggetto alle condizioni richieste attualmente dall’art. 21 quinquies e nonies, della legge sul procedimento amministrativo. Se questa è la rilevanza legislativa della fattispecie di assenso delineatasi nel caso di specie D.P.R. n. 425 del 1994, ex art. 4, bisogna trarne la conseguenza che il costruttore-venditore, che al momento del rogito disponga di documentazione così formata è in condizione di aver fatto quanto dovuto ai fini dell’abitabilità (oggi agibilità) dell’immobile promesso in vendita.

Sorge ovviamente in capo al venditore l’onere, a richiesta del notaio rogante o dell’acquirente, di comprovare che l’istanza sia stata presentata con il dovuto corredo documentale. Così assolto (in conformità a quanto prescritto da Su 12533/01) l’onere probatorio gravante sul venditore, l’accertamento residuo si atteggia diversamente in caso di eventuale contestazione in sede giurisdizionale circa la sussistenza di fatto dei requisiti urbanistici e igienico sanitari, su cui il venditore è in condizione di fornire solo prova dell’adempimento di quanto prescritto senza potersi sostituire alla valutazione del Comune. Mancata la stipulazione del rogito, ove la contestazione non sia meramente esplorativa e dilatoria, ma puntuale e specifica, in modo da consentire una verifica mirata, è pertanto possibile – da parte dell’autorità giurisdizionale procedente rivolgersi all’ente locale competente perchè manifesti espressamente se ravvisa la sussistenza delle condizioni per l’abitabilità. In assenza di risposta alla richiesta di informazioni del giudice, si deve far luogo a un accertamento tecnico che dia luogo a una pronuncia sul punto controverso con validità limitata alle parti contraenti in contesa. Va infatti escluso, in linea con l’orientamento emerso in dottrina, che, formatosi il silenzio assenso,il costruttore possa (o debba) pretendere in forza della L. n. 1034 del 1971, art. 21 bis, che l’Amministrazione rilasci un certificato espresso di abitabilità: si vanificherebbe altrimenti la finalità della previsione normativa della fattispecie di assenso. Per altro verso va escluso che la contestazione del promissario acquirente gli imponga di agire, con azione di mero accertamento, spiegata contro l’ente locale davanti al giudice amministrativo. La contesa verte infatti tra le parti in ordine all’adempimento del contratto ed è con gli strumenti civilistici che può essere determinato incidenter tantum se vi sia stato ossequio delle prescrizioni imposte dall’amministrazione ad uno dei contraenti.

Ciò posto, la sentenza impugnata sembra avere diversamente inteso il senso del procedimento di assenso, non ricollegando ad esso quell’effetto di idoneità a integrare gli obblighi contrattuali essenziali per poter efficacemente stipulare il rogito. Ha infatti automaticamente addebitato al costruttore l’onere di verificare la sussistenza dei requisiti di legge per l’abitabilità; ha poi negato che l’accertamento fosse stato compiuto dal primo giudice e ha rifiutato di provvedere direttamente a causa della mancata produzione documentale da parte di Ge.Co..

La motivazione risulta carente e viziata. Non solo difetta in essa alcun riferimento alla documentazione che nel secondo motivo di ricorso (pag. 15) parte ricorrente elenca in dettaglio ed afferma di aver depositato con la memoria di replica del 15 dicembre 1998 e che era rilevante al fine della verifica formale sui presupposti di legge dell’abitabilità, ma nessun cenno si rinviene in motivazione sulla consulenza tecnica, che pure nello svolgimento del processo (a pag. 7) risulta acquisita. Parte ricorrente, utilmente citando (pag. 4 e 5), ai fini dell’autosufficienza del ricorso, i passi salienti della consulenza, ha evidenziato come quest’ultima avesse dato atto che l’istanza del 1995 era stata corredata da tutta la documentazione prevista e che,secondo il consulente, l’immobile aveva quindi i requisiti per il rilascio del certificato di abitabilità. Ha sottolineato inoltre come:, sulla scorta di questa indagine, il primo giudice avesse ritenuto adempiente la società attrice. A fronte di tali risultanze della consulenza, il totale silenzio del giudice d’appello lascia spazio al sindacato di legittimità, pur limitato alla verifica della sufficienza e correttezza logico giuridica della motivazione. Va infatti ricordato l’insegnamento in forza del quale ove il giudice di primo grado si sia conformato alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, il giudice di appello può pervenire a valutazioni divergenti da quelle, senza essere tenuto ad effettuare una nuova consulenza, qualora, nel suo libero apprezzamento, ritenga, dandone adeguata motivazione, le conclusioni dell’ausiliario non sorrette da adeguato approfondimento o non condivisibili per altre convincenti ragioni (Cass. 19661/06; 14849/04).

La Corte territoriale ha invece omesso qualsiasi motivazione sulle indicazioni del consulente, nè ha tenuto conto del suo positivo riscontro circa l’esistenza della documentazione di corredo, la cui mancanza in atti è stata considerata decisiva, benchè essenziale fosse in primo luogo verificare che il Comune fosse stato messo in condizione di deliberare e che la fattispecie di assenso avesse avuto luogo con regolare presentazione all’ente locale di quanto necessario.

Risultano pertanto fondati anche il secondo e terzo motivo di ricorso.

Identico giudizio merita la quarta censura (violazione dell’art. 1460 c.c., commi 1 e 2, con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), in punto di gravità dell’inadempimento. La doglianza non è nuova e inammissibile, come dedotto in controricorso, perchè attiene proprio alla norma applicata dalla corte d’appello per accogliere l’eccezione di inadempimento con cui la G. ha paralizzato l’azione di risoluzione proposta da controparte. Inoltre dalla narrativa della sentenza d’appello (pag. 4) emerge che già in citazione era stata lamentata la persistente occupazione dell’alloggio senza corrispondere nemmeno gli oneri condominiali. Parte ricorrente ha opportunamente evidenziato come il giudice d’appello le abbia attribuito grave inadempimento per la mancata disponibilità del certificato di abitabilità, benchè da molti anni, ricevuta la consegna dell’immobile (circostanza non controversa, cfr. pag. 17 controricorso), la G. vi stesse abitando. Questi elementi avrebbero dovuto confluire nella valutazione del giudice d’appello, unitamente alla rilettura della vicenda alla luce della fattispecie di assenso formatasi e delle risultanze istruttorie non valutate.

Non manca una linea di contrasto tra precedenti di questa Corte secondo cui la mancata consegna al compratore del certificato di abitabilità, non determina, in via automatica, la nullità del contratto o la risoluzione per inadempimento del venditore, dovendo essere verificata in concreto l’importanza e la gravità dell’omissione in relazione al godimento e alla commerciabilità del bene (Cass. 3851/08; Cass. 24957/07; e inoltre n. 13270/00), restando così irrilevante che solo in giudizio emerga l’avvenuta formazione del silenzio assenso (circostanza esposta in difesa del resistente a pag. 7 del controricorso) e altri arresti secondo i quali la mancata consegna di tale licenza può integrare l’eccezione di inadempimento a prescindere dalla circostanza che l’immobile sia stato concretamente abitato (Cass. 8880/00). Per questo Collegio è da raccogliere il primo dei due orientamenti, che meglio consente di tener conto del comportamento osservato dalle parti e in particolare del suo ispirarsi al canone generale di buona fede che deve governare i rapporti obbligatori. D’altra parte è da ricordare quanto altra volta affermato in ordine alla "mancata consegna della licenza di abitabilità, che impone, si è detto (Cass. 24786/06), una indagine tendente ad accertare la causa effettiva di tale situazione, posto che il suo omesso rilascio può dipendere da molteplici cause, quali una grave violazione urbanistica, la necessità di interventi edilizi oppure dall’esistenza di meri impedimenti o ritardi burocratici che non attengono alla oggettiva attitudine del bene ad assolvere la sua funzione economico-sociale".

Con la conseguenza che l’eventuale relativo inadempimento del venditore può assumere connotazioni di diversa gravità senza necessariamente esser tale da dare luogo a risoluzione del contratto. Queste considerazioni, contrapposte alle ragioni dalla resistente ricordate in controricorso e affiancate alla indispensabile verifica, nel caso in esame, a quelle sulla formazione del silenzio assenso e sulla sua eventuale caducabilità, possono qui valere a maggior ragione, a fronte di un utilizzo dell’alloggio protratto per un consistente periodo di tempo, di cui nella nuova motivazione del giudice di rinvio si dovrà quindi tener conto.

Quanto al ricorso incidentale, va rilevata l’inammissibilità dell’unico motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 1454 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5). La controricorrente mirava a far accogliere dal giudice d’appello l’eccezione di inefficacia della diffida intimatale dalla promittente venditrice il 3 aprile 1996. Il giudice d’appello ha, in sede argomentativa, disatteso le tesi di parte G., ma ha nel contempo rilevato che la diffida era irrilevante, in presenza di inadempimento del diffidante. La decisione su questo secondo punto ha quindi assorbito le osservazioni svolte in precedenza a pag. 11, ditalchè è mancata – anche in dispositivo -una espressa decisione sul punto e la G. è risultata totalmente vittoriosa, pur con motivazione che non l’ha pienamente appagata. Va pertanto qui applicato il costante insegnamento giurisprudenziale in virtù del quale "il ricorso incidentale per cassazione deve essere giustificato da un interesse che abbia per presupposto una situazione sfavorevole al ricorrente, ovverosia una soccombenza, sicchè va ritenuto inammissibile quando con esso la parte vittoriosa sollevi questioni che il giudice di appello non abbia deciso in senso a lei sfavorevole avendole ritenute assorbite, in quanto tali questioni, in caso di accoglimento del ricorso principale, possono essere riproposte davanti al giudice di rinvio". (Cass. 22346/06/ 22501/06; ma v. anche utilmente Cass. 3654/06). Il ricorso incidentale va quindi rigettato.

L’accoglimento del ricorso principale comporta necessariamente un nuovo esame di merito da parte del giudice di rinvio, il quale procederà a nuova valutazione sulla scorta di quanto emerso dall’accoglimento del secondo, terzo e quarto motivo e, quanto al primo motivo, si atterrà al seguente principio di diritto:In tema di licenza di abitabilità di immobili oggetto di compravendita, qualora si sia formata la fattispecie di assenso delineata dal D.P.R. n. 425 del 1994, art. 4, il costruttore-venditore che, al momento del rogito o anche nel corso del giudizio, offra la documentazione attestante la regolare presentazione dell’istanza e il decorso del tempo ha assolto quanto dovuto ai fini dell’abitabilità (oggi agibilità) dell’immobile promesso in vendita. ***** tuttavia a suo carico l’onere, a richiesta del notaio rogante o dell’acquirente, di comprovare che l’istanza sia stata presentata con il dovuto corredo documentale.

In caso di contestazione in sede giurisdizionale circa la sussistenza di fatto dei requisiti urbanistici e igienico sanitari, ove la contestazione non sia meramente esplorativa e dilatoria, ma puntuale e specifica, in modo da consentire una verifica mirata, è solo possibile – da parte dell’autorità giurisdizionale procedente -rivolgersi all’ente locale competente perchè manifesti espressamente se ravvisa la sussistenza delle condizioni per l’abitabilità dell’immobile.

In assenza di risposta alla richiesta di informazioni del giudice, si deve far luogo ad istruttoria ed eventuale accertamento tecnico per giungere a una pronuncia sul punto controverso, che avrà effetto limitatamente alle parti contraenti in contesa.

Segue da quanto esposto la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio ad altro giudice, che provvedere anche sulle spese di questo grado di giudizio.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi. Accoglie il ricorso principale; rigetta l’incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa anche per le spese di lite ad altra sezione della Corte d’appello di Catanzaro.

Redazione