Corte di Cassazione Civile sez. II 4/11/2009 n. 23342; Pres. Rovelli L.A.

Redazione 04/11/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 10/27.6.02 il Tribunale di Milano, decidendo nei giudizi riuniti aventi ad oggetto la determinazione del compenso per attività professionale dovuto dalla s.p.a. G.F. al dottore commercialista M.U., già consulente di parte della società in un procedimento arbitrale, nonchè l’opposizione al decreto ingiuntivo per L. 458.971.440 da quest’ultimo ottenuto, ritenendo ai sensi dell’art. 31 della tariffa professionale, in relazione al valore della pratica di L. venti miliardi, adeguato il già corrisposto compenso di L. 170.000.000, revocava il decreto opposto, rigettava la richiesta dell’opponente di restituzione della somma di L. 20.000.000 e compensava le spese del giudizio per due quinti, ponendole per il resto a carico del M..

Quest’ultimo proponeva appello, al quale resisteva la società appellata, propendo gravame incidentale. Con sentenza del 9.6-20.7.04 la Corte di Milano rigettava le reciproche impugnazioni e dichiarava interamente compensate le spese del giudizio. Disattesa la richiesta dell’appellante incidentale (per non avere ritenuto sufficientemente provata l’eccezione secondo la quale il compenso preventivamente pattuito sarebbe stato commisurato a quello ottenuto dal c.t.u., nella specie poi liquidato in L. 150.000.000, con conseguente eccedenza dei corrisposti acconti, il primo di L. 20.000.000 ed il secondo di L. 150.000.000), consideravano, essenzialmente, i giudici di appello, quanto alle maggiori pretese del M., che l’ammontare del compenso, in una fattispecie nella quale il compito era consistito nella determinazione del fatturato netto, in un certo arco di tempo, prodotto dalla società Italiana Manifatture relativamente alle "linee F., ********* e **********", non avrebbe potuto che essere commisurato al valore della controversia e non anche, come preteso dall’appellante, a tutti gli elementi (contratti, voci di spesa, ricavi, utili, o comunque beni di qualsiasi genere) esaminati nel corso delle operazioni di consulenza, non potendo ogni passaggio della verifica essere autonomamente preso in considerazione ai fini della liquidazione di un separato compenso, essendo invece sufficiente una valutazione complessiva dell’attività svolta durante le operazioni peritali. Ed a tal fine poco o punto rilevava la parziale modifica dell’iniziale quesito, valsa solo a precisare i metodi calcolo con riferimento ai vari periodi, prescrivendosi, quanto a quello dal secondo semestre del 1991 fino al 1993, il metodo "a campione", e quanto al successivo, fino al primo semestre 1996, quello analitico.

Il valore della praticaci sensi dell’art. 31 della tariffa di cui al D.P.R. 10 ottobre 1994, n. 645, andava desunto da quello della particolare domanda formulata dalla società F., avente ad oggetto le royalties richieste in relazione ai contratti in corso con la società Italiana Manifatture, nell’ambito della quale la determinazione del fatturato netto (che nella specie era risultato di L. 92.374.302.196) rappresentava solo un passaggio necessario al calcolo del valore effettivo di tale pretesaci fini della quale era stata disposta la consulenza; restavano invece indifferenti ai fini della determinazione del valore della consulenza le altre reciproche domande, ancorchè di valore molto superiore, che attenendo a questioni diverse, erano estranee all’oggetto dell’incarico peritale.

A tale risultato conduceva anche l’applicazione dell’art. 45, comma 3 della tariffa che, in materia contrattuale, faceva riferimento all’ammontare dei corrispettivi pattuiti, che nella specie, dunque, erano quelli delle royalties pretese nel giudizio arbitrale, il cui ammontare di L. 20.000.000.000, tenuto conto dei criteri tabellari (percentuale dello 0,5% sullo scaglione sub a) di cui all’art. 31) avrebbe comportato un compenso di L. 100.000.000, rispetto al quale quello superiore in concreto corrisposto, di L. 170.000.000, era più che esaustivo, anche tenendo conto degli ulteriori elementi (qualità, quantità ed urgenza delle prestazioni), la cui inadeguata considerazione l’appellante principale aveva lamentato.

Nè poteva valere il richiamo al maggior compenso percepito dagli arbitri, tenuto conto della diversità e complessità del compito dei medesimi, chiamati ad occuparsi anche di altre domande delle parti e tenuto conto, infine, che la consulenza del dott. M. si era risolta in una relazione di nove pagine, una memoria di due pagine e mezza e nelle osservazioni conclusive, il cui impegno complessivo era stato contenuto entro i mesi di luglio e settembre 1996, essendo si in gran parte trattato di assistere alle operazioni svolte dal CTU. Contro tale sentenza il M. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.

Non ha svolto attività difensiva in questa sede la società intimata.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso, deducente violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e "vizio di ultrapetizione", si lamenta che la corte di merito non abbia tenuto conto della preclusione del giudicato interno, che si sarebbe formato in ordine all’affermazione del primo giudice, non impugnata da alcuna delle parti e solo tardivamente censurata dalla difesa della s.p.a. F. nella comparsa conclusionale di secondo grado, secondo la quale per valore della pratica sulla base del quale D.P.R. 10 ottobre 1994, n 645, ex art. 31 avrebbero dovuto calcolarsi le spettanze del consulente tecnico, doveva intendersi "il valore della o delle domane proposte in sede arbitrale"; indebitamente, pertanto, e travalicando le stesse richieste delle parti i giudici di appello avrebbero determinato detto valore con criteri diversi.

Con il secondo motivo, deducente violazione, falsa applicazione della norma sopra indicata, "errore di valutazione e/o travisamento delle tavole processuali", carenze e contraddittorietà di motivazione, si lamenta l’erronea individuazione del reale valore della pratica, che avrebbe dovuto essere desunto non solo dai compensi percentuali dovuti alla società F., ma anche dalle altre domande oggetto della controversia arbitrale, in particolare dai danni "multimiliardari" derivanti dalla "rottura del contratto": in concreto dall’importo di L. 100.645.092.520, ottenuto sommando L. 13.982.731.738 richieste dalla suddetta a L. 86.752.360.520 pretesi dall’altra società. In tal senso farebbe stato il "giudicato" di cui al precedente motivo di ricorso.

In subordine si sostiene che, comunque, il valore della pratica avrebbe dovuto essere desunto dall’ammontare del "fatturato netto", per la cui determinazione in particolare era stata disposta dagli arbitri la consulenza tecnica e che era in concreto risultato dell’importo di L. 92.374.302.196. Ritenendo tale accertamento solo un "passaggio" ai fini della quantificazione della royalties, e non questa una mera conseguenza del primo, i giudici di merito avrebbero indebitamente sottovalutato e "snaturato" l’attività peritale, la cui indagine era stata precipuamente indirizzata e svolta al fine di determinare il dato economico in questione.

Con il terzo e quarto motivo vengono dedotte carenze e contraddittorietà di motivazione, nonchè violazione e falsa applicazione, rispettivamente, del D.P.R. n. 645 del 1994, art. 3, comma 2 e art. 6, comma 2 per non avere, i giudici di merito, tenuto conto degli altri criteri concorrenti, con il valore della pratica, alla determinazione degli onorari, indicati, dalla prima delle citate disposizioni nella natura caratteristiche, durata dell’incarico e nel risultato economico conseguito, nonchè della possibilità di maggiorazione dei compensi, fino al 50%, dalla seconda prevista per le prestazioni compiute in condizioni di disagio ed urgenza.

Si evidenzia, a sostegno del primo motivo, la rilevante mole di documentazione esaminata e l’esito favorevole delle indagini effettuate, che avevano consentito il "recupero" di un fatturato di quasi dieci L. miliardi, ed a sostegno del secondo, i ristretti tempi in cui ebbe a svolgersi l’indagine peritale, svolta tra il 12 luglio ed il 13 settembre 1996, peraltro dopo modifica degli iniziali quesiti, disposta con provvedimento del 18/7, su proposta della società F..

Nessuno dei motivi d’impugnazione è meritevole di accoglimento.

Palesemente infondata è la tesi della formazione di un giudicato in ordine alla questione del valore della pratica, posto che il primo giudice, dopo avere affermato che per valore della pratica doveva intendersi quello della domanda, era pervenuto al rigetto della pretesa del M., ritenendo congrua la somma di L. 170.000.000 dal medesimo ricevuta, in quanto più che esaustiva in relazione ad un petitum di L. 20 miliardi (l’importo delle pretese royalties per la cui determinazione era stata disposta l’indagine tecnica diretta all’accertamento del fatturato), così chiaramente disattendendo la tesi secondo la quale il valore avrebbe dovuto desumersi dalle diverse e maggiori richieste delle parti, oggetto di autonomi capi di domanda, o addirittura dal coacervo di quelle reciprocamente proposte, o, ancora ed in subordine, da quello dell’accertato fatturato netto. Il giudicato interno, infatti, è configurabile solo con riferimento a capi autonomi della decisione aventi una propria individualità (v. tra le altre Cass. n. 1869/05), o ad accertamenti di fatto funzionali ad un decisum che non abbia formato oggetto d’impugnazione, ma non anche in ordine a mere affermazioni argomentative o rationes decidendi (v. Cass. n. 20885/04), tanto meno ove poste a base di decisioni che, come nella specie, siano state impugnate dall’una e dall’altra parte (sull’impossibilità di formazione del giudicato su questioni pregiudiziali, costituenti presupposto di capi della decisione fatti oggetto d’impugnazione v. tra le altre Cass. 7039/06, 11318/05). Quest’ultima circostanza evidenzia anche l’infondatezza della denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c., posto che, una volta impugnata, hinc et inde, la decisione di primo grado, l’effetto devolutivo del gravame comportava la necessità per i giudici di appello di verificare e, se del caso, ampliare o chiarire la correttezza delle argomentazioni addotte dal primo giudice.

Nel caso di specie, peraltro, l’affermazione del primo giudice, che si vorrebbe interpretare in senso conforme alla tesi sostenuta dall’odierno ricorrente, è di segno inequivocamente opposto, in quanto posta a base di una decisione reiettiva di tale tesi, recependo, invece, quella secondo la quale la disposizione di cui al D.P.R. n. 645 del 1994, art. 31 nell’ancorare il valore della pratica a quella della domanda o delle domande oggetto della controversia nell’ambito della quale sia svolta l’incarico di consulente, va intesa in senso funzionale, vale a dire con riferimento a quelle sole domande rispetto alle quali si sia resa necessaria la consulenza e non anche a tutte le altre, quand’anche in qualche modo connesse, formulate nel corso del medesimo giudizio. Tale interpretazione deve ritenersi la sola logica e corretta, non essendo concepibile che la retribuzione di una prestazione professionale sia ancorata ad elementi estranei all’ambito dell’indagine svolta dal consulente, quali sarebbero altre domande o capi di domanda, in relazione ai quali, non avendo ravvisato il giudice la necessità di ricorrere, ai fini della relativa decisione, all’ausilio dello stesso, il relativo compenso sarebbe del tutto privo di causale.

Nel caso di specie, dunque, deve ritenersi conforme a diritto la decisione impugnata, nella parte in cui ha ritenuto di assumere a base della determinazione del valore della pratica, ai fini della liquidazione del compenso dovuto al consulente di parte, il valore di quel capo della domanda, relativo alle cd. royalties pretese dalla società F., per la cui quantificazione, da operarsi sulla base degli importi dei fatturati netti nei periodi in contestazione, gli arbitri avevano ritenuto di doversi avvalere della collaborazione di un consulente tecnico di ufficio (alle cui operazioni l’odierno ricorrente partecipò quale c.t. di parte).

La tesi secondo la quale la consulenza tecnica sarebbe stata disposta non solo in funzione della suddetta domanda (quantificata in L. venti miliardi), ma anche di altre, dall’una e dall’altra parte formulate, assommanti a circa L. 106 miliardi, costituisce una mera asserzione di parte, non corredata da alcun riscontro nella sentenza impugnataci cui accertamento al riguardo, basato sull’esame della documentazione prodotta in causa, segnatamente dagli atti del procedimento arbitrale, costituisce un dato fattuale incensurabile nella presente sede, in quanto rimesso all’accertamento del giudice di merito.

Nè fondata è, poi, la tesi subordinata, secondo la quale il valore, al quale ancorare l’importo del compenso professionale, sarebbe stato quello del fatturato netto accertato, essendo di tutta evidenza come quest’ultimo non abbia di per sè costituito l’oggetto della domanda devoluta al giudizio arbitrale, e dunque della pratica intesa nel già chiarito significato di cui al D.P.R. n. 345 del 1994, art. 31 ma solo un dato economico – contabile sulla base del quale avrebbe dovuto essere quantificato il petitum di quel capo di domanda, funzionale al quale risultava il disposto accertamento peritale.

Disattesi, sulla scorta delle considerazioni che precedono, i primi due motivi di ricorso, non miglior sorte meritano i rimanenti, che, non evidenziando alcuna effettiva carenza o illogicità dell’apparato argomentativo della decisione, nè malgoverno dei criteri normativi di cui al D.P.R. n. 645 del 1994, art. 3, comma 2, e art. 6, comma 2 si risolvono nel palese tentativo di rimettere in discussione incensurabili apprezzamenti discrezionali, che i giudici di merito hanno adeguatamente motivato. Come si è riferito nell’ultima parte della narrativa, i giudici di appello hanno proceduto ad una valutazione complessiva dell’attività professionale compiuta dal M., nell’ambito della quale hanno tenuto sufficientemente conto, contrariamente a quanto lamentato, non solo del valore della pratica, ma anche della natura e delle caratteristiche della prestazione e dei tempi entro i quali la stessa si era svolta, non tralasciando di valutare il risultato utile conseguito, costituito dall’accertamento di quel fatturato netto alla cui ricostruzione la corte di merito ha ritenuto che l’odierno ricorrente, nella sua veste di consulente di parte, avesse attivamente contribuito. Ed è proprio in considerazione di tali elementi, menzionati dall’art. 3, comma 2, cit. D.P.R., che i giudici di appello hanno ritenuto congrua la corresponsione del compenso dal M. percepito, eccedente del 70% quello a percentuale che al medesimo sarebbe spettato in base allo scaglione tariffario ed, in concreto, risultato anche superiore a quello liquidato dal collegio arbitrale al consulente tecnico di ufficiosi riguardo opportunamente evidenziando come la durata dell’incarico, costituita essenzialmente dall’assistenza alle operazioni del c.t.u., si fosse svolta in un arco di tempo contenuto (tra luglio a settembre) e l’impegno profuso materializzato in alcuni elaborati di mole non particolarmente rilevante. Tali considerazioni sono sufficienti per rigettare il terzo motivo di ricorso.

Quanto alla mancata valutazione, lamentata nel quarto mezzo d’impugnazione, delle assunte "condizioni di disagio ed urgenza" (art. 6, comma 2, cit. D.P.R.) nelle quali si sarebbe svolta la prestazione, va osservato che la disposizione si limita a prevedere la possibilità di una maggiorazione degli onorari entro la misura del 50%, vale a dire in misura inferiore a quella in concreto accordata. Peraltro trattasi di una facoltà discrezionale, il cui esercizio è riservato al giudice di merito e che, pertanto, non è sindacabile nella presente sede, allorquando, come nella specie, criteri di valutazione complessiva della natura, caratteristiche, durata, risultati e valore della prestazione siano stati adeguatamente esplicitati, senza incorrere, come nel caso di specie, in alcuna illogicità o palese violazione delle prescrizioni tariffarie. A ciò aggiungasi che la tesi delle condizioni di "disagio ed urgenza", che avrebbero caratterizzato lo svolgimento dell’incarico, riposa esclusivamente su asserzioni di parte, tenuto conto dell’adeguato lasso di tempo, di cui già si è detto, concesso al c.t.u. per l’esame della documentazione e considerato, quanto alla parziale modifica dei quesiti, che la stessa, come riferito nel mezzo d’impugnazione, intervenne (il 18/7) dopo pochi giorni dalla formulazione originaria (12/7) e fu, peraltro, sollecitata dallo stesso odierno ricorrente, circostanze sufficienti ad escludere eventuali – difficoltà derivanti dalla necessità di far fronte, entro ristretti limiti temporali, ad indagini del tutto impreviste.

Il ricorso va, in conclusione, respinto.

Non vi è luogo, infine, a regolamento delle spese, in assenza di resistenza della parte intimata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Redazione