Corte di Cassazione Civile sez. II 3/3/2009 n. 5119; Pres. Rovelli L.A.

Redazione 03/03/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 23/24/25/26.3.1988 *****, nipote "ex fratre" di G.A., deceduta a (omissis) "ab intestato", conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Venezia gli altri eredi legittimi, figli o nipoti di fratelli premorti, chiedendo dichiararsi aperta la successione di G. A., accertarsi il suo credito verso la massa ereditaria per l’importo complessivo di L. 121.656.366, per spese funerarie e per un debito riconosciuto in vita dalla "de cuius" con scrittura del 19.9.1980, individuarsi l’asse ereditario, determinarsi le quote ed assegnarsi all’esponente l’intero asse, indivisibile in relazione al numero degli eredi.

Si costituivano in giudizio separatamente alcuni dei convenuti non opponendosi alla divisione e chiedendo il rigetto di ogni diversa domanda; in particolare i convenuti G.C., G. A. e G.M. chiedevano in via riconvenzionale dichiararsi la nullità dell’atto di cui alla scrittura del 12.9.1980 a firma del "de cuius" per carenza di forma e per contrasto con norme imperative.

All’udienza del 6.10.1995 il processo era interrotto a seguito del decesso di G.G. e di G.M.; riassunto il processo si costituiva in giudizio soltanto M.G..

Il Tribunale adito con sentenza non definitiva dell’11.2.1999 rigettava la domanda attrice avente ad oggetto l’accertamento del credito di L. 121.656.366 nei confronti della massa ereditaria, sul rilievo che l’atto del 12.9.1980 era nullo per vizio di forma, sia che integrasse un atto di disposizione "post mortem" che una donazione "post mortem", e per contrasto con norme imperative ove costituisse un patto successivo.

Proposto impugnazione da parte di G.E. cui resistevano soltanto alcuni degli appellati la Corte di Appello di Venezia con sentenza del 14.4.2003, in riforma della decisione di primo grado, ha accertato il credito dell’appellante nei confronti di tutti gli eredi di G.A. nella misura di L. 54.267.500, ed ha dichiarato di competenza del Giudice del lavoro l’accertamento del credito correlato al rapporto di collaborazione continuativa tra la "de cuius" e l’appellante; in particolare il Giudice di Appello ha ritenuto che la scrittura del 12.9.1980 conteneva sia un atto unilaterale di ricognizione di debito per l’importo di L. 50.000.000, in relazione a prestazioni pregresse di G.E. sia un contratto di collaborazione continuativa tra G.A. e la nipote E..

Avverso tale sentenza G.A., R.G., G. M., **** anche nella sua qualità di erede di G. L., G.G., G.R. e G.P. hanno proposto un ricorso affidato a sei motivi cui G.E. ha resistito con controricorso proposto altresì un ricorso incidentale;

gli altri soggetti intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede; le parti hanno successivamente depositato delle memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente deve procedersi alla riunione dei ricorsi in quanto proposti contro la medesima sentenza.

Venendo quindi all’esame del ricorso principale, si osserva che con il primo motivo i ricorrenti, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 – 1371 e 1988 c.c., nonchè omessa motivazione, censurano la sentenza impugnata per aver ravvisato nella scrittura del 19.9.1980 un atto unilaterale di ricognizione di debito per l’importo di L. 50.000.000, in relazione a prestazioni pregresse di G.E. con termine di adempimento alternativo (all’alienazione dell’immobile di (omissis) o dopo la morte di G.A.), omettendo così di considerare che il preciso termine al quale le parti avevano ricollegato l’esigibilità del credito conferiva alla dichiarazione natura di patto destinato ad avere efficacia solo ed esclusivamente dopo la morte di G. A., e quindi ponendo la morte quale causa della disposizione stessa; tale negozio, pertanto, posto in essere dalla G. al solo fine di disporre in vita dei diritti nascenti dalla propria morte, avrebbe dovuto essere dichiarato nullo.

Con il secondo motivo i ricorrenti principali, deducendo violazione degli artt. 1362 – 1371 e 458 c.c., nonchè omessa motivazione, censurano la sentenza impugnata per aver ritenuto che "la mancata correlazione ad un successivo atto dispositivo a causa di morte di G.A. delle medesime attribuzioni patrimoniali" consentiva di escludere qualsiasi patto successorio; infatti la dichiarazione contenuta nella scrittura del G.A., e quindi ponendo la morte quale causa 12.9.1980 integrava un patto successorio istitutivo che per sua natura non era correlato ad un successivo atto dispositivo, e che aveva lo scopo di trasmettere diritti considerati dai contraenti come entità del futuro asse ereditario.

Le enunciate censure, da esaminare contestualmente in quanto connesse, sono infondate.

Giova anzitutto riportare il contenuto della scrittura privata del 12.9.1980 come trascritto nella sentenza impugnata e nello stesso ricorso principale:

"Io sottoscritta G.A. nata il (omissis) come riconoscimento e compenso di tutta l’assistenza, cura e amministrazione a me fatta da oltre 20 anni sino ad oggi da mia nipote G.E.A., nata il (omissis), mi riconosco debitrice di mia nipote A. della somma di L. 50.000.000, (cinquantamilioni). Per l’assistenza, le cure, il lavoro e l’amministrazione che continuerà a farmi da oggi in poi dichiaro di darle L. 10.000.000, (diecimilioni) all’anno.

Non avendo ora denaro, l’A. prenderà quanto le devo, per come detto sopra, dopo la mia morte, a meno che non venderà l’appartamento di (omissis)".

Il Giudice di Appello, dopo aver affermato che la circostanza che le attribuzioni patrimoniali in favore di G.E. sarebbero divenute efficaci durante la vita di G.A. nell’ipotesi di alienazione da parte di quest’ultima dell’appartamento in (omissis) consentiva di configurare come un termine di adempimento, alternativo a quello operante nell’ipotesi di alienazione dell’appartamento suddetto, la previsione della efficacia di tali attribuzioni dopo la morte di G.A., ha escluso che esse integrassero un qualsiasi patto successorio, attesa "la mancata correlazione ad un successivo atto dispositivo, a causa di morte, di G.A.".

Orbene, pur dovendosi rilevare l’erroneità di tale ultima affermazione (invero per la configurabilità di un patto successorio istitutivo è sufficiente una convenzione con la quale alternativamente si istituisce un erede o un legato ovvero ci si impegna a farlo in un successivo testamento, cosicchè nelle prima ipotesi la convenzione stessa, in quanto avente ad oggetto la disposizione di beni afferenti ad una successione non ancora aperta, è idonea di per sè ad integrare un patto successorio senza alcuna necessità di ulteriori atti dispositivi), tuttavia la decisione assunta è conforme al diritto, dovendosi soltanto in proposito correggere la motivazione; infatti la convenzione di cui alla scrittura privata del 12.9.1980 costituisce un negozio "inter vivos" in quanto con essa G.A. ha disposto la suddetta attribuzione patrimoniale in favore di G.E. con la sottoscrizione della convenzione stessa, riconoscendosi già da allora debitrice della nipote per le causali ivi indicate, prevedendo soltanto, quanto all’estinzione del debito riconosciuto, il suo differimento dopo la sua morte, nell’ipotesi di mancata vendita in vita dell’appartamento di (omissis), cosicchè correttamente sul punto il Giudice d’appello ha fatto riferimento ad "un termine di adempimento"; pertanto la convenzione in esame rientra nell’ambito di quei negozi "inter vivos" con i quali si determina l’immediato trasferimento di un bene o la nascita di una obbligazione, pur subordinandone l’efficacia alla morte di una delle parti; in altri termini l’atto si perfeziona e diviene vincolante indipendentemente dalla morte, venendo così meno qualsiasi nesso tra morte ed atto di disposizione, nonostante il differimento della sua efficacia al momento della morte di una delle parti; in tale quadro, contrassegnato dalla utilizzazione di determinati schemi negoziali caratterizzati dall’efficacia "post mortem", si spiega come ad esempio sono stati riconosciuti validi la donazione "si moriar" (Cass. 9.7.1976 n. 2619) ed il mandato "post mortem" (Cass. 25.3.1993 n. 3062); pertanto correttamente la sentenza impugnata ha escluso la configurabilità di un patto successorio nella convenzione in esame.

Con il terzo motivo i ricorrenti, deducendo violazione degli artt. 1326 – 1371 e 770 c.c., nonchè omessa motivazione, censurano la sentenza impugnata per aver escluso che le attribuzioni patrimoniali disposte da G.A. in favore di G.E. fossero riconducibili ad un atto di liberalità; in realtà dal tenore testuale della dichiarazione di G.A. contenuta nella menzionata scrittura del 12.9.1980 si evince chiaramente che la disponente era stata spinta a tali attribuzioni dalla gratitudine; si era quindi in presenza di una donazione remuneratoria essendo evidente la sproporzione tra il "quantum" cui si era obbligata G.A. ed il valore economico degli obblighi assunti da G.E. nulla in quanto priva dei requisiti formali e comunque perchè condizionata alla morte del donante.

La censura è infondata.

La Corte territoriale ha ritenuto che la correlazione delle attribuzioni patrimoniali di cui alla citata scrittura a prestazioni di assistenza, cura ed amministrazione, confortata dalla delimitazione puntuale delle stesse attribuzioni, non estese infatti all’intero patrimonio di G.A., escludeva che le medesime attribuzioni trovassero causa in un atto di liberalità della appellante.

Tale convincimento, reso all’esito di un accertamento di fatto sorretto da logica e congrua motivazione, è corretto ed immune dalla censura sollevata dai ricorrenti, essendo state chiarite le specifiche ragioni per le quali G.A. aveva riconosciuto di essere debitrice della nipote, ragioni ricondotte al riconoscimento ed al Compenso dell’assistenza, della cura e dell’amministrazione ricevuta da oltre 20 anni dalla nipote G.E.; deve quindi escludersi, sulla base di tali elementi, la configurabilità nella fattispecie di una donazione remuneratoria, caratterizzata invero dalla attribuzione gratuita compiuta spontaneamente e nella consapevolezza di non dover adempiere alcun obbligo giuridico, morale, sociale per compensare i servizi resi dal donatario (Cass. 22.2.1995 n. 1989; Cass. 24.10.2002 n. 14981).

Con il quarto motivo i ricorrenti, denunciando violazione e falsa applicazione degli articoli 1362 e seguenti, 2034 c.c., ed omessa motivazione, censurano la sentenza impugnata per aver omesso di considerare che, a tutto voler concedere, l’attività svolta da G.E. in favore della "de cuius" costituiva esecuzione di un dovere morale e sociale con conseguente applicazione dell’art. 2034 c.c., in ordine alla inefficacia di tali doveri fatta eccezione per la loro irripetibilità.

La censura è inammissibile.

Premesso infatti che tale questione, che implica un accertamento di fatto, non risulta in alcun modo trattata nella sentenza impugnata, i ricorrenti principali, al fine di evitare una pronuncia di inammissibilità per novità della censura, avevano l’onere, in realtà non assolto, di allegare non solo l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al Giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente l’avessero fatto onde dar modo a questa Corte di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa.

Con il quinto motivo i ricorrenti principali, denunciando violazione degli artt. 1362 – 1371 e 1988 c.c., nonchè omessa motivazione, assumono che, anche a voler ritenere corretta la ricostruzione della fattispecie come atto unilaterale di ricognizione di debito, la Corte territoriale ha comunque omesso di considerare che la ricognizione di debito non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha soltanto l’effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, venendo ad operarsi una astrazione meramente processuale della "causa debendi" per la quale il destinatario è dispensato dall’onere di provare l’esistenza del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria; del tutto ingiustificatamente quindi il Giudice d’Appello non ha ammesso la prova per interrogatorio formale della controparte dedotta dal difensore degli esponenti all’udienza del 28.1.1994, tesa a comprovare l’insussistenza del rapporto fondamentale.

La censura è infondata.

Premesso che il Giudice di Appello ha ritenuto che la scrittura del 12.9.1980 conteneva un atto unilaterale di ricognizione di debiti per l’importo di L. 50.000.000, in relazione a prestazioni pregresse di G.E. ed un vero e proprio contratto di collaborazione continuativa tra G.A. e la nipote E., è evidente che la suddetta ricognizione di debito, comportando l’inversione dell’onere della prova, poneva a carico della promittente l’onere di provare l’inesistenza o l’invalidità o l’estinzione del rapporto fondamentale; pertanto gli attuali ricorrenti quali eredi della promittente G.A. erano legittimati a fornire tale prova.

Tuttavia i capitoli oggetto dell’interrogatorio formale deferito alla controparte così come trascritti nel ricorso principale sono irrilevanti rispetto all’assolvimento del suddetto onere probatorio:

ed invero il fatto che G.A. fosse stata in grado di accudire se stessa fino ai suoi ultimi giorni senza assistenza da parte di alcuno (capitolo 1) ed il fatto che fosse solita rivolgersi a questo o quel parente per occasionali assistenze in singoli affari, ma sempre decidendo autonomamente e disponendo di ogni incombente che la riguardasse (capitolo 2), sono circostanze inidonee, anche per la loro genericità, ad escludere in termini certi ed inequivocabili che G.E. si fosse comunque occupata per oltre 20 anni dell’assistenza e della cura della zia G.A. nonchè che l’avesse aiutata nell’amministrazione di determinati affari, ponendo in essere così quelle prestazioni che avevano indotto G.A. alla sopra richiamata ricognizione di debito.

Con il sesto motivo i ricorrenti principali, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 40 – 99 – 112 – 409 e 439 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 2, assumono che, una volta ricollegata la ricognizione di debito ad un rapporto di lavoro, la creditrice aveva l’onere di proporre la domanda al Giudice del lavoro competente per materia, circostanza non verificatasi nella fattispecie; guanto poi al fatto che il credito riconosciuto per le prestazioni di assistenza, di cura, di amministrazione e di lavoro a decorrere dall’epoca di sottoscrizione della scrittura in poi era stato qualificato dalla Corte territoriale come derivante da rapporto di lavoro subordinato, i ricorrenti principali rilevano che tale qualificazione avrebbe imposto o una mera declaratoria di inammissibilità della domanda nel presente giudizio, o quantomeno il mutamento di rito e l’instaurarsi di un opportuno contraddittorio sulla questione.

La censura è infondata.

Sotto un primo profilo è agevole osservare che il Giudice di Appello ha ritenuto che la ricognizione di debito di L. 50.000.000, pur essendo correlata a prestazioni pregresse, non offriva elementi di sorta per ricondurre le medesime prestazioni nel contesto di un rapporto di collaborazione continuativa con obbligazioni a carico di entrambe le parti; orbene sulla base di tale affermazione, non oggetto di censure in questa sede, logicamente ha ritenuto la propria competenza al riguardo, e non quella del Giudice del lavoro.

Con riferimento poi al rilievo che, quanto all’accertamento del credito derivante da rapporto di lavoro subordinato, la Corte territoriale si sia limitata a dichiarare la competenza per materia del Giudice del lavoro ed a dichiarare la propria incompetenza, si osserva che una declaratoria di inammissibilità della domanda sarebbe stata errata, non potendosi definire inammissibile una domanda proposta a Giudice incompetente, e che inoltre i ricorrenti principali hanno chiarito quale interesse giuridico abbiano a denunciare la mancata adozione da parte del Giudice di Appello di un provvedimento di mutamento del rito ex art. 439 c.p.c..

Il ricorso principale deve quindi essere rigettato.

Venendo quindi all’esame del ricorso incidentale, si rileva che con l’unico motivo proposto G.E., denunciando violazione dell’art. 112 c.p.c., censura la sentenza impugnata perchè, pur avendo accertato il credito dell’esponente di L. 50.000.000, verso i coeredi di G.A., non aveva riconosciuto anche i richiesti interessi e la svalutazione monetaria, nè aveva pronunciato la richiesta condanna dei suddetti coeredi al pagamento della somma di denaro relativa al credito accertato.

La censura è fondata nei limiti che saranno ora chiariti.

Sotto un primo profilo, premesso che effettivamente l’appellante G.E. aveva chiesto accertarsi il suo credito nei confronti di G.A. comprensivo di sorte, svalutazione monetaria ed interessi; è evidente che la mancata pronuncia della Corte territoriale su tali accessori del credito configura una violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato.

Con riferimento invece al profilo di censura relativo alla mancata pronuncia della condanna delle controparti al pagamento della somma corrispondente al credito accertato, si rileva che, poichè l’accertamento di tale credito si inserisce nell’ambito del più ampio oggetto della controversia, attinente allo scioglimento di una comunione ereditaria cui partecipa anche G.E., di tale credito si dovrà necessariamente tenere conto in sede di definizione di tutti i rapporti, attivi e passivi, attinenti alla suddetta comunione; pertanto non si poteva emettere una pronuncia di condanna dei coeredi di G.A. al pagamento della somma di denaro relativa al credito accertato in favore di G.E..

In definitiva la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione all’accoglimento del ricorso incidentale, e la causa deve essere rinviata anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, accoglie nei limiti di cui in motivazione il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione all’accoglimento del ricorso incidentale e rinvia anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Venezia.

Redazione