Corte di Cassazione Civile sez. II 28/7/2010 n. 17688

Redazione 28/07/10
Scarica PDF Stampa
Svolgimento del processo

A.R., S.G.M., S.M.E., **** e S.A. convenivano in giudizio R. R. e P.A. esponendo: che, con contratto (omissis), i convenuti avevano promesso di vendere a S.G. (del quale erano eredi) una zona di suolo di 1.000 mq. facente parte di un fondo in Marina di Vociano; che i promittenti venditori si erano impegnati a cedere la detta zona di terreno al netto di eventuali superfici destinate a vie; che nel 1972 era stata versata la somma di L. 500.000 quale anticipo sul prezzo; che l’impegno non era stato mantenuto. Gli attori chiedevano quindi dichiararsi con sentenza costitutiva il trasferimento della proprietà dell’immobile oggetto del preliminare.

R.R., costituitosi, chiedeva il rigetto della domanda sostenendo che erano stati i promissari acquirenti a disattendere l’impegno assunto con il preliminare per cui i promittenti venditori, ritenendo risolto il contratto, avevano proceduto alla stipula della divisione dei beni comuni.

Anche P.A. si costituiva rilevando: che il contratto preliminare era stato stipulato nel gennaio 1971 per cui ogni diritto da esso derivante era prescritto; che comunque non sussisteva l’inadempimento dei convenuti-venditori essendo inadempienti i promissari acquirenti; che la promessa di vendita era subordinata all’approvazione del piano di fabbricazione non provata dagli attori.

Con sentenza 18/5/2004 l’adito tribunale di Lecce accoglieva la domanda formulata dagli attori in sede di precisazione delle conclusioni in luogo di quella originariamente proposta e condannava i convenuti sia alla corresponsione del controvalore del bene oggetto del preliminare quantificato in Euro 25.882,84, sia alla restituzione dell’importo versato all’atto del preliminare.

Avverso la detta sentenza il P. proponeva appello al quale resistevano gli appellati. **** restava contumace nel giudizio di secondo grado.

Con sentenza 18/9/2008 la corte di appello di Lecce, in parziale accoglimento del gravame, rideterminava le somme dovute dal P. e dal R. in Euro 25.366,39 a titolo risarcitorio e in Euro 258,22 a titolo restitutorio. La corte di appello, per quel che rileva in questa sede, osservava: che, risultando dimostrata la redazione della scrittura privata in questione in data 29/8/1971, la prescrizione eccepita non si era maturata al momento dell’introduzione del giudizio; che, secondo l’appellante, l’esecuzione della prestazione era divenuta impossibile perchè all’epoca della richiesta da parte dei promissari acquirenti era intervenuto il piano di lottizzazione, approvato sin dal febbraio 1980 dal Consiglio Comunale con conseguente impossibilità del rispetto da parte dei contraenti dei patti contenuti nel preliminare sicchè nella specie doveva applicarsi la disposizione di cui all’art. 1256 c.c.; che, ad avviso dell’appellante, l’impossibilità della prestazione non poteva essere riferita all’intervenuta divisione del bene; che la tesi dell’appellante non era fondata in quanto, in assenza di un termine essenziale per l’esecuzione del contratto, i promittenti venditori si sarebbero dovuti adoperare per ottenere dal Comune una lottizzazione dei terreni idonea a soddisfare le esigenze dei promissari acquirenti; che nel preliminare i promittenti alienanti si erano impegnati a far redigere ed approvare – dopo l’approvazione del programma di fabbricazione – il piano di lottizzazione al fine di permettere la realizzazione delle costruzioni sull’area oggetto del preliminare; che il compimento di detta attività non era stata provata per cui l’intervento – nell’inerzia dei proprietari dei terreni – di un piano di lottizzazione comunale non valeva ad esimere i promittenti venditori da responsabilità da inadempimento; che d’altra parte i promittenti venditori non si erano adoperati a trovare una soluzione tale da consentire il soddisfacimento delle pretese legittimate dall’accordo, ma al contrario avevano diviso i beni per poi venderli a terzi senza informare di ciò i promissari acquirenti; che pertanto la condotta dei venditori ricadeva nell’ambito dell’inadempimento fonte di obbligazione ri-sarcitoria; che, nel rispetto dei principi giurisprudenziali in materia, il risarcimento consisteva nella differenza tra il valore commerciale del bene al momento della proposizione della domanda di risoluzione (ovvero al tempo in cui l’inadempimento era divenuto definitivo) pari ad Euro 25.882,84 ed il prezzo pattuito in L. 1.000.000, Euro 516,45); che la somma risultante di Euro 25.366,39 andava rivalutata dal 21/8/1981 e maggiorata degli interessi sulla somma rivalutata anno per anno; che a tale importo andava aggiunto quello di Euro 258,22 oltre interessi da 29/8/1971 data del versamento da parte del promissario acquirente.

La cassazione della sentenza della corte di appello di Lecce è stata chiesta da P.A. con ricorso affidato a cinque motivi contenenti ciascuno il connesso e consequenziale quesito di diritto.

S.A.R. e G.M., M.E., D. e A. hanno depositato nella cancelleria della Corte di cassazione controricorso non notificato al ricorrente.
Motivi della decisione

Innanzitutto va rilevata l’inammissibilità del controricorso posto che – come questa Corte ha avuto modo di precisare – nel giudizio di cassazione, il controricorso deve essere notificato alla controparte ai sensi dell’art. 370 c.p.c., non potendosi considerare sufficiente il mero deposito presso la corte perchè l’atto possa svolgere la sua l’unzione di strumento di attivazione del contraddittorio rispetto alla parte ricorrente, la quale, solo avendone acquisito legale conoscenza, è in condizioni di presentare le sue osservazioni nelle forme ex art. 378 c.p.c.; ne consegue che, ove (come nella specie) la notifica sia stata omessa, l’atto non è qualificabile come controricorso e la procura speciale, rilasciata in calce od in margine allo stesso, non è valida, dovendosi ritenere priva di efficacia l’autenticazione del difensore, il cui potere certificativo è limitato agli atti specificamente indicati nell’art. 83 c.p.c., comma 3, e al quale, pertanto, resta preclusa la partecipazione alla discussione del ricorso (sentenze 9/9/2008 n. 22928; 28/1/2005 n. 1737).

Con il primo motivo di ricorso P.A. denuncia omessa pronuncia su una eccezione, con conseguente violazione del combinato disposto degli artt. 163 e 164 c.p.c.. Deduce il ricorrente che la corte di appello non ha esaminato l’eccezione sollevata da esso P. con l’atto di gravame con la quale era stato rilevato che alla data di notifica dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado non esisteva il frazionamento indispensabile per l’individuazione dell’oggetto del contratto preliminare: da ciò l’inidoneità della notifica dell’atto di citazione ad interrompere il decorso della prescrizione decennale. Il frazionamento è venuto ad esistenza solo in data 8/9/1981 e solo successivamente è stata trascritta la domanda dei S. con la quale era stato appunto chiesto il trasferimento della proprietà dell’immobile "conformemente al tipo di frazionamento". Pertanto solo al momento della individuazione del petitum mediante il frazionamento può risalire l’effetto interruttivo della prescrizione.

Il motivo è infondato.

Innanzitutto va rilevato che la corte di appello – nell’affermare che la notifica dell’atto di citazione come predisposto dagli attori costituiva valido atto interruttivo della prescrizione decennale – ha, sul piano logico, implicitamente inteso riconoscere al contratto preliminare posto a base della domanda l’idoneità a produrre i suoi effetti obbligatori sin dal momento della stipula del contratto indipendentemente dall’esistenza al detto momento del frazionamento ben potendo in via astratta tale frazionamento intervenire successivamente consentendo la pronuncia ex art. 2932 c.c..

L’implicito (ma chiaro) rigetto dell’eccezione sollevata dal P. relativa sia alla nullità dell’atto di citazione per indeterminatezza dell’oggetto, sia alla idoneità di tale atto di interrompere la prescrizione, è ineccepibile in quanto conforme al principio pacifico secondo cui le pronunce costitutive che tengono luogo dell’obbligo di concludere un contratto, essendo fonte autonoma di rapporti giuridici, dispiegano necessariamente i loro effetti solo dal momento del loro passaggio in giudicato; nè un argomento in senso contrario può trarsi dalla norma (art. 2652 c.c., n. 2) sulla trascrizione delle domande dirette a ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre, in quanto la trascrizione della sentenza che accoglie la domanda ha l’unica funzione di risolvere il conflitto tra l’attore e tutti gli aventi causa dal convenuto che abbiano effettuato trascrizioni o iscrizioni nei suoi confronti dopo la trascrizione della domanda, ma non vale ad anticipare gli effetti della sentenza costitutiva nei rapporti tra le parti al momento della proposizione della domanda di esecuzione specifica. Pertanto in relazione alla pronuncia emessa ai sensi dell’art. 2932 c.c., avente natura costitutiva, occorre prendere in considerazione non già la situazione esistente al momento della domanda, bensì quella esistente al momento della pronuncia. In base a tale principio questa Corte ha avuto modo di affermare che le formalità previste dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 650, art. 5, in tema di revisione del sistema catastale, per il caso in cui il trasferimento di immobili comporti il frazionamento di singole particelle, si riferiscono ai soli atti di trasferimento definitivo e non anche ai contratti preliminari di compravendita di immobili da frazionare; ne consegue che, con riferimento a questi ultimi, la loro eventuale mancanza non incide minimamente sulla validità ed efficacia del contratto, con riguardo al requisito della determinatezza del suo oggetto (sentenza 20/3/2006 n. 10).

Da quanto precede deriva che il promissario acquirente è immediatamente legittimato ad agire facendo valere il diritto scaturente dal preliminare non adempiuto ben potendo gli eventuali ostacoli di natura formale (nella specie da ravvisare nell’approvazione del frazionamento) essere rimossi prima della sentenza costitutiva di trasferimento.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia omessa pronuncia – e conseguente violazione degli artt. 1256 e 2932 c.c., anche in relazione agli articoli 163 e 164 c.p.c. – deducendo che nell’atto di appello esso P. aveva sottolineato che il bene individuato dal frazionamento eseguito nel settembre 1981 ("dagli stessi attori") non poteva essere oggetto di trasferimento ex art. 2932 c.c. in quanto il terreno promesso in vendita era stato oggetto di un più ampio piano di lottizzazione che ne aveva modificato le caratteristiche impedendone la trasferibilità. Di tale questione – relativa alla nullità della domanda per impossibilità del petitum come individuato dopo il deposito da parte degli attori del frazionamento redatto in difformità degli strumenti urbanistici all’epoca vigenti – la corte di appello non si è occupata.

La censura non è meritevole di accoglimento come emerge agevolmente dalle considerazioni sopra svolte – esaminando il primo motivo di ricorso -relative alla ravvisata implicita pronuncia di rigetto dell’eccezione sollevata dai convenuti in merito alla asserita nullità dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado.

Le tesi sostenute dal ricorrente nel motivo in esame sono frutto di una non attenta lettura e di una non corretta interpretazione della sentenza impugnata con la quale la corte di appello ha tenuto conto di tutte le censure mosse dal P. alla pronuncia di primo grado ritenendole espressamente o implicitamente infondate.

In particolare la corte territoriale – come sopra ampiamente riportato nella parte narrativa che precede – ha espressamente esaminato la tesi sviluppata dall’appellante nei motivi di gravame secondo cui nella specie l’esecuzione della prestazione da parte dei promittenti alienanti era diventata impossibile a seguito non dell’intervenuta divisione dei beni, ma dell’approvazione del piano di lottizzazione con conseguente operatività dell’art. 1256 c.c.. La detta tesi difensiva è stata ritenuta infondata dal giudice di appello secondo il quale "i promittenti venditori si sarebbero dovuti adoperare per ottenere da Comune una lottizzazione dei terreni che rispondesse alle esigenze degli acquirenti" (pagina 7 sentenza impugnata) per cui non era applicabile l’invocata disposizione di cui all’art. 1256 c.c., non avendo i promittenti venditori (venendo meno agli obblighi assunti con i preliminare) fatto quanto possibile per "permettere la realizzazione delle costruzioni" sull’area promessa in vendita, onde consentire il soddisfacimento delle pretese del promissario acquirente "legittimate" dalla stipula del contratto preliminare. Da ciò l’ovvia logica conseguenza dell’irrilevanza delle modalità di redazione del frazionamento posto che con il già approvato piano di lottizzazione era divenuta impossibile (per causa imputabile ai promittenti alienanti) la realizzazione di costruzioni sull’area oggetto della promessa di vendita.

La corte territoriale è pervenuta alle dette conclusioni (dal ricorrente criticate) attraverso argomentazioni complete ed appaganti, improntate a retti criteri logici e giuridici, dando conto delle proprie valutazioni ed esponendo adeguatamente le ragioni del suo convincimento.

Con il terzo motivo il P. denuncia violazione dell’art. 2932 c.c. e dell’art. 112 c.p.c., sostenendo che, come dedotto nell’atto di appello, la domanda ex art. 2932 c.c., doveva essere respinta per aver i S. chiesto il trasferimento dell’immobile e poi il pagamento del suo controvalore senza aver offerto di eseguire "nei modi di legge" la loro prestazione. Peraltro il giudice non poteva trasformare di ufficio la domanda costitutiva ex art. 2932 c.c., proposta dagli attori in una domanda di risoluzione per inadempimento e di risarcimento del danno.

La censura è da disattendere in entrambi i suoi profili.

Per quanto riguarda la mancata offerta della prestazione da parte dei S. è appena il caso di richiamare e ribadire il principio pacifico nella giurisprudenza di legittimità secondo cui in tema di contratto preliminare, ai fini dell’accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. l’offerta del pagamento del residuo prezzo della vendita deve essere effettuata formalmente solo nell’ipotesi in cui il contratto preliminare abbia previsto che il versamento del prezzo debba avvenire in un momento antecedente alla stipula dell’atto traslativo, mentre nella ipotesi di prevista contestualità, non è necessaria una offerta formale, essendo sufficiente la manifestazione dell’intendimento di adempiere la controprestazione, anche implicito (sentenza 15/10/2008 n. 25185).

Peraltro l’offerta della prestazione, richiesta dall’art. 2932 c.c., comma 2, può ritenersi implicita nella domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere il contratto, considerato che la verificazione degli effetti traslativi della sentenza di accoglimento sostitutiva del non concluso contratto definitivo, deve essere necessariamente condizionata dal giudice all’adempimento della controprestazione (sentenza 31/7/2007 n. 16881).

Va inoltre segnalato che – come puntualmente rilevato nel controricorso – con l’atto introduttivo del giudizio gli attori dichiararono la loro disponibilità al versamento del residuo prezzo.

Del pari destituita di fondamento è la parte della censura in esame relativa alla asserita impossibilità di trasformare di ufficio la domanda costitutiva ex articolo 2932 c.c. proposta dagli attori in una domanda di risoluzione per inadempimento e di risarcimento del danno.

A dimostrazione dell’infondatezza di tale tesi del ricorrente è sufficiente far riferimento al principio – che questa Corte ha avuto modo di affermare -in base al quale, in tema di contratto preliminare di compravendita, nel caso in cui il bene, così come pattuito, non possa essere trasferito, la domanda di risarcimento del danno che si sostituisca a quella di adempimento non integra alcuna "mutatio libelli", atteso che la reintegrazione per equivalente rappresenta un surrogato legale della reintegrazione in forma specifica, sicchè, nella domanda diretta al trasferimento del bene, può ritenersi implicita la domanda volta all’acquisizione del suo equivalente pecuniario (sentenza 28/7/2005 n. 15883).

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., nonchè vizi di motivazione, deducendo che l’impugnata sentenza ha escluso la possibilità di invocare nella specie l’art. 1256 c.c., per non essersi i promittenti alienanti adoperati per ottenere dal Comune una lottizzazione dei terreni tale da rispondere alle esigenze dei promissari acquirenti. Tale problematica, però, non è stata mai prospettata dai S. e, comunque, la soluzione al riguardo data dalla corte di appello è errata in fatto e priva di senso. Il piano di lottizzazione presupponeva infatti l’approvazione preventiva del programma di fabbricazione concordato da ben 68 proprietari di un’area vasta oltre 100 volte l’estensione del terreno oggetto del compromesso. La corte di merito non ha considerato che, dimostrato da esso P. il verificarsi di un fatto che aveva reso impossibile la prestazione, incombeva ai S. dedurre e provare fatti e circostanze – circa il comportamento della parte che aveva invocato l’impossibilità – idonei a dimostrare la possibilità dell’esecuzione della prestazione anche dopo il verificarsi del fatto impeditivo. A tanto non poteva provvedere di ufficio il giudice in luogo della parte interessata.

Il motivo è privo di pregio.

In via preliminare va posto in evidenza che il richiamo all’art. 1256 c.c., risulta essere stato effettuato dallo stesso P. sul quale incombeva il relativo onere della prova. Al riguardo, quindi, la corte di appello non poteva non verificare la possibilità di ravvisare nella specie gli estremi ed i presupposti necessari per ritenere operante la disposizione dettata dalla citata norma.

Il giudice di appello ha pertanto proceduto – rientrando nei suoi compiti istituzionali – alla valutazione del materiale probatorio acquisito (riportato nella sentenza impugnata) ed ha quindi ritenuto di dover confermare la sentenza di primo grado e di dover escludere l’applicabilità dell’art. 1256 c.c., per essere la sopravvenuta impossibilità di stipulare il contratto definitivo attribuibile – in virtù di un insindacabile giudizio in fatto sorretto da ineccepibile motivazione – al comportamento dei promittenti alienanti i quali non solo non avevano svolto concreta attività diretta ad ottenere dal Comune (al fine di impedire il verificarsi del fatto impeditivo) una lottizzazione tale da consentire la realizzazione dell’assetto di interessi gli interessi voluto dalle parti con la stipula del contratto preliminare, ma al contrario "avevano provveduto a dividere i loro beni ed a venderli a terzi, senza di ciò informare i promissari acquirenti" (pagina 8 sentenza impugnata).

E’ pertanto insussistente l’asserita violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo in sostanza il giudice del merito rilevato – con motivazione coerente e corretta – che non era stata fornita la prova dell’asserita impossibilità della prestazione per cause non imputabili ai promettenti venditori.

Con il quinto motivo il P. denuncia violazione degli artt. 1223, 1224 e 1227 c.c., deducendo che la corte di appello ha deciso la controversia come se i S. avessero chiesto la risoluzione del contratto e la condanna della controparte al risarcimento dei danni. E’ poi errata la statuizione con la quale la corte di appello ha detratto dal valore del terreno nell’agosto 1981 il prezzo pattuito nella sua espressione monetaria nel 1971 ed aggiunto l’importo pari all’acconto versato con rivalutazione del primo importo dal 21/8/1981, con interessi legali sulla somma rivalutata anno per anno e con interessi sulla seconda somma dal 29/8/1971. In questo modo i danneggiati si vedono non solo ristorati dell’asserito danno (mai richiesto), ma anche locupletati. Infatti con la mera sottrazione, dal valore attualizzato del bene, del prezzo vengono ad essere equiparate situazioni diverse come quella in cui il prezzo sia stato in tutto o in parte corrisposto e quella in cui il prezzo non sia stato versato. Da ciò la necessità di adottare per l’importo non corrisposto i necessari correttivi per determinare il lucro cessante. Quanto al danno emergente esso deve mirare al totale riassetto delle posizioni dei contraenti e, per il promissario acquirente non inadempiente, alla restaurazione del suo patrimonio quale sarebbe stato al momento della liquidazione se l’obbligazione assunta dalla controparte fosse stata adempiuta. Ne consegue che il prezzo non pagato deve essere rivalutato in toto alla stessa data di determinazione del valore dell’immobile. La corte di appello, quindi, avrebbe dovuto detrarre dal valore del terreno al 21/8/1981 non già il mero prezzo pattuito (non integralmente corrisposto) ma l’importo versato come acconto e l’importo del prezzo non versato rivalutato al momento della domanda di risoluzione. L’impugnata sentenza è anche errata nella parte in cui ha omesso di precisare che la rivalutazione monetaria deve arrestarsi al momento della liquidazione decorrendo da tale momento (data di pubblicazione della sentenza di primo grado) gli interessi su detta somma. Inoltre la corte di appello avrebbe dovuto considerare che per dieci anni dalla stipula del preliminare il promissario acquirente era rimasto inerte.

Con il quinto motivo il P. denuncia violazione degli artt. 1223, 1224 e 1227 c.c., deducendo che la corte di appello ha deciso la controversia come se i S. avessero chiesto la risoluzione del contratto e la condanna della controparte al risarcimento dei danni. E’ poi errata la statuizione con la quale la corte di appello ha detratto dal valore del terreno nell’agosto 1981 il prezzo pattuito nella sua espressione monetaria nel 1971 ed aggiunto l’importo pari all’acconto versato con rivalutazione del primo importo dal 21/8/1981, con interessi legali sulla somma rivalutata anno per anno e con interessi sulla seconda somma dal 29/8/1971. In questo modo i danneggiati si vedono non solo ristorati dell’asserito danno (mai richiesto), ma anche locupletati. Infatti con la mera sottrazione, dal valore attualizzato del bene, del prezzo vengono ad essere equiparate situazioni diverse come quella in cui il prezzo sia stato in tutto o in parte corrisposto e quella in cui il prezzo non sia stato versato. Da ciò la necessità di adottare per l’importo non corrisposto i necessari correttivi per determinare il lucro cessante. Quanto al danno emergente esso deve mirare al totale riassetto delle posizioni dei contraenti e, per il promissario acquirente non inadempiente, alla restaurazione del suo patrimonio quale sarebbe stato al momento della liquidazione se l’obbligazione assunta dalla controparte fosse stata adempiuta. Ne consegue che il prezzo non pagato deve essere rivalutato in toto alla stessa data di determinazione del valore dell’immobile. La corte di appello, quindi, avrebbe dovuto detrarre dal valore del terreno al 21/8/1981 non già il mero prezzo pattuito (non integralmente corrisposto) ma l’importo versato come acconto e l’importo del prezzo non versato rivalutato al momento della domanda di risoluzione. Tale momento va peraltro individuato in quello della precisazione delle conclusioni in primo grado (19/1/2004) allorchè i S. per la prima volta chiesero che al terreno fosse sostituito il suo "controvalore". L’impugnata sentenza è anche errata nella parte in cui ha omesso di precisare che la rivalutazione monetaria deve arrestarsi al momento della liquidazione decorrendo da tale momento (data di pubblicazione della sentenza di primo grado) gli interessi su detta somma. Inoltre la corte di appello avrebbe dovuto considerare che per dieci anni dalla stipula del preliminare il promissario acquirente era rimasto inerte.

Il motivo è fondato nei sensi e nei limiti di seguito precisati.

Per quanto riguarda la prima parte del motivo in esame va osservato che la censura ivi sviluppata – relativa alla asserita trasformazione di ufficio della domanda ex art. 2932 c.c., in domanda di risoluzione e di risarcimento danni – ha formato oggetto del terzo motivo di ricorso ed in proposito vanno richiamate le osservazioni sopra svolte con le quali la detta censura è stata disattesa alla luce dei principi al riguardo affermati nella giurisprudenza di legittimità.

Deve poi essere rilevata l’inammissibilità della censura concernente il concorso di colpa del danneggiato posto che, come questa Corte ha avuto modo di chiarire, seppure il giudice deve proporsi d’ufficio la questione dell’eventuale concorso di colpa del danneggiato ai fini della limitazione del risarcimento, tuttavia – qualora siffatta valutazione non sia stata operata dal giudice di primo grado – la parte ha l’onere di impugnare la sentenza per tale omissione, restando altrimenti la questione preclusa nell’ulteriore corso del giudizio (in tali sensi, sentenza 25/9/2008 n. 24080).

Tale preclusione opera, nella fattispecie, ove il P. non ha impugnato la decisione del Tribunale nella parte in cui risulta omessa la considerazione di quelle circostanze dalle quali poter desumere il concorso di colpa del S.. E, in difetto di una tale impugnativa, il ricorrente non può porre la detta questione in questa sede di legittimità.

In relazione alla censura concernente la quantificazione del danno va evidenziato che la corte di appello ha proceduto a tale quantificazione citando il principio giurisprudenziale secondo cui "il risarcimento del danno dovuto al promissorio acquirente per la mancata stipulazione del contratto definitivo di vendita di un bene immobile, imputabile al promittente venditore, consiste nella differenza tra il valore commerciale del bene medesimo al momento della proposizione della domanda di risoluzione del contratto (ovvero al tempo in cui l’inadempimento è divenuto definitivo) ed il prezzo pattuito" (pagina 8 impugnata sentenza).

Il giudice di appello ha quindi fatto riferimento (avvalendosi di quanto al riguardo accertato dall’indagine svolta dal c.t.u. e non contestato dalle parti) al valore del bene promesso in vendita al momento dell’inadempimento (coincidente con la proposizione della domanda) sottraendo poi a tale valore l’importo fissato in contratto per il prezzo ed aggiungendovi la rivalutazione a decorrere dalla domanda. La corte di merito ha inoltre riconosciuto un’ulteriore somma pari a quella corrisposta dal promissario acquirente al momento della stipula del preliminare oltre interessi da tale momento.

Operando in tal modo la corte di appello ha commesso alcuni errori nell’applicare i principi giurisprudenziali di questa Corte, ormai consolidati, secondo i quali il risarcimento del danno al promissario acquirente per la mancata stipulazione del contratto definitivo di vendita di un bene immobile, imputabile al promittente venditore, consiste nella differenza tra il valore commerciale del bene medesimo al momento della proposizione della domanda di risoluzione del contratto (cioè al tempo in cui l’inadempimento è divenuto definitivo) ed il prezzo pattuito. La detta differenza deve inoltre essere rivalutata per compensare la svalutazione intervenuta nelle more del giudizio, mentre non deve essere rivalutato il prezzo pagato dal primissario acquirente tempestivamente beneficiato dal promittente alienante. Relativamente alla misura del danno, che forma oggetto dei motivi svolti nel ricorso principale, è risaputo che il risarcimento del danno dovuto al promissario acquirente, in caso di mancata stipulazione del contratto definitivo di vendita per fatto imputabile al promittente venditore, deve comprendere la perdita subita ed il lucro cessante, consistente quest’ultimo, quando il contratto ha per oggetto un bene immobile, nel mancato incremento dovuto al fatto che il bene non è entrato nel patrimonio de compratore e che si concreta nella differenza tra l’attuale valore commerciale del bene medesimo ed il prezzo pattuito. La differenza suddetta (tra il valore commerciale dell’immobile e il prezzo convenuto) si calcola con riferimento al momento in cui, per effetto della proposizione della domanda di risoluzione, l’inadempimento è divenuto definitivo e si rivaluta, al fine di compensare gli effetti della svalutazione monetaria verificatasi nelle more del giudizio.

Non deve invece essere rivalutato il prezzo pagato dal promittente acquirente e tempestivamente beneficiato dal promittente venditore.

Al contrario il prezzo non pagato deve essere rivalutato alla stressa data di determinazione del valore dell’immobile (nei sensi suddetti, tra le tante, sentenze 1956/2007; 22384/2004; 17340/03; 1298/98).

Ciò posto risulta evidente che la corte di appello nel procedere alla quantificazione del danno – pur avendo fatto riferimento ai principi giurisprudenziali in materia – ha commesso i seguenti errori:

– ha determinato il valore del bene promesso in vendita al momento della presentazione della domanda (21/8/1981) e non a quello della nuova e diversa richiesta formulata dagli attori nel corso del giudizio di primo grado volta ad ottenere il "controvalore" del detto bene (momento indicato dal ricorrente in quello della precisazione delle conclusioni in primo grado, ossia 19/1/2004);

– nella liquidazione del lucro cessante non ha tenuto conto del prezzo non versato e della utilizzazione che il promissario acquirente abbia fatto del prezzo non versato al venditore, facendo riferimento, in difetto di prova di un diverso impiego, a criteri presuntivi rimessi al prudente apprezzamento del giudice del merito, quali, ad esempio, gli interessi bancari correnti, ovvero al vantaggio economico derivante dalla mancata assunzione di mutui con i relativi oneri (sentenza di questa Corte n. 1006/1992).

E’ evidente infatti che nell’assetto degli equilibri economici turbati dall’inadempimento del promittente venditore, non v’è equivalenza tra la situazione di colui che ha conservato in tutto o in parte la disponibilità del prezzo, pattuito rispetto a colui che invece ha interamente versato tale prezzo.

Ed è precisamente a tal fine che la giurisprudenza di questa Corte ha in numerose pronunzie avvertito la necessità di tener conto nella liquidazione del danno da lucro cessante oltre che del mancato incremento patrimoniale del promissario acquirente, anche della utilizzazione che questi abbia fatto del prezzo non versato al venditore, facendo riferimento, in difetto di prova di un diverso impiego, a criteri presuntivi, quali tra tanti i correnti interessi bancari, ovvero al vantaggio economico derivante dalla mancata assunzione di mutui con i relativi oneri, rimessi al prudente apprezzamento del giudice di merito.

La sentenza impugnata è certamente errata là dove, nel determinare la misura del lucro cessante in base alla differenza fra il valore dell’immobile e il prezzo pattuito, non ha tenuto conto che il corrispettivo era stato versato solo in parte, onde la necessità di adottare per l’importo non corrisposto i necessari correttivi.

La sentenza impugnata va pertanto cassata in relazione al motivo accolto e la causa rinviata ad altra sezione della corte di appello di Lecce la quale giudicherà anche sulle spese del giudizio di cassazione attenendosi al seguente principio di diritto: il risarcimento del danno dovuto al promissario acquirente per la mancata stipulazione del contratto definitivo di vendita di un bene immobile, imputabile al promittente venditore, consiste nella differenza tra il valore commerciale del bene medesimo ed il prezzo pattuito, differenza che nella specie va calcolata: 1) con riferimento al momento della proposizione della domanda da parte degli attori nel corso del giudizio di primo grado volta ad ottenere il "controvalore" del detto bene; 2) tenendo conto della rivalutazione allo stesso momento dell’importo previsto in contratto per il prezzo e non pagato. Il designato giudice del rinvio procederà poi alla rivalutazione della accertata differenza per compensare gli effetti della svalutazione monetaria intervenuta nelle more de giudizio.
P.Q.M.

la Corte: rigetta i primi quattro motivi di ricorso; accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il quinto motivo di ricorso; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di Cassazione, ad altra sezione della corte di appello di Lecce.

Redazione