Corte di Cassazione Civile sez. II 2/2/2009 n. 2558; Pres. Colarusso V.

Redazione 02/02/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione ritualmente notificato, C.M. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Avezzano B.E., proprietario dell’edificio confinante con il proprio, esponendo che quest’ultimo aveva realizzato una sopraelevazione nella parte del sottotetto, realizzando una serie di opere comportanti servitù abusive, in tal modo ledendo i suoi diritti di confinante, e chiese la eliminazione di tali modificazioni.

L’adito Tribunale ritenne, quanto alla pretesa illegittimità della falda del tetto, non sussistente la dedotta violazione, poichè la situazione attuale non risultava aver innovato rispetto alla precedente.

Quanto alla asserita illegittimità delle vedute dirette aperte dal convenuto nella costruzione eretta in sopraelevazione, ritenne il giudice di primo grado che solo la realizzazione della finestra centrale avesse violato la norma in materia di distanze di cui all’art. 905 c.c..

Il pluviale discendente dal tetto del convenuto era stato realizzato, secondo il Tribunale, a distanza inferiore a quella minima indicata dall’art. 889 c.c.: sicchè, in difetto di un accertato corrispondente diritto di servitù, lo stesso era illegittimo, come anche il tubo di scarico realizzato nel muro comune, in quanto lesivo della medesima norma.

Pertanto, il Tribunale, con sentenza del 19 dicembre 1994, condannò il convenuto ad eliminare la veduta posta al centro della parte sopraelevata prospiciente il tetto dell’attrice, ed a collocare a distanza legale il canale di raccolta e scolo delle acque piovane ed il tubo di scarico descritti, oltre al pagamento delle spese del giudizio.

Il B. propose appello avverso detta sentenza, gravata altresì da appello incidentale della C..

Con sentenza depositata il 14 aprile 2003, la Corte d’appello di L’Aquila, in parziale riforma della decisione impugnata, dichiarò che le tre finestre aperte nel fabbricato del B. verso il tetto di quello della C. costituivano luci irregolari condannando il predetto B. a regolarizzarle secondo le prescrizioni dell’art. 901 c.c..

Osservò, al riguardo, la Corte territoriale che, esclusa la natura di vedute delle aperture in questione, in considerazione delle caratteristiche strutturali e dimensionali delle stesse, esse dovevano qualificarsi irregolari perchè prive delle caratteristiche prescritte dall’art. 901 c.c., e pertanto, sul punto, la statuizione del primo giudice andava riformata.

La stessa fu, invece, confermata nella parte relativa all’accoglimento della richiesta attorea di rimozione del pluviale per violazione delle distanze, in assenza della allegazione – tale da farne considerare incontestata la preesistenza, pur in assenza di alcuno specifico riferimento alla preesistente situazione dei luoghi da parte della C. – di un diritto di servitù che legittimasse il posizionamento del tubo a distanza inferiore da quella legale, per essersi il B. limitato ad opporre alla domanda l’affermazione della conformità dell’attuale stato di fatto allo stato preesistente.

Quanto alla domanda di riduzione in pristino della nuova falda del tetto, osservò la Corte di merito che il petitum originario era limitato alla riduzione di detta falda entro i limiti della sporgenza preesistente, e che le fotografie allegate alla c.t.u. non erano state contestate dal convenuto, sicchè correttamente erano state prese in considerazione al fine di confrontare la nuova opera con la situazione preesistente.

Nè poteva condividersi, alla stregua dell’esame delle fotografie allegate alla c.t.u. l’assunto dell’appellante incidentale secondo cui la falda preesistente era costituita da una cornice ornamentale di modeste dimensioni, non computabile nella misurazione, risultando sostanzialmente sovrapponibile la falda ritratta con quella riportata nel disegno effettuato dal c.t.u..

Anche sul capo relativo ai tubi di scarico, venne confermata la sentenza di primo grado per non essere stata rispettata la prescrizione della distanza di legge.

Quanto alla doglianza del B. relativa alla condanna alle spese del giudizio, la Corte la disattese ponendo l’accento sulla sostanziale soccombenza del convenuto-appellante.

Avuto riguardo alla, seppur parziale, reciproca soccombenza delle parti nel giudizio di appello, la Corte territoriale dispose la compensazione delle spese del grado.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il B. sulla base di due motivi, cui ha resistito la C., che ha proposto altresì ricorso incidentale, resistito con controricorso dal B..

Le parti hanno depositato memorie nella imminenza della udienza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Deve, preliminarmente, procedersi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., alla riunione dei ricorsi, siccome proposti nei confronti della medesima sentenza.

Con il primo motivo del ricorso principale, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 901 e 902 c.c., art. 112 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia.

La Corte territoriale, dopo avere correttamente escluso che le tre aperture in contestazione, prospicienti l’edificio di proprietà della signora C., potessero essere considerate come vedute, avuto riguardo alla evidente inidoneità delle stesse a consentire la inspectio e la prospectio sul fondo confinante, avrebbe errato nello statuire l’obbligo dell’attuale ricorrente di provvedere alla regolarizzazione delle stesse aperture, considerandole apoditticamente come luci irregolari, senza chiarire le ragioni di siffatto convincimento.

Di più: nel condannare il B. alla regolarizzazione delle aperture di cui si tratta, il giudice di secondo grado sarebbe incorso in un vizio di ultrapetizione, non essendo la questione della presunta irregolarità delle luci mai stata affrontata nel corso del giudizio, essendosi la attuale controricorrente limitata a chiedere la condanna del B. alla chiusura delle vedute aperte da quest’ultimo e prospicienti la sua proprietà.

Del resto, nel ricorso si sottolinea la sostanziale regolarità delle luci in questione, in quanto conformi alle prescrizioni di cui all’art. 901 c.c..

Il motivo è fondato nei termini che seguono.

E’, anzitutto, pacifico che, nella specie, con l’atto introduttivo del giudizio, la signora C. aveva dedotto, con riferimento alle aperture in questione, la lesione della disposizione dell’art. 905 c.c. in materia di distanze per l’apertura di vedute dirette, e che, proprio con riferimento a tale previsione codicistica, il giudice di primo grado aveva accolto la domanda limitatamente ad una sola delle tre aperture di cui si tratta, ritenendo che quella soltanto fosse stata realizzata in violazione della citata disposizione.

Va, in proposito, richiamata la diversità dei presupposti, della ratio e del contenuto della disciplina di cui all’art. 905 c.c., in tema di distanze per l’apertura di vedute rispetto a quella contemplata dagli artt. 901 e 902 c.c., con riguardo alle luci.

Con la prima, che riguarda quelle aperture le quali consentono di inspicere, cioè di vedere il fondo del vicino, ed inoltre di prospicere, cioè di affacciarsi guardando anche obliquamente e lateralmente lo stesso, si intende essenzialmente tutelare il proprietario dall’indiscrezione del vicino, impedendo a quest’ultimo di creare aperture a distanza inferiore a quella di un metro e mezzo.

La disciplina di cui agli artt. 901 e 902 c.c., regolamenta il diritto, iure proprietatis, di effettuare sul proprio fabbricato aperture verso il fondo del vicino allo scopo di attingere luce ed aria, senza affacciarsi su quello, stabilendo i requisiti di altezza e di sicurezza (collocazione di inferriate e grate fisse) alla cui sussistenza è condizionata la limitazione del diritto del vicino.

Alla evidenziata diversità di presupposti e di ratio tra le due normative corrisponde la diversità delle determinazioni, che, in concreto, possono essere adottate per evitare che venga realizzato quel risultato che la legge ha inteso impedire.

Così, mentre la possibilità di affacciarsi sul fondo del vicino può essere, in caso di inosservanza delle distanze minime previste dall’art. 905 c.c., eliminata soltanto dall’arretramento o dalla chiusura della veduta, tranne che essa non costituisca il contenuto di uno specifico diritto di servitù, le prescrizioni stabilite dall’art. 901 c.c., in tema di luci possono essere fatte rispettare attraverso la semplice regolarizzazione delle aperture originariamente create in violazione delle prescrizioni in tema di altezza e sicurezza poste dalla legge: regolarizzazione che può essere, peraltro, chiesta in qualsiasi momento dal proprietario del fondo confinante, non perdendo mai quest’ultimo, a norma dell’art. 902 c.c., comma 2, il relativo diritto, con conseguente esclusione della configurabilità di usucapione nella materia delle luci irregolari.

Nella specie, come già chiarito, l’attrice in primo grado non aveva chiesto la regolarizzazione delle luci aperte dal B., ma aveva fatto valere la illegittimità di dette aperture siccome realizzate a distanza inferiore a quella regolamentare, con conseguente richiesta di eliminazione delle stesse, accolta dal Tribunale con riguardo ad una sola di esse: sicchè la decisione della Corte d’appello, che, qualificate le stesse aperture come luci, ne ha opinato la irregolarità per mancato rispetto delle prescrizioni di cui all’art. 901 c.c., imponendone la regolarizzazione (non rilevando, in tale contesto, nemmeno evidenziare la eventuale erroneità o apoditticità della relativa affermazione), si colloca al di là delle domande della stessa attrice, decidendo, tra l’altro, questioni sulle quali non si era sviluppato alcun contraddittorio e sulle quali quindi il convenuto non aveva potuto sollevare alcuna eccezione.

Vanno, in proposito, richiamate le conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza di questa Corte in materia di criteri di riferimento della violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., ponendo l’accento sul divieto, che il predetto principio implica, di attribuire alla parte un bene non richiesto, o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, interferendo nel potere dispositivo delle parti, attraverso l’alterazione di alcuno degli elementi identificativi dell’azione (petitum e causa petendi), ed attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda (v., tra le altre, Cass., sent. n. 27727 del 2005).

Le predette argomentazioni consentono di escludere l’applicabilità, nella specie, della giurisprudenza richiamata dalla controricorrente, e, in particolare, della risalente sentenza di questa Corte n. 1225 del 1979, che, in una fattispecie in cui era stata richiesta la eliminazione delle situazioni illegittime perchè costituenti violazione di legge in tema di vedute, ebbe ad affermare che non esorbitava dai limiti della domanda, come correttamente interpretata, la pronuncia che provvedesse a detta eliminazione mediante la riduzione delle aperture a luci regolari; o della sentenza n. 8744 del 1993, secondo la quale non costituisce domanda nuova, improponibile per la prima volta in appello ex art. 345 c.p.c. l’istanza di tutela possessoria di una servitù di luce in cui sia stata mutata quella di tutela possessoria di veduta richiesta in primo grado, vertendosi in una ipotesi di diversa qualificazione giuridica della pretesa fatta valere in primo grado.

Invero, in nessuno dei casi richiamati si poneva una questione di differente petitum espressamente richiesto dall’attore (nella specie, eliminazione della veduta) rispetto a quello conseguibile a seguito della pronuncia di merito(nella specie, regolarizzazione delle luci).

Nè vale, al riguardo, opporre da parte della controricorrente il richiamo all’art. 902 c.c., operato nella comparsa conclusionale ed in quella di risposta e costituzione in grado di appello, laddove nelle conclusioni sia di prime che di seconde cure ella ha fatto riferimento esclusivo alla chiusura delle vedute.

Con la seconda censura, si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 873, 889 e 2697 c.c., nonchè la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia.

Anche la decisione adottata dalla Corte d’appello in ordine alle domande di rimozione del pluviale discendente e del canale di scarico delle acque putride sarebbe errata.

Quanto alla prima, sarebbe, a differenza di quanto ritenuto dal giudice di seconde cure, pacifica, come riconosciuto anche dal c.t.u., la circostanza che il pluviale discendente fosse stato installato prima della sopraelevazione effettuata dall’attuale ricorrente, e ciò in contrasto con le doglianze della C., che aveva, invece, lamentato la novità della servitù costituita in suo danno.

Pertanto, la appurata preesistenza della situazione – posta dalla stessa Corte a fondamento del rigetto della domanda di demolizione della falda di tetto – avrebbe dovuto coerentemente indurre il secondo giudice anche al rigetto di quella di collocazione alla distanza legale del pluviale in questione.

Inoltre, sarebbero stati ignorati, nel pervenire alla decisione impugnata, i principi in materia di ripartizione dell’onere probatorio e di prevenzione in tema di distanze tra fabbricati, secondo i quali incombe a colui che chiede l’arretramento del fabbricato altrui sul presupposto della preesistenza della propria costruzione l’onere di fornire la prova di tale preesistenza.

Infine, si lamenta la sostanziale inapplicabilità, nella specie, della disposizione dettata dall’art. 889 c.c., comma 2 che si riferirebbe a condutture che abbiano un flusso costante di sostanze gassose o liquide, e pertanto, comportino un pericolo permanente per il fondo del vicino, laddove il tubo in questione consisterebbe in una grondaia, inidonea a creare alcun pericolo per il fondo del vicino.

Analoghe considerazioni, con riguardo alla inosservanza dei principi in tema di ripartizione dell’onere della prova e di prevenzione delle costruzioni, ed alla mancanza, nella specie, di alcun pregiudizio, vengono svolte con riferimento al capo della sentenza impugnata con il quale è stata confermata la condanna dell’attuale ricorrente a collocare alla distanza legale il tubo di scarico delle acque nere.

La censura è in parte inammissibile, in pare infondata.

E’ inammissibile nella parte relativa alla deduzione della illegittimità della statuizione avente ad oggetto la mancata allegazione di un diritto del B. a tenere il pluviale ad una distanza inferiore a mt. 1 in forza di un titolo.

Infatti, attraverso la deduzione di violazioni di legge e di vizi motivazionali, essa appare sostanzialmente rivolta a conseguire una rivalutazione – inibita, invece, a questa Corte quando la valutazione del giudice di merito sia accompagnata da una motivazione sufficiente e logicamente ineccepibile – delle emergenze processuali, e, in definitiva, un controllo dell’apprezzamento dei fatti operato dal giudice di secondo grado nell’esercizio del potere a lui demandato in via esclusiva.

Nella specie, la Corte di appello di L’Aquila ha motivato in modo congruo e non illogico il proprio convincimento in ordine alla mancata prova della preesistenza di un diritto di servitù che consentisse all’attuale ricorrente di collocare il pluviale a distanza inferiore a quella legale.

Ancora, è inammissibile la censura nella parte in cui fa valere il mancato rispetto dei principi in tema di ripartizione dell’onere della prova e di prevenzione in tema di distanze tra fabbricati, trattandosi di questione nuova, in quanto proposta per la prima volta in sede di legittimità.

Infondato è, invece, il motivo in esame nella parte in cui fa valere la inapplicabilità, nella specie, dell’art. 889 c.c., comma 2, con riguardo alle distanze da mantenere per la installazione di tubi, per la inesistenza, nella specie, di una reale situazione di pericolo.

Infatti, la citata disposizione, alla stregua della quale, per i tubi di acqua pura o lurida (cui vanno assimilati i canali di gronda) e loro diramazioni, deve osservarsi la distanza di almeno un metro dal confine, si fonda su di una presunzione assoluta di dannosità per infiltrazioni o trasudamenti che non ammette la prova contraria (v., sul punto, Cass., sent. n. 2964 del 1997).

Con l’unico motivo del ricorso incidentale, si deduce la violazione dell’art. 840 c.c., comma 2, nonchè omessa ed insufficiente motivazione su fatti decisivi.

Si contesta la sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato il rigetto della domanda di condanna del B. alla rimozione della falda del tetto sporgente sull’immobile della C..

Si rileva che sullo spazio aereo sovrastante la proprietà, che appartiene al proprietario come proiezione verso l’alto della colonna di aria, non è consentita l’immissione di sporti ad opera del vicino.

Nella specie, si contesta l’assunto della Corte di merito relativo alla identità della falda ante operam con quella post operam, sottolineandosi che le fotografie prodotte dimostrerebbero che la falda preesistente alla edificazione contestata sarebbe consistita da una cornice ornamentale di modeste dimensioni.

Il motivo è inammissibile, traducendosi all’evidenza, come esattamente rilevato dal ricorrente principale, in una mera richiesta di rivalutazione – non consentita in sede di legittimità – del materiale probatorio apprezzato dal giudice di merito nell’esercizio del suo potere discrezionale.

Conclusivamente, va accolto il primo motivo del ricorso principale, mentre vanno rigettati il secondo motivo dello stesso ricorso e quello incidentale.

La sentenza va cassata in relazione al motivo accolto, e la causa decisa nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, – non residuando ulteriori accertamenti di fatto da compiere con la eliminazione della condanna del B., pronunciata dalla predetta sentenza, alla regolarizzazione delle luci.

Nella parziale reciproca soccombenza le ragioni della compensazione delle spese del giudizio di legittimità ed in quello di appello.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie il primo motivo del ricorso principale, rigetta il secondo motivo dello stesso ricorso e quello incidentale. Cassa la sentenza in relazione al motivo accolto, e, decidendo nel merito, annulla la condanna del B. alla regolarizzazione delle luci, pronunciata dalla Corte d’appello di L’Aquila con detta sentenza. Compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità e di quello di secondo grado.

Redazione