Corte di Cassazione Civile sez. II 20/7/2009 n. 16832; Pres. Triola R.M.

Redazione 20/07/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Roma con la sentenza 25.11.1999 rigettava la domanda proposta da L.M., proprietaria di un appartamento e di un locale al pian terreno siti in via (omissis), con la quale la medesima aveva citato il Condominio di via (omissis) e la proprietaria dell’appartamento dell’ultimo piano ( D.L. C.) per chiedere l’annullamento della Delibera condominiale che le aveva negato il permesso di collocare una canna fumaria all’interno del cortile per l’espulsione dei fumi provenienti dal proprio locale al piano terra adibito a trattoria. Lo stesso giudice aveva rigettato anche la domanda riconvenzionale del Condominio diretta ad ottenere il divieto dell’esercizio di ristorazione ed il risarcimento dei danni, osservando che la menzionata attività non era in contrasto nè con le vigenti disposizioni di legge, nè con le norme del regolamento condominiale di cui all’art. 8 vietante alcune attività ai condomini.

La predetta sentenza veniva appellata dal menzionato condominio, che deduceva in specie l’errata interpretazione dell’anzidetta norma regolamentare; resisteva la L., deducendo in via incidentale la mancata integrazione dei contraddittorio nei confronti di suo marito, comproprietario e co-locatore dell’immobile, con conseguente improcedibilità della domanda riconvenzionale avanzata dal condominio. L’adita Corte d’appello di Roma, con la sentenza n. 2258/04 accoglieva per quanto di ragione il gravame, ritenendo che la destinazione ad osteria del locale fosse in contrasto con il regolamento del condominio e di conseguenza condannava la convenuta a far cessare l’attività di ristorazione nel suo locale, oltre che alle spese del doppio grado.

Avverso la predetta decisione ricorre per cassazione L.M. sulla base di 3 motivi, illustrati da successiva memoria ex art. 378 c.p.c.; resiste con controricorso il Condominio.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente eccepisce la violazione di legge per omessa integrazione del contraddittorio con riferimento agli artt. 102 e 269 c.p.c. ed degli artt. 1292, 1102 e 1138 c.c. Ribadisce che la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti del proprio marito ( C.F.) comproprietario e colocatore dell’immobile ha comportato la nullità dell’intiero giudizio.

Con il 2 motivo eccepisce la contraddittorietà della motivazione con riguardo al riferimento di cui all’art. 8 del regolamento condominiale e la falsa applicazione dell’art. 113 e ss. c.p.c. Lamenta che la Corte territoriale non ha aderito a quanto correttamente ritenuto dal primo giudice, secondo il quale l’attività di ristorazione non era compresa tra le attività espressamente vietate dalla norma regolamentare suddetta, mentre, d’altro canto, non poteva presumersi che l’utilizzazione del locale a ristorante costituisse un uso potenzialmente lesivo della tranquillità dei condomini, ovvero contrario all’igiene o al decoro dell’edificio. Sotto tale profilo osserva ancora che non era stata allegata alcuna prova circa eventuali immissioni moleste dal suo locale (che peraltro aveva una ridottissima capienza di posti), sottolinenando che non era stato inoltrato alcun esposto all’autorità competente per tali ipotetiche immissioni. Osserva ancora che la stessa Corte romana, per motivare il proprio convincimento favorevole all’accoglimento della domanda del condominio, aveva utilizzato il termine "locanda" (compresa tra le attività vietate dal regolamento) equiparandolo impropriamente a quello di trattoria, laddove, nella comune accezione, la parola locanda significa propriamente "trattoria con alloggio", termine cioè che necessariamente presuppone la fornitura di alloggio oltre che la somministrazione del cibo.

Con il 3 motivo la ricorrente eccepisce ancora la contraddittorietà della motivazione e la falsa applicazione di norme di diritto, deducendo che la Corte d’appello, nel voler sostenere che non era necessario integrare il contraddittorio nei confronti del comproprietario del locale, aveva affermato che l’emananda pronuncia avesse natura meramente dichiarativa, mentre invece, nel dispositivo della stessa decisione, aveva condannata l’appellata a porre fine all’attività di ristorazione.

Tanto premesso, osserva il Collegio che la 1A e la 3A censura in realtà costituiscono un’unica doglianza e possono perciò essere esaminate congiuntamente; le stesse censure invero fanno riferimento all’eccepita violazione del contraddittorio per la mancata partecipazione al giudizio del coniuge della ricorrente, quale comproprietario del locale-trattoria in discorso. La doglianza non è fondata.

La domanda proposta dal Condominio è qualificabile quale confessoria servitutis che come tale non postula alcuna modifica della preesistente situazione di fatto, per cui nella fattispecie non è configurabile alcun litisconsorzio necessario tra gli eventuali comproprietari dell’immobile di cui trattasi. Al riguardo questa S.C. ha precisato che …." l’"actio confessoria" o l’"actio negatoria servitutis" diretta – nell’ipotesi che i fondo dominante o quello servente o entrambi appartengano "pro indiviso" a più proprietari – soltanto a far dichiarare, nei confronti di chi ne contesti o ne impedisca l’esercizio, l’esistenza della servitù o a conseguire la cessazione delle molestie, non da luogo a litisconsorzio necessario, nè dal lato attivo nè da quello passivo. Solo qualora sia domandato anche un mutamento dello stato di fatto dei luoghi, mediante la demolizione di manufatti o di costruzioni, che incida su di un rapporto inscindibilmente comune a più soggetti, l’azione deve essere esperita nei confronti di tutti i proprietari, giacchè solo in tal caso la sentenza, ove non avesse efficacia nei confronti di tutti, risulterebbe ineseguibile e, pertanto, "inutiliter data" (Cass. n. 8261 del 07/06/2002; Cass. n. 3136 del 25.3.1998; n. 4283 del 23.2.2009; Cass. n. 27412 del 18.11.2008).

Ritiene invece il Collegio che è condivisibile la residua doglianza.

La Corte territoriale, in effetti, per fondare il proprio convincimento favorevole alla tesi del condominio, ha dato particolare risalto all’art. 8 del Regolamento condominiale, che pone dei limiti all’uso ed al godimento sia dei beni comuni che delle proprietà esclusive allo scopo di garantire le condizioni di tranquillità di tutti i partecipanti al condominio. Ha osservato che detta norma ha indicato "in via ovviamente esemplificativa" una serie di attività vietate e tra esse le destinazioni dei singoli beni ad uso diverso dell’ abitazione e dell’ufficio professionale privato se non debitamente consentito dall’assemblea. Inoltre ha vietato espressamente di destinare i locati "… ad uso ufficio pubblico, sanatorio, gabinetto di cura.., pensione, locanda albergo o in genere a qualsiasi altro uso che possa turbare la tranquillità dei condomini o sia contrario all’igiene o al decoro dell’edificio….".

Ha poi ritenuto che il termine "locanda" menzionato nella disposizione in esame, avesse il significato, più pertinente di semplice "trattoria" (…..il "termine locanda, oltre a significare un albergo economico di categoria assai modesta, è usualmente utilizzato per indicare trattoria con alloggio ovvero "osteria"…), per poi concludere che l’attività di ristorazione svolta nel locale in questione, fosse espressamente vietata dalla norma regolamentare in esame.

Osserva il Collegio, ciò premesso, che il giudice di merito – a parte l’evidente opinabilità dell’equiparazione da lui propugnata dei termine locanda a quello di semplice osteria – ha in qualche modo "forzato" l’interpretazione la norma regolamentare in esame, dando ad essa una connotazione indubbiamente estensiva ponendosi in contrasto con la consolidata giurisprudenza di questa Corte in tema di esegesi della disposizione di tale natura. Invero le restrizioni alle facoltà inerenti alla proprietà esclusiva contenute nel regolamento di condominio di natura contrattuale, devono essere formulate in modo espresso o comunque non equivoco in modo da non lasciare alcun margine d’incertezza sul contenuto e la portata delle relative disposizioni (Cass. n. 23 del 07/01/2004). Trattandosi di materia che attiene alla compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive dei singoli condomini, i divieti ed i limiti devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo a incertezze e non possono quindi dar luogo ad un’interpretazione estensiva delle relative norme. (Cass. Sez. 2, n. 9564 do 01/10/1997). Nel caso che qui interessa, non pare dubbio che la Corte territoriale abbia fondato il proprio convincimento interpretando la norma regolamentare – che non pone alcun espresso divieto all’utilizzo de locale a ristorazione – in modo estensivo, comprimendo ulteriormente in modo arbitrario le facoltà di utilizzo del locale da parte del proprietario.

In conclusione ed in sintesi, va rigettato il 1^ ed il 3^ motivo, mentre dev’essere accolto il 2^ motivo del ricorso; ciò comporta la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio della causa, anche per le spese del giudizio, ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma, la quale deciderà seguendo la regola sopra enunciata.

P.Q.M.

la Corte, rigetta il 1^ e 3^ motivo; accoglie il 2^ motivo del ricorso; cassa la sentenza impugnata in ragione del motivo accolto e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio, ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma.

Redazione