Corte di Cassazione Civile sez. II 19/10/2007 n. 22020

Redazione 19/10/07
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Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 18.2.1998 L.G.M. C. e la figlia G.D. convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Palermo L.G.G., rispettivamente loro sorella e zia, e, premesso che il 2.4.1997 era deceduta in Palermo G.M.C., zia "ex sorore" di M.C. e L.G.G., esponevano che la defunta aveva disposto delle sue sostanze istituendo eredi universali la nipote C.M. con testamento pubblico dell’11.11.1987 e legando ad entrambe le sorelle i mobili, gli arredi e tutti i beni siti in via (omissis).

Le attrici assumevano di aver successivamente appreso di essere state denunciate per furto il 7.4.1997 da ******, novantasettenne marito della defunta zia, il quale aveva dichiarato di essere stato informato dalla convenuta dell’avvenuta sottrazione di pellicce e gioielli già appartenenti alla moglie ad opera delle esponenti nel corso di una visita di condoglianze in data 5.4.1997, presente la nipote G. ed a sua insaputa.

L.G.M.C. e G.D. aggiungevano che il contenuto della denuncia era stato confermato dalle dichiarazioni rese dalla convenuta agli organi di PG ed al magistrato inquirente, che peraltro aveva chiesto l’archiviazione poi disposta dal GIP il 23.5.1987, essendo emerso dalle dichiarazioni di entrambi i genitori che le due sorelle L.G. avevano deciso concordemente di mettere al sicuro gli oggetti di valore e le pellicce già appartenenti alla zia per evitare che gli stessi potessero essere sottratti dalle persone che prestavano assistenza all’anziano zio.

Le attrici, quindi, rilevato che la denuncia per furto effettuata nella piena coscienza della sua infondatezza da parte di L.G. A. – nel frattempo deceduto -su istigazione della convenuta integrava gli estremi della calunnia, chiedevano la condanna di L.G.G. in proprio e quale erede universale dello zio autore della suddetta denuncia al risarcimento dei danni morali subiti.

Costituendosi in giudizio la convenuta contestava il fondamento della domanda attrice di cui chiedeva il rigetto asserendo che la stessa si inseriva in un contenzioso apertosi con la sorella a seguito del decesso della zia G.M.C. e dell’esercizio dell’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie da parte del coniuge pretermesso L.G.A. nei confronti di L. G.M.C.; in particolare sosteneva che il secondo testamento della zia conteneva delle "istitutiones ex re certa" e non solo legati, affermando che l’impossessamento da parte della sorella di beni almeno parzialmente non suoi senza il consenso del possessore rispondeva a verità.

Il Tribunale adito con sentenza del 5.10.1999 condannava L.G. G. al pagamento in favore di ciascuna delle attrici della somma di L. 30.000.000, ritenendo sussistere la diffamazione per la convenuta ed il suo dante causa e la calunnia solo per la prima, escludendo relativamente a quest’ultimo reato la responsabilità di ****** per assenza di prova sull’elemento psicologico.

A seguito di gravame da parte di L.G.G. cui resistevano L.G.M.C. e G.D. la Corte di Appello di Palermo con sentenza del 17.7.2002, in parziale accoglimento dell’impugnazione proposta, ha ridotto a L. 12.000.000 la somma di denaro dovuta dall’appellante in favore di ciascuna delle due appellate a titolo di risarcimento del danno, ha compensato per un terzo le spese del giudizio di primo e secondo grado ed ha condannato l’appellante al pagamento dei residui due terzi di esse.

Il giudice di appello, premesso che l’inesistenza di una pronuncia del giudice penale non costituiva impedimento all’accertamento da parte del giudice civile della sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi costitutivi del reato ai fini della statuizione su una domanda di natura risarcitoria, ha poi ritenuto irrilevante qualificare il testamento olografo del 23.3.1992 di G.M. C. come istitutivo di disposizioni a titolo universale o a titolo particolare, non interferendo tale questione con "il contenuto della denuncia di furto sporta da L.G.A. e con le dichiarazioni rese da L.G.G., la cui natura calunniosa e diffamatoria costituiva la "causa petendi" della domanda introdotta nel presente giudizio.

La sentenza impugnata, poi, sulla scorta delle dichiarazioni rese da L.G.F.P. e G.G. ha evidenziato che le loro figlie G. e L.G.M.C. avevano deciso di comune accordo di portar via dalla casa della defunta zia i gioielli e le pellicce per evitare eventuali sottrazioni da parte di persone di servizio, come si era verificato in passato; restava così escluso che L.G.M.C. si fosse impossessata dei beni suddetti, cosicchè era falsa la versione dei fatti riferita da L.G.G. allo zio L.G.A. in base alla quale costui aveva sporto denuncia in danno delle due appellate, versione poi esposta dalla stessa appellate il 7.4.1997 in sede di assunzione di sommarie informazioni testimoniali e confermata al P.M. il 16.4.1997; la consapevolezza da parte dell’appellante dell’innocenza delle appellate era poi dimostrata dal fatto che L.G.G. sapeva che la sorella aveva portato via i beni per custodirli per averlo con lei stessa concordato. Il giudice di appello ha invece rilevato la fondatezza dell’assunto dell’appellante principale in ordine alla insussistenza di qualsiasi sua responsabilità per la denuncia presentata dal suddetto zio, essendo stato ritenuto quest’ultimo non responsabile per il dubbio sulla consapevolezza dell’innocenza della incolpata. Infine la Corte territoriale ha accolto altresì il motivo di appello relativo alla diffamazione avendo per un verso ritenuto che la denuncia orale per il furto da parte di ****** era stata raccolta da un ufficiale di P.G. verbalizzante, mentre non vi era prova che la notizia fosse stata riferita dall’appellante ad altri dopo l’inizio delle indagini, oltre che in sede di audizione a sommarie informazioni ed al P.M., e per altri versi avendo escluso valenza diffamatoria sia alle affermazioni rese da L.G.G. in sede di esame da parte degli inquirenti sia alla precedente comunicazione effettuata soltanto ad L.G.A..

Per la cassazione di tale sentenza L.G.G. ha proposto un ricorso affidato a sei motivi cui L.G.M.C. e G.D. hanno resistito con controricorso proponendo altresì un ricorso incidentale basato su due motivi la ricorrente principale ha a sua volta resistito concontroricorso; entrambe le parti hanno depositato successivamente delle memorie.

Motivi della decisione
Preliminarmente deve procedersi alla riunione dei ricorsi in quanto proposti contro la medesima sentenza. Occorre poi osservare sempre in via preliminare che con la memoria ex art. 378 c.p.c. del 27.10.2006 la ricorrente principale, sul presupposto dell’avvenuto decesso nelle more del presente giudizio del difensore di L.G.G. avvocato S.P.S., ha rilasciato procura in calce alla memoria medesima agli avvocati A.M. ed S.A.; orbene tale procura è invalida, posto che nel giudizio di Cassazione la procura speciale non può essere rilasciata a margine o in calce di atti diversi dal ricorso o dal controricorso, stante il tassativo disposto dell’art. 83 c.p.c.,comma 3, che implica la necessaria esclusione della utilizzabilità di atti diversi da quelli suindicati; pertanto, se la procura non è rilasciata contestualmente a tali atti, è necessario il suo conferimento nella forma prevista dal secondo comma dello stesso articolo, ovvero con atto pubblico o con scrittura privata autenticata; nè ad una conclusione diversa può pervenirsi nell’ipotesi – ricorrente nella fattispecie – in cui debba sostituirsi il difensore nominato con il ricorso, deceduto nelle more del giudizio, non rispondendo alla disciplina del giudizio di cassazione il deposito di un atto redatto dal nuovo difensore su cui possa essere apposta la procura speciale (Cass. S.U. 5.7.2004 n. 12265).

Conseguentemente la procura rilasciata dalla ricorrente principale ai nuovi difensori con la suddetta memoria è invalida, cosicchè di tale atto difensivo e del documento ivi allegato (prescindendo quindi dalla deliberazione sulla ammissibilità o meno di quest’ultimo) non può tenersi conto.

A tal punto, una volta ritenuta invalida tale costituzione in giudizio, non occorre peraltro rinviare a nuovo ruolo la causa dandone comunicazione alla parte personalmente onde consentirle di provvedere alla nomina di un nuovo difensore, come pure affermato dalla recente pronuncia delle S.U. di questa Corte del 13.1.2006 n. 477: infatti tale necessità, determinata dall’esigenza di avvertire la parte dell’avvenuto decesso dell’unico difensore dopo il deposito del ricorso e prima dell’udienza di discussione (decesso attestato dalla relata di notifica dell’avviso di udienza), è superata nella fattispecie dalla constatazione che la ricorrente principale è già a conoscenza di tale evento, come comprovato dal rilascio della procura ai nuovi difensori nella menzionata memoria; il fatto poi che tale procura è invalida non comporta certamente l’inammissibilità del ricorso, come pure richiesto nella discussione orale dal difensore delle controricorrenti ed in via principale dal P.M., posto che l’invalidità della nuova procura è del tutto equiparabile all’ipotesi che la parte, una volta ricevuta la comunicazione del rinvio della causa a nuovo ruolo per l’avvenuto decesso del suo unico difensore, rimanga inerte e non provveda alla nomina di un nuovo difensore: invero, considerato che la possibilità di consentire alla parte una tale nuova nomina è giustificata dalla tutela dell’interesse della parte stessa all’esercizio del diritto di difesa, la mancata nomina di un nuovo difensore in sostituzione di quello deceduto determina soltanto il venir meno dei presupposti per reiterare gli adempimenti prescritti dall’art. 377 c.p.c., comma 2 (Cass. S.U. 13.1.2006 n. 477).

Venendo quindi all’esame del ricorso principale, deve anzitutto essere disattesa l’eccezione delle controricorrenti di inammissibilità del ricorso per mancata compiuta esposizione dei fatti di causa, atteso che in realtà la narrativa delle vicende che hanno dato luogo alla presente controversia riportata nel ricorso suddetto consente di assumere adeguata percezione della natura e del contenuto delle censure in esso formulate. Ciò premesso, si rileva che con il primo motivo del ricorso principale L.G.G., deducendo violazione degli articoli 37 c.p.c., art. 2059 c.c., artt. 185 e 598 c.p., nonchè vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver accertato la sussistenza degli elementi costitutivi di un reato in assenza dei presupposti di legge, posto che nella specie non vi era alcun impedimento all’eventuale accertamento del reato di calunnia da parte del giudice penale, atteso in particolare che al momento della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di primo grado da parte di L.G.M. C. e di G.D. il suddetto reato non era ancora prescritto; pertanto il giudice civile era carente "della competenza funzionale" per procedere all’accertamento della sussistenza del reato.

La ricorrente principale richiama a sostegno del suo assunto la pronuncia di questa Corte a Sezioni Unite del 29.11.1996 n. 10677. La censura è infondata.

Invero secondo l’orientamento consolidato di questa Corte, cui si ritiene di dover pienamente aderire, la risarcibilità del danno non patrimoniale a norma dell’art. 2059 c.c., in relazione all’art. 185 c.p. non richiede che il fatto illecito integri in concreto un reato punibile per il concorso di tutti gli elementi a tal fine rilevanti per la legge penale, essendo sufficiente che il fatto stesso sia astrattamente preveduto come reato e sia, pertanto, idoneo a ledere l’interesse tutelato dalla norma penale (Cass. 12.8.1995 n. 8845);

pertanto ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale derivante da un fatto illecito astrattamente integrante gli estremi di reato, l’inesistenza di una pronuncia del giudice penale non costituisce impedimento all’accertamento da parte del giudice civile della sussistenza degli elementi costitutivi del reato (Cass. 6.11.2000 n. 14443; Cass. 15.3.2001 n. 3747; Cass. 27.10.2004 n. 20814); il richiamo poi della ricorrente principale alla pronuncia a Sezioni Unite di questa Corte 29.11.1996 n. 10677 è inconferente, non avendo tale decisione escluso il potere del giudice civile di accertare "incidenter tantum" la configurabilità in astratto di un fatto come reato ai fini del risarcimento del danno. Con il secondo motivo la ricorrente principale, denunciando violazione dell’art. 588 c.c. e vizio di motivazione, assume che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di appello, qualificare il testamento olografo di G.M.C. del 23.2.1998 come contenente due istituzioni di erede "ex re certa", come sostenuto dall’esponente o come invece istitutivo di disposizioni a titolo particolare era questione rilevante, posto che la controversa legittimazione di L.G.M.C. ad appropriarsi dei beni ereditari relitti dalla "de cuius" era uno degli elementi fondamentali e qualificanti del comportamento posto in essere da L.G. G.. La censura è infondata.

Invero il convincimento del giudice di appello in ordine alla ininfluenza nella presente controversia della qualificazione di erede o legataria di L.G.M.C. sulla base della interpretazione del testamento olografo del 23.2.1992 è condivisibile, posto che, in riferimento alla domanda introdotta nel giudizio di primo grado da L.G.M.C. e G. D., occorreva soltanto verificare se effettivamente queste ultime si fossero rese responsabili del furto dei beni mobili presenti nella casa di G.M.C. e, in ipotesi di esito negativo di tale indagine, accertare se L.G.G. fosse stata o meno consapevole della innocenza in proposito delle controparti; una volta quindi proceduto alla ricostruzione di tale vicenda ed avere da un lato escluso che L.G.M.C. e G.D. avessero commesso il furto dei suddetti beni, e dall’altro rilevato che L.G.G. era consapevole della innocenza della sorella (oltre che della nipote) per aver concordato con quest’ultima il prelevamento dei beni suddetti dalla abitazione della "de cuius" per custodirli altrove, correttamente la Corte territoriale ha ritenuto assorbita la questione relativa alla legittimazione di L.G.M.C. a portar via dalla casa della defunta la totalità dei beni mobili, oppure una parte di essi proporzionale alla propria quota ereditaria o nessuno di tali beni per essere gli stessi di proprietà di ******; invero l’accertata insussistenza del furto di tali beni da parte di L. G.M.C. ha determinato logicamente l’irrilevanza in radice della qualificazione della natura del diritto di quest’ultima sui beni medesimi.

Con il terzo motivo la ricorrente principale, deducendo violazione e falsa applicazione degli articoli 113 – 115 – 244 e 251 c.p.c. nonchè vizio di motivazione, assume che illegittimamente il giudice di appello ha maturato il suo convincimento sulla calunniosità delle affermazioni rese dall’esponente al P.M. fondandosi esclusivamente sulle dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni dai genitori di G. e L.G.M.C. nell’ambito del processo penale, senza considerare che tali dichiarazioni potevano semmai costituire un semplice indizio ma non una autonoma fonte di prova nel processo civile. L.G.G. aggiunge che comunque la circostanza che le due sorelle L.G. avessero deciso di comune accordo di asportare i gioielli e le pellicce dalla casa della defunta zia non escludeva la materialità del fatto, ovvero dell’impossessamento di tali beni da parte di L.G.M. C. senza il consenso dell’avente diritto L.G.A..

La ricorrente principale sostiene inoltre di essersi limitata ad affermare dinanzi agli organi di P.G. che la sorella si era impossessata di gioielli e pellicce rinvenuti in casa della zia senza peraltro averla accusata di aver commesso un furto.

La censura è infondata.

Sotto un primo profilo deve rilevarsi che in base al principio del libero convincimento ogni elemento dotato di efficacia probatoria può essere utilizzato dal giudice attraverso una sua autonoma valutazione e, naturalmente, nel contraddittorio tra tutte le parti partecipanti al giudizio; in tale contesto è stato quinti ritenuto che il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un processo penale (Cass. 25.5.1993 n. 5874; Cass. 11.8.999 n. 8585), nonchè i rapporti ed i verbali degli organi di P.G. (Cass. 11.1.1989 n. 57); correttamente quindi il giudice di appello ha apprezzato sotto il profilo probatorio le dichiarazioni rese dai genitori delle parti in sede di sommarie informazioni testimoniali, avendo evidenziato la loro genuinità in quanto provenienti da soggetti legati dagli stessi vincoli di parentela con G. e *********

Deve poi osservarsi che nella specie il giudice civile ha logicamente escluso lo stesso fatto materiale costitutivo del reato di furto, una volta accertato che il prelevamento dei gioielli e delle pellicce dalla casa della zia defunta da parte delle due sorelle era stato dettato dall’intento non già di impossessarsene ma semplicemente di evitare che tali beni venissero sottratti da persone di servizio, come già avvenuto in passato.

Infine la circostanza che l’attuale ricorrente principale non abbia mai accusato la sorella di furto ma solo dell’impossessamento di determinati oggetti è irrilevante, posto che i datti esposti nella querela presentata da L.G.A. e successivamente da L.G.G. dinanzi agli inquirenti erano idonei ad integrare il reato di furto, come confermato dalle indagini in tal senso promosse dal P.M.. Con il quarto motivo la ricorrente principale, deducendo omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, sostiene che la Corte territoriale ha fondato il suo convincimento in ordine al comportamento calunnioso della esponente sulla base del semplice comportamento del P.M., che in seguito alla suddetta querela ed alle successive dichiarazioni rese da L.G. G. aveva instaurato un procedimento penale nei confronti delle appellate per il reato di furto; tale assunto secondo la ricorrente principale è fondato su un presupposto inesistente, ovvero la pretesa infallibilità del P.M..

L.G.G. inoltre evidenzia la contraddittorietà dell’affermazione del giudice di appello in ordine alla ritenuta idoneità a promuovere un procedimento penale a carico della appellata anche della denuncia presentata da ******, nonostante che costui fosse stato ritenuto non responsabile di calunnia. La censura è infondata.

La Corte territoriale, avendo accertato che la denuncia sporta da L.G.A. e le successive dichiarazioni rese agli organi inquirenti da parte dell’attuale ricorrente principale avevano determinato l’instaurazione di un procedimento penale per furto a carico di L.G.M.C. e di G.D. risultate poi innocenti, ha ritenuto sussistente un comportamento calunnioso riferibile a L.G.G.; tale convincimento è immune dai pretesi vizi argomentativi evidenziati con la censura in esame, avuto riguardo all’interesse tutelato dall’art. 368 c.p., attinente al pericolo di deviazioni nell’amministrazione della giustizia, pericolo sicuramente sussistente nella specie sulla base della semplice constatazione dell’avvenuto promovimento del suddetto procedimento penale conseguentemente alle sopra enunciate iniziative di ******* E’ poi appena il caso di aggiungere che il fatto che ****** sia stato ritenuto non responsabile di calunnia per difetto di prova circa la sua consapevolezza dell’innocenze delle incolpate non incide sull’autonomo comportamento calunnioso posto in essere da L.G.G., consistente nell’aver esposto agli organi inquirenti fatti idonei a determinare l’incolpazione per il reato di furto di L.G.M.C. e G.D. essendo consapevole della loro innocenza.

Con il quinto motivo la ricorrente principale, deducendo omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, censura la sentenza impugnata per non aver fornito adeguate argomentazioni in ordine alla determinazione del danno morale liquidato nella somma di L. 12.000.000 per ciascuna delle controparti, da ritenere sicuramente eccessiva; inoltre l’equiparazione del danno subito da L.G. M.C. e G.D., pur nella diversità delle loro posizioni, era incongrua.

La censura è infondata.

La sentenza impugnata, avendo escluso la sussistenza della diffamazione e del concorso di L.G.G. nella calunnia di cui alla denuncia di L.G.A., ha ridotto equitativamente il danno morale in L. 12.000.000 per ciascuna delle due appellate, avuto riguardo alla concreta entità del fatto, quale riconducibile da un lato alla diffusione della falsa incolpazione del furto e dall’altro alla pesantezza dell’accusa di furto per le circostanze di tempo e di luogo di cui lo stesso sarebbe avvenuto; ha poi escluso ogni incongruenza nella liquidazione dello stesso ammontare del danno per ciascuna delle due appellate nonostante le loro diverse qualità (una imprenditrice, l’altra studentessa), posto che il danno morale non è suscettibile di diversa determinazione per effetto dell’attività lavorativa svolta dal danneggiato.

Orbene, premesso che la liquidazione del danno morale è necessariamente equitativa tenendo conto, tra l’altro, della gravità del reato (vedi "ex multis" Cass. 25.10.2002 n. 15103; Cass. 31.5.2003 n. 8827), è evidente che il giudice di appello ha dato compiutamente conto delle circostanze di fatto da lui considerate nel compimento della valutazione equitativa e dell’"iter" logico che lo ha condotto alla suddetta determinazione del danno, cosicchè tale statuizione è immune dai profili di censura sollevati con il motivo in esame.

Con il sesto motivo la ricorrente principale, deducendo violazione e falsa applicazione degli articoli 91 e 92 c.p.c. e vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver condannato l’esponente al rimborso di due terzi delle spese del secondo grado di giudizio nonostante che l’appello è stato accolto sia pure parzialmente e che quindi L.G.G. è risultata la parte vittoriosa.

La censura è infondata.

Il giudice di appello, in considerazione dell’esito complessivo della lite e del parziale accoglimento dell’impugnazione, ha compensato per un terzo le spese del grado, ed ha posto a carico dell’appellato i residui due terzi di esse.

Tale statuizione è corretta sul piano logico-giuridico considerato che, fatta eccezione per quella parte dell’appello ritenuta meritevole di accoglimento, le residue censure sollevate (tendenti ad ottenere il rigetto integrale della domanda delle controparti) erano state respinte, cosicchè la condanna dell’appellante al rimborso dei due terzi delle spese del grado è conforme al principio della soccombenza.

Il ricorso principale deve quindi essere rigettato.

Precedendo quindi all’esame del ricorso incidentale, si rileva che con il primo motivo L.G.M.C. e G.D., denunciando violazione e falsa applicazione degli articoli 110 e seguenti – 185 – 368 e segg. c.p. e art. 2059 c.c., nonchè vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per aver escluso la responsabilità di L.G.G. con riferimento alla calunnia contenuta nella denuncia presentata a suo tempo da ******* nei confronti delle attuali ricorrenti incidentali;

costoro assumono che L.G.G. era pienamente consapevole dell’innocenza delle esponenti in ordine al denunciato reato di furto e che al fine di far promuovere nei loro confronti un procedimento penale aveva mentito allo zio inducendolo a presentare la denuncia senza la quale nessuna indagine sarebbe stata possibile; ciò dimostrava il suo concorso nel delitto di calunnia ai danni della sorella e della nipote.

La censura è infondata.

Il giudice di appello, una volta accertato il passaggio in giudicato del capo della sentenza di primo grado riguardante la ritenuta non responsabilità di ****** relativamente alla calunnia contenuta nella denuncia da lui presentata per difetto di prova circa la sua consapevolezza dell’innocenza delle incolpate, ha conseguentemente escluso il concorso di L.G.G. in tale reato; tale logica conclusione è pienamente condivisibile, non potendo ammettersi la responsabilità di un soggetto quale concorrente nel delitto di calunnia allorchè l’autore della pretesa calunnia sia stato assolto proprio in ragione del dubbio sulla consapevolezza dell’innocenza dell’incolpato (Cass. Pen. 17.6.1995 n. 6990); correttamente quindi il giudice di appello, esclusa la responsabilità di L.G.G. per il concorso nel delitto di calunnia riconducibile alla denuncia presentata da L.G. A., ha equitativamente ridotto l’ammontare del danno da essa dovuto alle controparti.

Con il secondo motivo le ricorrenti incidentali, deducendo violazione degli articoli 110 e segg. c.p., artt. 185 – 195 c.p. – art. 2043 c.c. e segg. e art. 2059 c.c., nonchè vizio di motivazione, assumono che erroneamente il giudice di appello ha escluso la configurabilità del reato di diffamazione nei fatti che hanno dato luogo alla presente controversia; esse rilevano che dai documenti prodotti e dallo stesso contenuto della sentenza impugnata emergeva che l’offesa all’onere ed alla reputazione delle esponenti per essere stata qualificate come responsabili di furto era stata portata a conoscenza di una pluralità di soggetti. Le ricorrenti incidentali aggiungono poi che illogicamente e contraddittoriamente la sentenza impugnata ha definito lecito il comportamento di ****** per difetto di prova sulla consapevolezza dell’innocenza delle incolpate, posto che lo stesso giudice di appello ha accertato che le esponenti erano state ingiustamente accusate di un furto non commesso e che ************* per tale ragione aveva posto in essere un comportamento calunnioso in danno della sorella e della nipote. La censura è infondata.

La Corte territoriale ha rilevato all’esito di un accertamento di fatto sorretto da adeguata e logica motivazione che la denuncia di furto da parte di ****** era stata raccolta da un ufficiale di P.G. verbalizzante, e che non vi era prova che la notizia fosse stata riferita da L.G.G. dopo l’inizio delle indagini ad altri soggetti, oltre che in sede di audizione a sommarie informazioni testimoniali ed ala P.M.; pertanto la censura in esame al riguardo tende inammissibilmente a prospettare una diversa ricostruzione di tali circostanze senza oltretutto riportare il contenuto dei documenti dai quali sarebbe confortato l’assunto delle ricorrenti incidentali. Correttamente poi la sentenza impugnata, una volta richiamata la statuizione del giudice di primo grado passata in giudicato in ordine alla assenza di prova circa il dolo della calunnia riguardo ad L.G.A., ha rilevato che costui, denunciando il suddetto furto, aveva esercitato legittimamente il suo diritto di richiedere agli organi a ciò istituzionalmente preposti lo svolgimento di indagini; in proposito deve pure osservarsi che la denuncia di un reato perseguibile d’ufficio (come nella specie il furto) non è fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante ex art. 2043 c.c. anche in caso di proscioglimento o assoluzione del denunciato, se non quando essa possa considerarsi calunnia; al di fuori di tale ipotesi, infatti, l’attività pubblicistica dell’organo titolare dell’azione penale si sovrappone alla iniziativa del denunciante, togliendole ogni efficacia causale ed interrompendo così il nesso causale tra tale iniziativa ed il danno eventualmente subito dal denunciato (Cass. 20.10.2003 n. 15646).

Anche il ricorso incidentale deve pertanto essere rigettato.

Ricorrono giusti motivi, dato la reciproca soccombenza, per compensare interamente tra le parti le spese di giudizio.

P.Q.M.
LA CORTE Riunisce i ricorsi, li rigetta entrambi e compensa interamente tra le parti le spese di giudizio.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2006.

Redazione