Corte di Cassazione Civile sez. II 16/1/2009 n. 1073; Pres. Schettino O.

Redazione 16/01/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

M.R., proprietario di fondi confinanti con quello di proprietà di M. e G.G., conveniva in giudizio questi ultimi chiedendone la condanna alla demolizione del fabbricato che gli stessi stavano realizzando in violazione delle norme sulle distanze e sull’altezza.

I convenuti, costituitisi, chiedevano il rigetto della domanda deducendo che per il fabbricato in questione erano stati sottoposti a procedimento penale nell’ambito del quale un’indagine tecnica disposta dal P.M. aveva accertato che quello utilizzato era un "lotto intercluso" e che la costruzione era conforme alla normativa edilizia ed urbanistica.

L’adito tribunale di Isernia rigettava la domanda con sentenza 6711/2001 avverso la quale M.R. proponeva appello.

Con sentenza 25/2/2004 la Corte di appello di Campobasso dichiarava nulla la domanda formulata dall’attore e compensava tra le parti le spese del doppio grado. Osservava la corte di merito: che era fondata l’eccezione preliminare sollevata dall’appellante il quale aveva sostenuto la nullità della sentenza impugnata in quanto viziata da errore procedurale compromissorio del diritto di difesa; che l’udienza di discussione fissata in primo grado per il 16/3/2001 era stata rinviata di ufficio al 29/6/2001 con ordinanza pronunciata fuori udienza e non comunicata al M.; che l’udienza del 29/6/2001 era stata tenuta in assenza del difensore dell’attore; che si trattava di nullità dell’udienza che si riverberava sulla sentenza quale atto consequenziale; che, non ricorrendo nessuna delle ipotesi di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c., la controversia andava esaminata nel merito; che la relazione di consulenza fatta esperire dal P.M. aveva escluso la violazione delle norme sulla distanza sia in rapporto ai confini che ai fabbricati; che mancavano elementi (neppure prospettati dall’appellante) idonei a far dubitare sulla giustezza delle misurazioni eseguite dal c.t.u. ing. R. per cui era inammissibile disporre una nuova consulenza tecnica; che le altre violazioni denunziate dal M., sussistenti o meno, potevano solo dar luogo ad una pretesa risarcitoria e non alla demolizione dell’immobile; che alla violazione dell’altezza (per 40 cm. secondo la consulenza R.) l’appellante non aveva ricollegato alcun danno suscettibile di verifica e di apprezzamento;

che pertanto, il danno non provato e nemmeno allegato, non poteva essere liquidato equitativamente.

La cassazione della sentenza della corte di appello di Campobasso è stata chiesta da M. e G.G. con ricorso affidato a tre motivi illustrati da memoria. M.R. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale sorretto da cinque motivi.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso principale e quello incidentale vanno riuniti a norma dell’articolo 335 c.p.c..

Con il primo motivo del ricorso incidentale – che va esaminato in via preliminare per il suo carattere eventualmente assorbente – M.R. denuncia violazione degli artt. 353 e 354 c.p.c. e vizi di motivazione deducendo che nell’atto di appello aveva eccepito la nullità del giudizio di primo grado per la mancata comunicazione della data di udienza fissata di ufficio con provvedimento fuori udienza. La detta nullità incide sul principio del contraddittorio propagandosi ai successivi atti del procedimento compresa la sentenza. Il giudice di appello avrebbe quindi dovuto rimettere le parti e gli atti al giudice di primo grado risultando viziato l’intero procedimento "ab inizio".

Il motivo è manifestamente infondato posto che, come correttamente rilevato dalla corte di appello e come è pacifico nella giurisprudenza di legittimità, il giudice d’appello, che rilevi nullità degli atti del procedimento di primo grado successivi alla notifica della citazione introduttiva, deve dichiararle e deve disporre l’ulteriore trattazione della causa davanti a sè, in applicazione del principio dell’assorbimento delle nullità nei motivi di gravame, senza alcuna possibilità di rinviare la causa al primo giudice, attesa la tassatività e la non estensibilità per analogia, delle ipotesi che consentono tale rimessione. Pertanto la mancata comunicazione da parte del cancelliere, nel giudizio di primo grado, del provvedimento di rinvio d’ufficio dell’udienza, non integra una delle ipotesi tassative in cui il giudice di appello deve rimettere la causa al primo giudice a norma degli artt. 353 e 354 c.p.c., ma rende operante il potere-dovere del giudice d’appello di decidere nel merito previo compimento dell’attività istruttoria impedita "in prime cure" dall’anzidetta irregolarità.

Con il primo motivo del ricorso principale M. e G.G. denunciano violazione degli artt. 134, 156, 159 c.p.c. e dell’art. 82 disp. att. c.p.c. e vizi di motivazione deducendo che la Corte di appello ha errato nel dar per presupposta la nullità denunciata dal M. con l’atto di gravame. Il giudice di appello non ha considerato che nella specie la data dell’udienza rinviata di ufficio è quella del 16/3/2001 conosciuta dal difensore del M. perchè fissata alla precedente udienza del 10/11/2000 alla quale partecipò il detto difensore. Non sussisteva quindi alcun obbligo di comunicazione del rinvio di ufficio dell’udienza del 16/3/2001.

Il motivo non è fondato e contrasta con il dato pacifico evidenziato dalla Corte di appello circa l’omissione della comunicazione da parte della cancelleria al difensore del M. dell’ordinanza pronunciata fuori udienza di rinvio di ufficio dell’udienza di discussione dal 16/3/2001 al 29/6/2001, udienza quest’ultima tenutasi in assenza di detto difensore. Da ciò la nullità dei successivi provvedimenti giurisdizionali presi in assenza della parte cui era dovuta la comunicazione, per violazione del principio del contraddittorio, il quale è riferibile non solo all’atto introduttivo del giudizio, ma anche a ogni altro atto o provvedimento ordinatorio dello svolgimento del processo, in relazione al quale si ponga l’esigenza di assicurare la presenza in causa e/o la diretta difesa di tutti gli interessati.

Con il secondo motivo del ricorso principale i G. denunciano:

violazione degli artt. 352, 353 e 354 c.p.c.; contraddittorietà della decisione; contraddizione tra premesse, motivazione e dispositivo; violazione del procedimento logico; omessa decisione nel merito; omesso esame su punto decisivo. I ricorrenti principali sostengono che la corte di appello – dopo aver rilevato l’infondatezza di tutte le tesi in fatto e in diritto poste a base della domanda avanzata dal M. con l’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado – ha contraddittoriamente emesso una statuizione di nullità e non di rigetto della detta domanda formulata dall’attore.

Con il quinto motivo del ricorso incidentale il M. denuncia violazione dell’art. 164 c.p.c. e contraddittorietà tra dispositivo e motivazione, nonchè illogicità manifesta, deducendo che il giudice di appello nel dispositivo della sentenza impugnata ha dichiarato nulla la domanda formulata dall’attore con l’atto di citazione il che contrasta con quanto affermato nella motivazione e con quanto disposto dall’art. 164 c.p.c. in tema di nullità dell’atto di citazione.

Le dette censure – che possono essere esaminate congiuntamente per la loro evidente connessione riguardando entrambe la questione del contrasto tra dispositivo e motivazione della sentenza impugnata – sono infondate.

Al riguardo va osservato che, come è noto e come è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte, nell’ordinario giudizio di cognizione l’esatto contenuto della pronuncia va individuato non alla stregua del solo dispositivo, bensì integrando questo con la motivazione nella parte in cui la medesima rivela l’effettiva volontà del giudice. Ne consegue che, in assenza di un vero e proprio contrasto tra dispositivo e motivazione, è da ritenere prevalente la statuizione contenuta in una di tali parti del provvedimento che va, quindi, interpretato in base all’unica statuizione che, in realtà, esso contiene. La portata precettiva di una sentenza va infatti individuata con riferimento non solo al dispositivo ma anche alla motivazione: tale principio trova applicazione tutte le volte in cui il giudice abbia pronunciato una sentenza di merito (di accertamento o di condanna) il cui dispositivo, in conseguenza della indeterminatezza o incompletezza del suo contenuto precettivo, si presti ad una integrazione, dando la prevalenza alla situazione contenuta in una delle indicate parti del provvedimento da interpretare come unica statuizione (nei sensi suddetti, tra le tante, sentenze 10/12/2007 n. 25697; 29/9/2007 n. 20594; 11/7/2007 n. 15585; 8/6/2007 n. 13441).

Deve quindi ritenersi del tutto irrilevante l’imprecisione ravvisabile nella sentenza impugnata per aver la Corte di appello prima – nella parte motiva – esaminato nel merito e ritenuto infondata la domanda proposta dal M. e poi – nel dispositivo – dichiarato nulla la detta domanda.

Si tratta di un errore che non impedisce di comprendere appieno l’esatto contenuto della pronuncia con la quale il giudice di secondo grado ha escluso la sussistenza delle violazioni – denunciate dal M. – delle norme dettate in tema di distanze ed ha ritenuto non provato il danno derivante dalla violazione delle norme in tema di altezza dei fabbricati.

Dalla motivazione della sentenza impugnata si desume con assoluta chiarezza e senza possibilità di equivoci che il giudice di appello ha rigettato la domanda proposta dal M. e il fatto di aver nel dispositivo dichiarato nulla detta domanda (pur avendola ritenuta infondata nella parte motiva) non determina nullità della sentenza impugnata in considerazione dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, posto che dalla parte motiva della sentenza impugnata risulta evidente e senza ambiguità l’effettiva volontà della Corte di appello, al di là dell’evidenziata imprecisione del dispositivo.

Con il terzo motivo i ricorrenti principali denunciano violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. lamentando l’errore commesso dalla Corte di appello nel compensare le spese del doppio grado del giudizio facendo generico riferimento alla ricorrenza di "giusti motivi" non esplicitando i detti motivi che nella specie non ricorrono tenuto conto della motivazione della sentenza (di rigetto dell’appello) e del comportamento vessatorio del M..

Anche questo motivo non è meritevole di accoglimento in quanto l’esistenza della ragioni che hanno indotto il giudice di secondo grado a compensare le spese del doppio grado del giudizio emerge con evidenza dalla motivazione della sentenza impugnata e va posta in relazione con le vicende processuali e con la rilevata nullità della sentenza di primo grado per la violazione del principio del contraddittorio e ciò in accoglimento dell’eccezione al riguardo sollevata dall’appellante M., eccezione erroneamente ritenuta infondata dalla difesa degli appellati G..

Con il secondo motivo il ricorrente incidentale denuncia violazione degli artt. 354, 356, 191 e segg. c.p.c., nonchè vizi di motivazione, sostenendo che, pur volendo far rientrare la fattispecie in esame nell’ambito dell’ultimo comma dell’art. 354 c.p.c., il giudice di appello avrebbe dovuto rinnovare gli accertamenti compiuti nella pregressa fase processuale e svolgere tutte quelle attività che in conseguenza della accertata nullità erano precluse alla parte pretermessa. La Corte di merito avrebbe potuto decidere nel merito solo dopo aver ammesso esso M. a svolgere le attività che gli erano state precluse in primo grado.

Con il terzo motivo il ricorrente incidentale denuncia violazione degli artt. 356, 116, 119 e segg. c.p.c., nonchè vizi di motivazione, deducendo che al punto 4 dell’atto di appello esso M. aveva esplicitato le ragioni della richiesta di c.t.u., della inaffidabilità della c.t.u. espletata in sede penale e della contradittorietà della stessa rispetto alla documentazione prodotta. Il giudice di appello ha quindi errato nell’affermare che esso M. non aveva "neppure prospettato" dubbi sulla esattezza della misurazioni del consulente nominato nel procedimento penale. Inoltre il tribunale ha apoditticamente ritenuto intercluso il fondo dei G. e la Corte di appello non si è pronunciata su tale punto contestato con l’atto di gravame nel quale era stata segnalata la contraddittorietà della perizia in tema di distanze ed altezze.

La Corte rileva l’infondatezza delle dette censure che, per evidenti ragioni di ordine logico e per economia di motivazione e di trattazione, possono essere esaminate unitariamente per la loro stretta connessione ed interdipendenza riguardando tutte, quale più quale meno, le stesse problematiche (sia pur sotto profili diversi) e che, pur se titolate come violazione di legge e come vizi di motivazione, si risolvono essenzialmente nella prospettazione di una diversa analisi del merito della causa, inammissibile in sede di legittimità, nonchè nella pretesa di contrastare valutazioni ed apprezzamenti dei fatti e delle risultanze probatorie che sono prerogativa del giudice del merito e la cui motivazione al riguardo non è sindacabile in sede di legittimità se – come appunto nella specie – sufficiente ed esente da vizi logici e giuridici. Spetta infatti solo al giudice di merito individuare la fonte del proprio convincimento ed apprezzare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dar prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova. Nè per ottemperare all’obbligo della motivazione il giudice di merito è tenuto a prendere in esame tutte le risultanze istruttorie e a confutare ogni argomentazione prospettata dalle parti essendo sufficiente che egli indichi – come nel caso in esame – gli elementi sui quali fonda il suo convincimento e dovendosi ritenere per implicito disattesi tutti gli altri rilievi e fatti che, sebbene non specificamente menzionati, siano incompatibili con la decisione adottata. Inoltre si ha carenza di motivazione soltanto quando il giudice di merito omette di indicare nella sentenza gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza però un’approfondita disamina logico – giuridica, ma non anche nel caso di valutazione delle circostanze probatorie in senso difforme da quello preteso dalla parte.

Nella specie non sono ravvisabili nè la dedotta violazione di legge nè il lamentato difetto di motivazione: la sentenza impugnata è corretta e si sottrae alle critiche di cui è stata oggetto.

La Corte di appello è pervenuta alle conclusioni sopra riportate nella parte narrativa che precede (e dal ricorrente incidentale criticate) attraverso complete argomentazioni, improntate a retti criteri logici e giuridici – nonchè frutto di un’indagine accurata e puntuale delle risultanze di causa riportate nella decisione impugnate e relative, in particolare, alla relazione della consulenza esperita in sede penale – ed ha dato conto delle proprie valutazioni, circa i riportati accertamenti in fatto, esponendo adeguatamente le ragioni del suo convincimento.

Alle dette valutazioni il ricorrente contrappone le proprie, ma della maggiore o minore attendibilità di queste rispetto a quelle compiute dal giudice del merito non è certo consentito discutere in questa sede di legittimità, ciò comportando un nuovo autonomo esame del materiale delibato che non può avere ingresso nel giudizio di cassazione. Dalla motivazione della sentenza impugnata risulta chiaro che la Corte di merito, nel porre in evidenza gli elementi probatori favorevoli alle tesi dei G., ha implicitamente espresso una valutazione negativa delle contrapposte tesi del M..

Sono pertanto insussistenti gli asseriti vizi di motivazione e le dedotte violazioni di legge che presuppongono una ricostruzione dei fatti diversa da quella ineccepibilmente effettuata dal giudice del merito.

In definitiva, poichè resta istituzionalmente preclusa in sede di legittimità ogni possibilità di rivalutazione delle risultanze istruttorie, non può il ricorrente pretendere il riesame del merito sol perchè la valutazione delle accertate circostanze di fatto come operata dalla Corte territoriale non collima con le sue aspettative e confutazioni.

Occorre infine evidenziare che le critiche concernenti l’asserito omesso rinnovo degli accertamenti compiuti dal primo giudice e omesso svolgimento di attività istruttoria, che al M. erano state precluse in primo grado non aveva potuto svolgere, non sono meritevoli di accoglimento, oltre che per l’incidenza in ambito di apprezzamenti riservati al giudice del merito, anche per la loro genericità in ordine all’asserita erroneità in cui sarebbe incorso il giudice di appello nell’interpretare e valutare le dette risultanze istruttorie.

Le censure in esame non riportano il contenuto specifico e completo delle risultanze probatorie poste a base della decisione impugnata (essenzialmente la relazione del consulente nominato in sede penale) e non forniscono alcun dato valido per ricostruire, sia pur approssimativamente, il senso complessivo di tali risultanze, nè risultano specificate le critiche mosse a dette risultanze e le attività che il M. non aveva potuto espletare in primo grado.

Va aggiunto che, come è noto, l’ammissione di mezzi istruttori in appello è soggetta ad una valutazione discrezionale del giudice di secondo grado il quale non ha l’obbligo di ammettere i mezzi istruttori dedotti dalle parti, ma ha il potere dovere di valutarne l’ammissibilità e la rilevanza ed il relativo giudizio – come quello sulla sufficienza delle prove assunte in primo grado a decidere la causa nel merito – non deve essere necessariamente espresso, potendo desumersi per implicito dal complesso della motivazione. Per quanto riguarda poi la richiesta di ammissione di c.tu. va ribadito che la c.t.u. è mezzo istruttorio (e non una prova vera e propria) sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario giudiziario e la motivazione dell’eventuale diniego può essere censurato nel giudizio di legittimità solo se non sia stato motivato e può anche essere implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato effettuata dal suddetto giudice. Nella specie la Corte di appello ha adeguatamente spiegato il motivo per il quale ha ritenuto di non dover disporre una consulenza tecnica.

Con il quarto motivo del ricorso incidentale il M. denuncia violazione dell’art. 873 c.c. e segg. e vizi di motivazione deducendo che, al contrario di quanto affermato dalla Corte di appello, le norme che regolano la distanza nelle costruzioni – anche con riferimento all’altezza dell’opera edilizia – hanno carattere integrativo delle disposizioni del codice civile con conseguente possibilità della rimozione dell’opera.

Il motivo va disatteso in quanto frutto di una non attenta e non corretta lettura della sentenza impugnata con la quale la Corte di appello – alla luce di quanto accertato dal consulente nominato in sede penale – ha escluso la sussistenza di violazione di norme dettate in tema di distanze "sia in rapporto ai confini che ai fabbricati" ed ha ravvisato solo la violazione delle norme relative all’altezza dei fabbricati senza alcun riferimento alle distanze.

In proposito è appena il caso di segnalare che sono da ritenere integrative delle norme del codice civile solo le disposizioni relative alla determinazione della distanza fra i fabbricati in rapporto all’altezza e che regolino con qualsiasi criterio o modalità (quali la previsione di spazi liberi o il rapporto tra altezza e distanza tra edifici), la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni: in tal caso le distanze legali sono calcolate con riferimento all’altezza dei fabbricati. Le norme che invece disciplinano solo l’altezza in sè degli edifici, a differenza di quelle che invece impongono l’altezza dei fabbricati in rapporto alla distanza intercorrente tra gli stessi, tutelano, oltre che l’interesse pubblico di ordine igienico ed estetico, esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini, per il che comportano, in caso di loro violazione, il solo risarcimento dei danni.

Pertanto, nell’ambito delle norme dei regolamenti locali edilizi, hanno carattere integrativo delle disposizioni dettate nelle materie disciplinate dagli artt. 873 c.c. e segg. quelle dirette a completare, rafforzare, armonizzare con il pubblico interesse di un ordinato assetto urbanistico la disciplina dei rapporti intersoggettivi di vicinato. Non rivestono invece tale carattere le norme che hanno come scopo principale la tutela di interessi generali urbanistici, quali la limitazione del volume, dell’altezza e della densità degli edifici, le esigenze dell’igiene, della viabilità, la conservazione dell’ambiente ed altro. In questa seconda ipotesi (che è quella che ricorre nel caso in esame tenuto conto che il giudice del merito ha in fatto accertato solo la violazione delle norme in tema di altezza e non di distanza) la tutela accordata al privato nel caso di violazione della norma rimane limitata al risarcimento del danno eventualmente subito. In base agli enunciati principi deve ritenersi corretta – al contrario di quanto sostenuto dal M. con il motivo in esame -la decisione della Corte di appello di far discendere dalla violazione delle norme dettate in tema di altezza (unica violazione accertata) solo la pretesa risarcitoria e non quella ripristinatoria.

Devono pertanto essere rigettati sia il ricorso principale che quello incidentale.

La soccombenza reciproca giustifica la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

LA CORTE Riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Redazione