Corte di Cassazione Civile sez. I 8/7/2009 n. 16086; Pres. Salmè G.

Redazione 08/07/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

M.M.C. adiva la Corte d’appello di Roma, allo scopo di ottenere l’equa riparazione ex L. n. 89 del 2001 in riferimento al giudizio promosso innanzi al T.a.r. per il Lazio, avente ad oggetto il riconoscimento del diritto ad ottenere l’accertamento del diritto all’adeguamento triennale (L. n. 27 del 1981), dell’indennità giudiziaria percepita ai sensi della L. n. 221 del 1988, proposto nell’aprile 1993, definito con sentenza del 20.4.04.

La Corte d’appello, con decreto del 10.11.2005, fissata la durata ragionevole del giudizio in anni quattro, ritenuto violato detto termine per anni sette, liquidava per il danno non patrimoniale Euro 700,00 per ciascun anno di ritardo, quindi, complessivi Euro 4.900,00 (tenuto conto del ritardo complessivamente considerato e della misura in cui l’attesa non ragionevole ha potuto produrre il danno), oltre interessi legali dalla data del decreto, condannando la Presidenza del Consiglio dei ministri a pagare le spese del giudizio.

Per la cassazione di questo decreto ha proposto ricorso M.M. C., affidato a due motivi; non ha svolto attività difensiva la Presidenza del Consiglio dei ministri.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione di legge (L. n. 89 del 2001, art. 2; artt. 6, 13 e 41 CEDU; artt. 1226 e 2056 c.c.), nonchè omessa, insufficiente, illogica e/o contraddittoria motivazione, e pone le seguenti questioni:

il decreto avrebbe erroneamente fissato la durata ragionevole del giudizio in anni quattro, discostandosi dal parametro stabilito dalla Corte EDU, senza motivare adeguatamente, affidando la conclusione ad affermazioni apodittiche, non argomentate avendo riguardo agli elementi della fattispecie, tenuto conto che occorreva soltanto decidere questioni di diritto, mentre la considerazione che si trattava di controversia di lavoro avrebbe imposto una maggiore sollecitudine;

nella liquidazione del danno non patrimoniale, la Corte EDU, le cui pronunce sono vincolanti per il giudice nazionale, avrebbe liquidato in cause analoghe a quella in esame somme maggiori, anche in quanto le cause di lavoro sarebbero di per sè di particolare importanza;

gli interessi sarebbero stati malamente attribuiti a far data dalla pronuncia del decreto.

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione di legge (artt. 90 e 91 c.p.c., D.M. n. 127 del 2004, artt. 4 e 5; art. 2233 c.c.) e delle tariffe professionali, nella parte in cui il decreto ha liquidato le spese del giudizio, senza distinguere gli importi ed in violazione dei minimi di tariffa (il ricorso riporta le singole voci asseritamente spettanti in riferimento all’attività svolta ed allo scaglione applicabile).

2.- Il primo motivo è manifestamente fondato, nei limiti ed entro i termini di seguito precisati.

Relativamente alla durata del giudizio, vanno ribaditi i seguenti principi, consolidati nella giurisprudenza di questa Corte:

la nozione di ragionevole durata del processo ha carattere relativo ed è condizionata da circostanze strettamente legate alla singola fattispecie, che impediscono di fissarla facendo riferimento a cadenze temporali rigide, come è dato evincere dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, (tra le molte, Cass. n. 4572 del 2009; n. 8497 del 2008) e in tal senso è orientata anche la Corte EDU, che pure privilegia una valutazione "caso per caso" (tra le tante, sentenza 1^ sezione del 23 ottobre 2003, sul ricorso n. 39758/98), benchè abbia stabilito un parametro tendenziale della durata ragionevole del giudizio di anni tre, due ed uno per il giudizio di primo, di secondo grado e di legittimità;

dal parametro del giudice europeo è possibile discostarsi, ma soltanto in misura ragionevole, sempre che la relativa conclusione sia adeguatamente motivata, restando escluso che i criteri indicati nell’art. 2, comma 1, di detta legge permettano di sterilizzare del tutto la rilevanza del lungo protrarsi del processo (Cass., Sez. un., n. 1338 del 2004; in seguito, tra le molte, Cass. n. 3928 del 2009; n. 8497 del 2008);

in riferimento al processo del lavoro, due recenti pronunce del giudice europeo hanno affermato la violazione del termine di ragionevole durata, senza valorizzare la natura del giudizio (sentenze 18 dicembre 2007, sul ricorso n. 20191/03, in riferimento ad un giudizio in materia di lavoro durato in primo grado più di quattro anni e cinque mesi; 5 luglio 2007, sul ricorso n. 64888/01, in relazione ad un giudizio della stessa natura, durato più di sette anni e due mesi); quindi, la natura del processo non comporta, da sola, la possibilità di stabilire un termine di durata rigido, così come la violazione del principio della ragionevole durata del processo non può discendere in modo automatico dalla accertata inosservanza dei termini processuali, dovendo in ogni caso il giudice della riparazione procedere a tale valutazione alla luce degli elementi previsti dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 (Cass., 19352 del 2005; n. 6856 del 2004);

la precettività, per il giudice nazionale, non concerne anche il profilo relativo al moltiplicatore della base di calcolo: per il giudice nazionale è vincolante la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole, non incidendo questa diversità di calcolo sulla complessiva attitudine della citata L. n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo (Cass. n. 11566 del 2008; n. 1354 del 2008; n. 23844 del 2007);

dal carattere indennitario dell’obbligazione in esame discende che gli interessi legali decorrono dalla data della domanda di equa riparazione, in base alla regola che gli effetti della pronuncia retroagiscono alla data della domanda, nonostante il carattere di incertezza e illiquidità del credito prima della pronuncia giudiziaria (Cass. n. 8712 del 2006; n. 7389 del 2005; n. 1405 del 2004).

Relativamente alla misura dell’indennizzo per il danno non patrimoniale, va data continuità alla giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale:

i criteri di determinazione del quantum della riparazione del danno non patrimoniale applicati dalla Corte europea non possono essere ignorati dal giudice nazionale, quindi occorre osservare il parametro oscillante da Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 per anno di ritardo, con la facoltà di apportare a questo le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (quali: l’entità della "posta in gioco", il "numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento" ed il comportamento della parte istante), purchè motivate e non irragionevoli (per tutte, Cass. n. 30565, n. 30564 e n. 6898 del 2008, n. 1630 e n. 1631 del 2006);

la circostanza che la controversia ha ad oggetto la materia del lavoro non implica alcun automatismo, al fine del riconoscimento di un indennizzo più elevato, dovendo la stessa costituire oggetto di valutazione unitamente agli altri elementi sopra indicati (Cass. n. 18012 del 2008).

In particolare, questa Corte ritiene che, in riferimento al parametro concernente la misura del risarcimento, una serie di sentenze della Grande Camera della Corte EDU del 29 marzo 2006 (rese sui ricorsi n. 64699/01, n. 64705/01, n. 64886/01, n. 64890/01, n. 64897/01, n. 65075/01), confortino il suindicato orientamento, imponendo anzi una rinnovata riflessione in ordine al limite minimo inderogabile.

In primo luogo, va osservato che il giudice europeo ha sottolineato che, "quando uno Stato ha compiuto un passo significativo introducendo un rimedio risarcitorio, la Corte deve lasciare allo Stato un margine di valutazione più ampio per consentirgli di organizzare il rimedio in un modo coerente con il proprio ordinamento giuridico e con le proprie tradizioni, e conforme al tenore di vita nel paese interessato", così che "sarà più facile per i giudici nazionali far riferimento agli importi concessi a livello interno per altri tipi di danno – ad esempio, lesione personale, danno derivante dal decesso di un familiare o danno per diffamazione – e basarsi sul proprio intimo convincimento, anche se ciò si traduce in concessioni di importi inferiori rispetto a quelli fissati dalla Corte in casi simili" (in particolare, p. 78, sentenza 29 marzo 2006, sul ricorso 64890/01). La Corte EDU ha, quindi, riconosciuto che gli importi concessi dal giudice nazionale possono essere inferiori a quelli da essa liquidati, purchè non irragionevoli, "a condizione che le decisioni pertinenti" siano "coerenti con la tradizione giuridica e con il tenore di vita del paese interessato" (così p. 95, sentenza 29 marzo 2006, sul ricorso 64890/01, ma analogamente le altre pronunce), evidenziando, peraltro, "l’impossibilità e l’impraticabilità del tentativo di fornire un elenco di spiegazioni dettagliate che comprenda ogni eventualità", al fine di enunciare criteri certi ed applicabili automaticamente per la liquidazione dell’indennizzo (p. 136, sentenza 29 marzo 2006, sul ricorso n. 64705/01).

In secondo luogo, la Corte EDU ha altresì rimarcato come "vi sia una forte ma confutabile presunzione che un procedimento eccessivamente lungo causi un danno non patrimoniale", ammettendo nondimeno "che, in alcuni casi, la durata del procedimento possa causare solo un minimo danno non patrimoniale o anche nessun danno non patrimoniale" (p. 93, sentenza 29 marzo 2006, sul ricorso 64890/01 e le altre sentenze sopra richiamate), mentre è certo che l’esigua entità della posta in gioco può avere "un effetto riduttivo dell’entità dell’indennizzo", sebbene non totalmente esclusivo dello stesso (p. 6, sentenza 29 marzo 2006, sul ricorso n. 64705/01).

In terzo luogo, la Corte di Strasburgo ha osservato che è anche irrilevante la circostanza che il metodo di computo previsto dal diritto interno non corrisponda esattamente ai criteri da essa stabiliti, qualora consenta "di concedere importi che non siano irragionevoli" (p. 104, sentenza 29 marzo 2006, sul ricorso n. 64705/01); infine, in una serie di casi nei quali il risarcimento riconosciuto dal giudice italiano era inferiore alla somma che essa avrebbe riconosciuto, ha concesso una ulteriore somma, ma sino ad una soglia pari a circa il 45% del risarcimento che essa avrebbe attribuito (sentenze 29 marzo 2006, sul ricorso 64890/01, nonchè sul ricorso n. 62361/00, n. 64705 del 2001).

La più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo rende quindi possibile affermare che, ferma la presunzione di sussistenza del danno non patrimoniale – salvo che non ricorrano circostanze che permettano di escluderlo -, qualora la parte non abbia allegato, comunque non emergano, elementi concreti in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza di detto danno (costituiti, tra gli altri, dal valore della controversia, dalla natura della medesima, da apprezzare in riferimento alla situazione economico-patrimoniale dell’istante, dalla durata del ritardo, dalle aspettative desumibili anche dalla probabilità di accoglimento della domanda), l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa, alla luce delle quantificazioni operate dal giudice nazionale nel caso di lesione di diritti diversi da quello in esame, imponga una quantificazione che, nell’osservanza della giurisprudenza della Corte EDU, deve essere, di regola, non inferiore ad Euro 750,00, per anno di ritardo. La fissazione di detta soglia si impone, alla luce delle sentenze sopra richiamate del giudice europeo, in quanto occorre tenere conto del criterio di computo adottato da detta Corte (riferito all’intera durata del giudizio) e di quello stabilito dalla L. n. 89 del 2001, (che ha riguardo soltanto agli anni eccedenti il termine di ragionevole durata), nonchè dell’esigenza di offrire di quest’ultima un’interpretazione idonea a garantire che la diversità di calcolo non incida negativamente sulla complessiva attitudine di detta L. n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, evitando il possibile profilarsi di un contrasto della medesima con la norma della CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo.

In applicazione di siffatti principi le censure sono manifestamente fondate nella parte in cui il decreto ha fissato la ragionevole durata in anni quattro, senza esplicitare le ragioni del discostamento dal parametro della Corte di Strasburgo, in difformità da quanto sopra precisato in ordine ai termini ed ai modi entro i quali può ritenersi rilevate tale elemento.

Inoltre, sono manifestamente fondate le censure, nella parte in cui il decreto ha liquidato per il periodo eccedente il termine ritenuto ragionevole la somma di Euro 700,00 per anno di ritardo, con la motivazione riportata supra nella narrativa, evidentemente insufficiente a fondare un discostamento in misura non ragionevole dal parametro fissato dal giudice europeo, erroneamente attribuendo gli interessi dalla data del decreto.

In relazione alle censure accolte, il decreto deve essere cassato – con conseguente assorbimento del secondo motivo, dovendo comunque essere effettuata la riliquidazione delle spese del giudizio – e la causa può essere decisa nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto.

Pertanto, in applicazione degli standard minimi della Corte EDU – che nessun argomento del ricorso impone e consente di derogare in melius, sia in ordine al termine triennale di durata ragionevole del giudizio di primo grado, sia in riferimento alla quantificazione dell’indennizzo per il danno non patrimoniale – individuato nella somma di Euro 750,00 per ciascun anno di ritardo il parametro di indennizzo del danno non patrimoniale (alla luce delle argomentazioni svolte all’esito della ricognizione della più recente giurisprudenza del giudice europeo e delle considerazioni sopra svolte sul punto), va riconosciuta all’istante la somma di Euro 6.000,00, in relazione agli anni eccedenti il triennio (anni 8: la durata è stata di anni 11, dalla quale vanno detratti anni tre), oltre interessi legali dalla domanda al saldo.

Le spese, liquidate come in dispositivo, vanno poste a carico della soccombente (distratte in favore del difensore, per dichiarazione di anticipo) quanto al giudizio di merito e per la metà quanto alla presente fase, dichiarando compensata la residua parte, sussistendo giusti motivi, in considerazione delle natura e del contenuto delle questioni controverse.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso per quanto di ragione, nei termini precisati in motivazione – assorbito il secondo -, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna la Presidenza del Consiglio dei ministri a corrispondere alla ricorrente la somma di Euro 6.000,00 oltre interessi legali dalla domanda al saldo ed oltre alle spese processuali – per la metà, quanto alla presente fase, compensandosi la restante parte – distratte in favore dell’avv. ************************ e liquidate, quanto al giudizio di merito, in Euro 1.057,00 (di cui Euro 512,00 per diritti ed Euro 450,00 per onorari) e, quanto al giudizio di legittimità in Euro 450,00, di cui Euro 50,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Redazione