Corte di Cassazione Civile sez. I 31/12/2009 n. 28318; Pres. Salmè G.

Redazione 31/12/09
Scarica PDF Stampa
RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO

1.- La relazione depositata ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è del seguente tenore:

"Il consigliere relatore, letti gli atti.

Ritenuto in fatto:

A.R. impugna per cassazione, formulando due motivi, il decreto della Corte di appello di Torino con il quale è stata respinta la sua domanda di equa riparazione per irragionevole durata di una procedura fallimentare nella quale si era insinuato per credito di lavoro il (omissis) con soddisfazione integrale del credito il (omissis).

Denuncia violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, e dell’art. 6 CEDU formulando i seguenti quesiti:

In relazione al primo motivo: Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se il Giudice debba o meno conformarsi alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo citata, in base agli obblighi internazionali assunti dall’Italia, o – come ritiene la Corte d’Appello adita – serva solo da orientamento ed indirizzo, potendo il Giudice discostarsene, anche per la valutazione dei danni ex art. 2056 c.c., richiamato dalla L. n. 89 del 2001, art. 2. comma 3.

In relazione al secondo motivo: Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se la durata del processo per l’odierno ricorrente non debba essere calcolata tenendo conto del lasso di tempo trascorso tra la data di insinuazione al passivo ((omissis)) fino alla integrale soddisfazione del credito da lavoro ((omissis)), restando l’irragionevolezza della durata del procedimento esclusa dai parziali pagamenti intermedi, in modo difforme da quanto statuito dalla giurisprudenza emessa nei casi analoghi dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Il Ministero della Giustizia resiste con controricorso.

Considerato in diritto:

Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Infatti, il ricorrente non formula alcuna specifica censura nei confronti del decreto impugnato nella parte in cui, con motivazione congrua e logica, ha escluso l’irragionevole durata della procedura e l’imputabilità di ritardi agli organi del fallimento, evidenziando la complessità delle attività di accertamento del passivo e di acquisizione e liquidazione dell’attivo nonchè la scrupolosa osservanza dell’obbligo dei riparti parziali (quattro), con versamento di interessi e rivalutazione monetaria, trattandosi di credito di lavoratore subordinato, con corresponsione, dopo meno di un anno dall’inizio della procedura, del 50% del credito ammesso al passivo.

Da ciò consegue che i quesiti formulati dal ricorrente assumono mero valore "retorico" e le violazioni di legge denunciate appaiono del tutto disancorate dal contesto della decisione impugnata.

Invero, nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinchè si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, in toto o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano. Ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perchè il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato (Sez. U, Sentenza n. 16602 del 08/08/2005).

Per questi motivi ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 1, e art. 380 bis c.p.c.". 2. – Il Collegio – alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza più recente e tenuto conto della memoria del 20.10.2009 – non ritiene di poter condividere le conclusioni della relazione.

Con una recente pronuncia, invero, (Sez. 1^, 3.6.2009) pubblicata successivamente al deposito della relazione, questa Corte ha ritenuto che i criteri ed il parametro elaborati per i giudizi ordinari di cognizione, ovvero per il processo di esecuzione singolare, non sono meccanicamente estensibili alla procedura fallimentare. Secondo il più recente orientamento di questa Corte, occorre infatti tenere conto che questa è caratterizzata, di regola, da una peculiare complessità in considerazione sia della presenza – nella maggioranza dei casi – di una pluralità di creditori, sia della necessità di un numero di adempimenti non semplici (relativi all’accertamento dei crediti, alla individuazione e definizione dei rapporti in corso, al recupero dei crediti, alla ricostruzione dell’attivo, alla liquidazione), stabiliti proprio al fine e nel tentativo di realizzare al meglio i diritti dei creditori (Cass. n. 2195 del 2009; n. 8497 del 2008). Dunque, la ragionevolezza impone che, nell’interesse anzitutto dei creditori, una siffatta complessa attività possa e debba essere svolta senza il rischio che un incongruo termine giustifichi e legittimi valutazioni giuridiche superficiali, sino a far privilegiare le soluzioni più rapide, eventualmente anche in danno della massa dei creditori.

Nel fissare il termine di ragionevole durata, nella valutazione della complessità della vicenda processuale, deve quindi tenersi conto delle fasi strumentali alla definizione dei rapporti e della liquidazione dei beni, rilevanti in quanto incidenti sulla complessità del caso, ferma restando la necessità di estendere il sindacato anche alla durata di dette cause, ed alle ragioni delle medesime, avuto riguardo alla loro obiettiva difficoltà ed alla mole dei necessari incombenti (Cass. n. 10074 del 2008; n. 20040 del 2006; n. 29285 del 2005; n. 20275 del 2005), restando escluso che siano ascrivibili a disfunzioni dell’apparato giudiziario tutti i tempi occorsi per l’espletamento delle attività processuali correlate a valutazioni e determinazioni assunte dal giudice nella conduzione di detta procedura, non sindacabili nel giudizio di equa riparazione (Cass. n. 2248 del 2007).

Pertanto, la durata ragionevole del fallimento, all’evidenza, non è suscettibile di essere predeterminata ricorrendo allo stesso standard previsto per il processo ordinario, in quanto ciò è impedito dalla constatazione che il fallimento "è, esso stesso, un contenitore di processi", con la conseguenza che la durata ragionevole stimata in tre anni può essere tenuta ferma solo nel caso di fallimento con unico creditore, o comunque con ceto creditorio limitato, senza profili contenziosi traducentisi in processi autonomi (Cass. n. 2195 del 2009).

Nel fissare il termine di ragionevole durata, occorre avere riguardo alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, considerando che detto giudice privilegia una valutazione "caso per caso", che non rende agevole individuare un termine fisso (in relazione al giudizio civile ordinario è, quindi, possibile desumere soltanto in linea tendenziale che il termine di ragionevole durata è di tre anni). Relativamente alle procedure fallimentari, il giudice Europeo ha, quindi, ritenuto vulnerato detto termine in casi nei quali la violazione eccedeva in larga misura il limite di tre anni (in particolare, la durata era stata di: 15 anni, Seconda Sezione, sentenza del 10/6/2009, ricorso 6480/03; 19 anni, Seconda Sezione, sentenza dell’8/6/2009, ricorso 24824/03; 16 anni, Seconda Sezione, sentenza dell’8/6/2009, ricorso 13606/04; venti anni e sette mesi, sentenza del 18/12/2 007, Seconda Sezione, ricorso 14448/03; ventitrè anni e tre mesi, sentenza del 3/07/2007, Seconda Sezione, ricorso 10347/02; 14 anni ed otto mesi, sentenza del 17/07/2003, Prima Sezione, ricorso 56298/00), nondimeno ha anche avuto cura di ribadire che occorre trovare un corretto equilibrio tra i differenti interessi in conflitto, affermando, in riferimento al soggetto sottoposto a procedura concorsuale, sia pure a fini in parte diversi, che talune limitazioni che lo riguardano non possono comunque eccedere i cinque anni (sentenza del 23/10/2007, Seconda Sezione, ricorso 4733/04; sentenza del 20/09/2007, Seconda Sezione, ricorso 39638/04).

Peraltro, difformemente dalla decisione del 3.6.2009, innanzi richiamata, correggendo un’evidente errore materiale in essa contenuto (che indica in cinque anni lo standard di durata della procedura fallimentare), va conclusivamente affermato che alla luce dell’orientamento sopra riportato e degli elementi dianzi sintetizzati concernenti la procedura fallimentare, qualora non emergano elementi a conforto della particolare semplicità della medesima, può quindi identificarsi, in linea tendenziale, in anni sette il termine di ragionevole durata, entro il quale essa dovrebbe essere definita. Ciò tenuto conto della ragionevole durata per tre gradi di giudizio (sei anni) dei procedimenti incidentali nascenti dal fallimento nonchè dell’ulteriore termine necessario per il riparto dell’attivo (un anno).

Ebbene, nel caso qui in esame il ricorrente è stato ammesso al passivo del fallimento il (omissis) con soddisfazione integrale del credito il (omissis), con la conseguenza che, in applicazione del parametro sopra indicato, in difetto della deduzione dell’inesistenza di una molteplicità di creditori, ovvero dell’insussistenza della necessità degli adempimenti ordinariamente imprescindibili in una procedura di ordinaria e media complessità, avrebbe dovuto essere completata entro il (omissis), sicchè sussiste una violazione di circa anni quattro.

In applicazione dello standard minimo CEDU, che nessun argomento del ricorso impone e consente di derogare in melius e che anzi gli elementi acquisiti impongono di fissare nel parametro di Euro 750,00 tenuto conto della estrema esiguità della sposta in giocò (il credito è stato soddisfatto al 50% già dopo un anno dall’inizio della procedura), tale da imporre di ritenere che lo stress subito si è attestato alla soglia minima, ragionevolmente ipotizzabile, va riconosciuta all’istante la somma di Euro 3.250,00, in relazione agli anni eccedenti i sette anni, oltre interessi legali dalla domanda al saldo.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, nei termini precisati in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della giustizia a corrispondere al ricorrente la somma di Euro 3.250,00 oltre interessi legali dalla domanda e le spese del giudizio che determina per il giudizio di merito, nella somma di Euro 50,00 per esborsi, Euro 378,00 per diritti ed Euro 445,00 per onorari oltre spese generali ed accessori di legge e, per il giudizio di legittimità in Euro 665,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Redazione