Corte di Cassazione Civile sez. I 23/1/2009 n. 1742; Pres. Plenteda D.

Redazione 23/01/09
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Bologna ha confermato la condanna della Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. al pagamento in favore del Fallimento ****************** s.r.l. della somma di L. 307.110.860, così accogliendo l’azione revocatoria *******. ex art. 67, comma 1, n. 3, proposta dalla curatela per la dichiarazione di inefficacia dell’atto costitutivo del pegno di un certificato di credito. Con la medesima sentenza, e in parziale riforma della decisione di primo grado, la corte bolognese ha condannato la stessa banca al pagamento in favore della curatela della ulteriore somma di L. 560.609.952, così accogliendone per un minor importo l’azione revocatoria *******. ex art. 67, comma 2, delle rimesse effettuate sul conto corrente della ****************** s.r.l. nell’anno precedente il fallimento, dichiarato il (OMISSIS). Hanno ritenuto i Giudici del merito:

a) il pegno costituito il 9 gennaio 1995 aveva natura regolare, avendo a oggetto un titolo di credito specificamente individuato, senza riconoscimento alla banca della facoltà di disporne; sicchè la curatela aveva interesse a ottenerne la revoca, perchè la banca non era legittimata a compensare il proprio debito di restituzione dell’importo dei titoli e di corresponsione dei relativi interessi con il credito per lo scoperto di conto corrente della società poi fallita;

b) quando intervengano a estinguere esposizioni in conto corrente eccedenti gli eventuali affidamenti di cui abbia usufruito l’imprenditore poi fallito, sono revocabili a norma della *******. art. 67, sia le rimesse effettuate da terzi mediante bonifici sia le rimesse effettuate dal correntista mediante il versamento di assegni emessi in suo favore da terzi; come sono revocabili, in mancanza di un patto di compensazione, gli accrediti di ricevute bancarie, sebbene debba farsi riferimento solo all’accredito definitivo, senza cumularlo con la sua anticipazione provvisoria, come aveva fatto il tribunale;

c) la banca era consapevole dello stato di dissesto della ****************** s.r.l. fin dal momento della costituzione del pegno, in data 9 gennaio 1995, in quanto il certificato di deposito che ne fu oggetto venne acquistato dalla ******* con la somma erogatale in adempimento di un mutuo ipotecario appositamente stipulato, con un’operazione congegnata allo scopo di accrescere le garanzie della banca per le ingenti esposizioni della sua cliente, i cui affidamenti, ampliati contestualmente alla costituzione del pegno, furono poi revocati parzialmente il 9 novembre 1995 e integralmente il 17 gennaio 1996.

Contro questa decisione ricorre ora per cassazione la Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. e propone otto motivi d’impugnazione, illustrati anche da memoria, cui resiste con controricorso il Fallimento ****************** s.r.l..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Va preliminarmente rilevata l’infondatezza dell’eccezione proposta dalla resistente, di inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione del rappresentate che conferì il mandato a ricorrere.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, invero, "in tema di rappresentanza processuale, il principio per cui la persona fisica che riveste la qualità di organo della persona giuridica non ha l’onere di dimostrare tale veste, spettando invece alla parte che ne contesta la sussistenza l’onere di formulare tempestiva eccezione e fornire la relativa prova negativa si applica anche al caso in cui la persona giuridica si sia costituita in giudizio per mezzo di persona diversa dal legale rappresentante, se tale potestà deriva dall’atto costitutivo o dallo statuto" (Cass., sez. 1^, 13 settembre 2007, n. 19162, m. 599009).

Incombeva pertanto alla resistente provare che il potere di rappresentanza del direttore della banca ricorrente non era previsto dallo statuto.

2. Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione dell’art. 112 c.p.c..

Sostiene di aver dedotto di essere legittimata alla compensazione sin dal rilascio del certificato di deposito al suo debitore il 7 novembre 1994, indipendentemente dalla successiva costituzione del pegno in data 9 gennaio 1995. E lamenta che i Giudici del merito, esclusa la natura irregolare del pegno, abbiano tuttavia omesso di pronunciarsi sulla conseguente dedotta mancanza di un qualsiasi danno per la procedura concorsuale; e quindi sulla mancanza di un presupposto dell’azione revocatoria esercitata dal fallimento.

Il motivo è manifestamente infondato.

Deve escludersi innanzitutto che vi sia il dedotto difetto di pronuncia da parte della corte d’appello. Infatti un obbligo di pronuncia deriva dalle domande e dalle eccezioni con le quali le parti postulano gli effetti giuridici che assumono siano previsti dalla legge per i fatti allegati. Sicchè un obbligo di pronuncia deriva da ciascun motivo d’appello; e risulta violato se il giudice d’appello ometta di decidere su uno dei motivi di impugnazione (Cass., sez. 5^, 23 gennaio 2004, n. 1170, m. 569606, Cass., sez. 2^, 7 luglio 2004, n. 12475, m. 574268). Non deriva invece alcun obbligo specifico di pronuncia dalle difese con le quali uria parte si limiti a negare l’esistenza dei fatti allegati come costitutivi dell’effetto giuridico postulato dalla controparte, senza allegare a sua volta fatti postulati come impeditivi o modificativi o estintivi di quell’effetto ovvero senza postulare un effetto giuridico incompatibile con quello che intende negare. E nel caso in esame la stessa resistente riconosce di avere dedotto solo l’inesistenza dell’eventus damni, che considera quale fatto costitutivo dell’azione revocatoria fallimentare. Sicchè la mancata considerazione di tale deduzione da parte dei Giudici del merito potrebbe rilevare come vizio della motivazione, non come omissione di pronuncia.

La questione non rileva peraltro neppure ai fini della completezza della motivazione esibita dai giudici del merito. E’ infatti priva di giustificazione la deduzione della ricorrente circa la sua legittimazione a compensare il proprio debito di depositarla con i crediti vantati verso la *******. Mentre, secondo la giurisprudenza di questa Corte, "in tema di revocatoria fallimentare, la legge in nessun caso richiede l’accertamento di un’effettiva incidenza dell’atto che ne è oggetto sulla "par condicio creditorum", sicchè è evidente che la funzione dell’azione revocatoria fallimentare è esclusivamente quella di ricondurre al concorso chi se ne sia sottratto, e ciò esclude anche che un’effettiva lesione della "par condicio creditorum" possa assumere rilevanza sotto il profilo dell’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), essendo evidente che l’interesse del curatore ad agire ha natura procedimentale, in quanto inteso ad attuare il pari concorso dei creditori, e va accertato con riferimento al momento della proposizione della domanda, perchè si fonda sul già dichiarato stato di insolvenza del debitore, non sui prevedibili esiti della procedura concorsuale, mentre potrebbe assumere rilevanza solo l’eventuale impossibilità di qualificare come "bene" la cosa oggetto dell’azione" (Cass. sez. 1^, 1 settembre 2004, n. 17524, m. 576574, Cass., sez. un., 28 marzo 2006, n. 7028, m. 591009).

3. Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione della *******. art. 67, lamentando che erroneamente i Giudici del merito abbiano considerato revocabili le rimesse in conto corrente derivanti da ordini di bonifico impartiti da terzi, in esecuzione dei quali la banca ha accreditato le somme in favore della cliente poi fallita.

Sostiene che il bonifico è una delegazione di pagamento dalla cui accettazione deriva per la banca un autonomo debito nei confronti del correntista beneficiario, la cui estinzione può avvenire anche mediante compensazione con il credito vantato dalla banca per lo scoperto di conto corrente. Non necessariamente l’esecuzione del bonifico da parte della banca delegata costituisce adempimento di un generico mandato a riscuotere conferitole dal correntista; può anche costituire, come nel caso in esame, adempimento dell’autonoma obbligazione assunta nei confronti del proprio correntista dalla banca che abbia accettato la delegazione del terzo. Ma anche quando si trattasse dell’esecuzione di un mandato a riscuotere conferito alla banca dal suo cliente, non si avrebbe mai un pagamento, ma pur sempre una compensazione tra il credito della banca e il credito ex mandato del correntista. Infatti è pur sempre una compensazione che determina l’estinzione di contrapposte ragioni di credito, anche se derivanti da un unico rapporto. E comunque l’estinzione del credito della banca per lo scoperto di conto corrente deriverebbe in ogni caso da fatto diverso dall’adempimento e risulterebbe perciò egualmente irrevocabile.

Se ciò nondimeno si dovesse ritenere che l’estinzione del credito della banca sia conseguito a un pagamento, dovrebbe convenirsi comunque che si tratti del pagamento di un terzo, non revocabile quando comporti solo la sostituzione di un creditore ad un altro.

Il motivo è infondato.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, quando accetta la delegazione di pagamento conferitale da un terzo con un bonifico, la banca si obbliga all’esecuzione nei confronti del solo delegante, non assume alcuna autonoma obbligazione nei confronti del correntista beneficiario (Cass. sez. 1^, 28 febbraio 2007, n. 4762, m. 594997).

Il successivo accreditamento del bonifico sul conto corrente del beneficiario avviene invece in ragione di un distinto mandato generico a gestire il servizio cassa, conferito dal correntista alla banca, e prescinde dalla natura e dall’origine della provvista.

Sicchè neppure da questo mandato deriva un’autonoma e specifica obbligazione della banca nei confronti del suo cliente per ciascuna rimessa (Cass. sez. 1, 19 gennaio 2006, n. 1060, m. 585948), perchè, secondo quanto prevedono l’art. 1823 c.c., comma 1, e art. 1852 c.c., il contratto di conto corrente obbliga le parti solo all’annotazione dei crediti derivanti dalle reciproche rimesse.

E’ dunque il rapporto di conto corrente a unificare tutte le ragioni di reciproco credito delle parti, escludendo che possano essere considerate come effetto di successive compensazioni le riduzioni o gli accrescimenti del credito disponibile per il correntista (Cass. sez. 1^, 1 luglio 2008, n. 17954, m. 604035).

L’art. 1853 c.c., ammette la possibilità di una compensazione, salvo patto contrario, solo tra i saldi attivi e passivi della pluralità di conti eventualmente esistenti tra la banca e il correntista. Ma il saldo di ciascun conto è solo il risultato delle annotazioni delle singole poste attive e passive di un rapporto unitario.

Le modificazioni dello disponibilità del conto conseguenti alle diverse rimesse e alla gestione del servizio cassa da parte della banca non sono quindi il risultato di pagamenti nè tanto meno di compensazioni. Tanto che si esclude la revocabilità delle rimesse meramente ripristinatorie della disponibilità del correntista: sia quando si tratti di rimessa destinata a costituire o incrementare un deposito dello stesso correntista; sia quando si tratti di rimessa destinata a ridurre l’importo del credito anticipatogli dalla banca.

Di pagamento può parlarsi solo quando il conto sia scoperto per carenza di depositi ovvero, essendo il conto assistito da un’apertura di credito, il correntista ne abbia superato i limiti. In questo caso infatti, secondo la ricostruzione consolidata di questa Corte, la rimessa del correntista non può essere considerata solo come una posta del rapporto di conto corrente, ma costituisce appunto il pagamento di un autonomo debito del correntista. E la rimessa è revocabile, come pagamento eseguito dal correntista, quale che ne sia l’origine, anche se provenga dal bonifico di un terzo (Cass., sez. 1^, 28 giugno 2002, n. 9494, m. 555458).

4. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione della *******. art. 67, lamentando che erroneamente i Giudici del merito abbiano considerato revocabili le rimesse in conto corrente derivanti da versamenti di assegni emessi da terzi. Sostiene che la girata di tali assegni conferisce alla banca un mandato a riscuotere, con la contestuale iscrizione di un debito della banca condizionalmente sospeso all’effettiva riscossione del titolo. Sicchè anche in questi casi l’eventuale successiva estinzione dei crediti vantati dalla banca verso il correntista deriva dalla compensazione del suo debito ex mandato. Ma i Giudici del merito hanno negato la configurabilità della compensazione sol perchè hanno erroneamente ritenuto che presupponga l’autonomia delle obbligazioni.

Il motivo è infondato.

Il versamento sul conto corrente di un assegno bancario emesso da terzi comporta l’iscrizione del suo importo a credito del correntista, salvo effettivo incasso del titolo; ma l’effettiva disponibilità per il correntista si realizza, non alla data del versamento, ma soltanto nel momento in cui l’ammontare degli assegni entra in concreto sul conto (Cass. sez. 1^, 6 dicembre 2006, n. 26171, m. 593427). La banca riceve quindi l’assegno nell’ambito del mandato per il servizio di cassa; e non assume alcuna altra specifica obbligazione, che possa essere compensata con suoi eventuali crediti verso il correntista. Anche il versamento di un assegno emesso da terzi è infatti una rimessa nel senso di cui agli artt. 1823 e 1852 c.c.; e secondo quanto prevedono gli artt. 1829 e 1857 c.c., la sua annotazione nel conto corrente ne rende disponibile l’importo per il correntista solo al momento dell’effettivo incasso.

5. Con il quarto motivo la ricorrente deduce violazione della *******., art. 67, lamentando che erroneamente i Giudici del merito abbiano considerato revocabili gli accrediti in conto corrente degli interessi maturati sul certificato di deposito costituito in pegno.

Sostiene che il debito della banca per gli interessi si era estinto per compensazione con il suo credito per lo scoperto di conto della cliente; e aggiunge che, contrariamente a quanto affermato dai giudici del merito, almeno le somme dovute per gli interessi dovevano considerarsi sottoposte a pegno irregolare, con facoltà della banca di giovarsi della compensazione.

Il motivo è infondato.

Secondo quanto prevede l’art. 2791 c.c., infatti, quando è data in pegno una cosa fruttifera, il creditore, salvo patto contrario, ha la facoltà di fare suoi, i frutti. I frutti della cosa costituita in pegno non sono quindi oggetto di un distinto ulteriore pegno, necessariamente irregolare; ma appartengono al creditore, se non ne sia prevista la corresponsione al debitore.

Nel caso in esame la banca versò sul conto della ******* l’importo degli interessi maturati sul certificato di deposito, perchè evidentemente ne era stata convenuta la spettanza al debitore. Si trattò quindi della rimessa in conto corrente di una somma di proprietà del correntista, soggetta al regime di tutte le rimesse, sottratte alla compensazione.

6. Con il quinto motivo la ricorrente deduce violazione della *******., art. 67, lamentando che erroneamente i Giudici del merito abbiano considerato revocabili, gli accrediti in conto corrente derivanti da anticipazioni su ricevute bancarie salvo buon fine.

Sostiene che tali accreditamenti non sono pagamenti, ma affidamenti aggiuntivi; e non sono revocabili, indipendentemente dall’esistenza di un patto di compensazione, che era stato dedotto solo per dimostrare che non sarebbero risultati revocabili neppure gli incassi dei crediti anticipati, se effettivamente la curatela ne avesse richiesto la revoca.

Il motivo è infondato.

Le ricevute bancarie sono documenti predisposti dal creditore, che attesta di aver ricevuto una somma di danaro da uria banca, incaricata di curare l’incasso alla scadenza presso il debitore (Cass. sez. 1^, 5 luglio 2007, n. 15225, m. 598532).

Come riconosce la stessa ricorrente nella ricostruzione dei fatti, la ******* aveva ottenuto nel 1994 un affidamento aggiuntivo di L. 200 milioni, per anticipazioni su ricevute bancarie. Sicchè la banca, nei limiti di tale ulteriore affidamento, iscriveva provvisoriamente a credito della ******* gli importi delle ricevute bancarie, condizionandone il definitivo accreditamento all’effettivo incasso del credito vantato dal correntista verso terzi, secondo la già ricordata previsione degli artt. 1829 e 1857 c.c..

Contrariamente a quanto la ricorrente sostiene, la curatela fallimentare aveva agito per la revoca delle rimesse derivanti dall’accredito delle ricevute bancarie, anche se ne aveva erroneamente duplicato gli importi, conteggiando anche gli accreditamenti provvisori. La corte d’appello ha poi rimediato all’errore di duplicazione cui era stato indotto anche il Giudice di primo grado; e ha limitato ai soli accreditamenti definitivi la dichiarazione di inopponibilità al fallimento. La ricorrente costruisce ora il suo motivo d’impugnazione nell’erroneo presupposto che oggetto di revoca siano stati gli accreditamenti provvisori, non quelli definitivi. E sostiene che gli accreditamenti definitivi non sarebbero comunque revocabili, indipendentemente da un patto di. compensazione. Ma non si vede perchè l’accredito definitivo debba essere sottratto al regime delle comuni rimesse in conto corrente, posto che viene utilizzato per ridurre l’esposizione del correntista;

sicchè può essere assoggettato a revocatoria, quando tale esposizione abbia superato i limiti dell’affidamento (Cass., sez. 1^, 1 luglio 2008, n. 17954, in motivazione).

7. Con gli ultimi tre motivi del ricorso la ricorrente deduce vizi della motivazione circa la sua effettiva conoscenza dello stato di insolvenza della ****************** s.r.l..

Sostiene che nel 1994 la ******* ottenne l’estensione a L. 540 milioni, dell’apertura di credito di cui già godeva per L. 240 milioni, e un affidamento aggiuntivo di L. 200 milioni, per anticipazioni su ricevute bancarie. A garanzia di tali maggiori affidamenti la ******* costituì in pegno un certificato di deposito acquistato con la somma di L. trecento milioni, erogatale in adempimento di un mutuo ipotecario. I Giudici del merito hanno ritenuto che tale operazione fosse destinata a munire di garanzia reale precedente credito chirografario della banca, ma senza considerare la contestuale estensione degli affidamenti riconosciuti alla debitrice, che immediatamente li utilizzò, portando la sua esposizione a L. 488 milioni, già nel gennaio 1995.

Quanto alla riduzione degli affidamenti comunicata il 9 novembre 1995, essa riguardò solo l’affidamento relativo alle anticipazioni, su ricevute bancarie, portato da duecento a cento milioni di lire.

Lamenta quindi con il sesto motivo che i Giudici del merito abbiano illogicamente valutato come indicativi di una scientia decoctionis comportamenti privi di significato in tal senso.

Aggiunge con il settimo motivo che la riduzione degli affidamenti comunicata il 9 novembre 1995 è stata erroneamente valutata per giustificare la revoca anche di rimesse precedenti.

Rileva infine con l’ottavo motivo che, illogicamente e in violazione dell’art. 2729 c.c., i Giudici del merito abbiano omesso di considerare la mancata revoca o riduzione degli affidamenti per oltre un anno dopo l’erogazione del mutuo fondiario e la tolleranza degli sconfinamenti ripetuti della *******, la cui esposizione aveva superato L. seicento milioni, al momento della revoca degli affidamenti.

I tre motivi, che vanno esaminati congiuntamente, sono tutti infondati.

I Giudici del merito, invero, non hanno affatto omesso di considerare che la costituzione del pegno era destinata ad ampliare le aperture di credito di cui godeva la *******. Hanno tuttavia ritenuto che la peculiare complessità dell’operazione congegnata per garantire la nuova apertura di credito fosse indicativa della consapevolezza dello stato di insolvenza della società poi fallita, perchè la banca ricorse a una macchinosa concatenazione di garanzie diverse. E in realtà il convincimento espresso dai Giudici del merito risulta plausibile, ove sì consideri che, per garantire la nuova apertura di credito, la banca stipulò prima un mutuo ipotecario, destinato all’acquisto di un certificato di deposito da parte della *******, e poi ottenne la costituzione in pegno del titolo. Non v’è altra spiegazione, nè una spiegazione alternativa è stata proposta dalla ricorrente, per questo complesso collegamento negoziale, se non l’intento, attribuito alla banca dai Giudici del merito, di evitare il fallimento immediato della società debitrice, precostituendosi comunque un complesso di garanzie idoneo a resistere alle eventuali azioni della curatela fallimentare.

E questa ipotesi di ricostruzione dei fatti trova, secondo i Giudici del merito, una conferma nella parziale riduzione degli affidamenti comunicata alla ******* il 9 novembre 1995. Mentre la precedente tolleranza degli sconfinamenti ripetuti della ******* rispondeva evidentemente al tentativo di evitarne il fallimento, nonostante la consapevolezza del suo dissesto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese in favore del resistente, liquidandole in complessivi Euro 9.200,00, di cui Euro 9.000,00, per onorari, oltre spese generali e accessori come per legge.

Redazione