Corte di Cassazione Civile sez. I 21/5/2008 n. 13051; Pres. Proto V.

Redazione 21/05/08
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Svolgimento del processo

Con atto di citazione del 17 dicembre 1997 il Movimento Federativo Democratico ha convenuto davanti al tribunale di Roma l’Associazione Bancaria Italiana (ABI), la Banca Fideuram s.p.a. e la Banca Popolare di Milano s.c.r.l. chiedendo che fosse accertata l’abusività di alcune clausole predisposte dall’ABI come condizioni generali di contratto e che, quindi, ne fosse inibita l’utilizzazione, sia nei rapporti futuri sia in quelli pendenti, con ordine alle convenute di rettificarle mediante lettera circolare da indirizzare alla clientela e con pubblicazione integrale, o per estratto, della sentenza su quotidiani nazionali.

Costituendosi, l’ABI ha eccepito la carenza di legittimazione attiva del Movimento Federativo Democratico, perchè privo del requisito della rappresentatività della generalità dei consumatori (anche ai sensi della L. n. 281 del 1998), e la carenza della propria legittimazione passiva, deducendo di non essere associazione di professionisti utilizzatrice delle condizioni generali di contratto.

Nel merito ha chiesto il rigetto delle domande, opponendosi in particolare alla richiesta di pubblicazione del provvedimento in quanto di natura emulativa.

Analoghe eccezioni e deduzioni sono state svolte dalla Banca Popolare di Milano e dalla Banca Fideuram.

E’ intervenuto in giudizio il Comitato Consumatori Altroconsumo, facendo proprie le conclusioni svolte dal Movimento Federativo Democratico. Le convenute hanno eccepito la carenza di legittimazione attiva, per difetto di rappresentatività, e la tardività dell’intervento.

Con sentenza del 21 gennaio 2000 il tribunale:

1) ha ritenuto la sussistenza della legittimazione attiva dell’attore e dell’intervenuto, trattandosi di associazioni rappresentative di interessi diffusi dei consumatori alle quali, ai fini dell’azione inibitoria ex art. 1469 sexies c.c. non era applicabile la L. n. 281 del 1998 (peraltro entrata in vigore dopo l’instaurazione della causa);

2) ha accertato la legittimazione passiva dell’ABI in quanto l’art. 7 della direttiva CEE 93/13 fa riferimento anche alle associazioni di professionisti che raccomandano l’inserzione di clausole;

3) ha dichiarato ammissibile e tempestivo l’intervento del Comitato Consumatori Altroconsumo;

4) accogliendo in misura pressochè integrale la domanda, ha dichiarato abusive numerose clausole, inibendone l’uso sia nei rapporti pendenti che in quelli futuri, ordinando alle convenute di dare notizia della sentenza a mezzo lettera circolare e disponendo la pubblicazione del dispositivo su tre quotidiani;

5) ha rigettato la domanda relativa a clausole destinate a disciplinare rapporti contrattuali con soggetti diversi dai consumatori e di quelle che erano state già tolte dalle condizioni generali dei contratti di apertura di credito.

La corte d’appello di Roma, con sentenza del 24 settembre 2002, ha parzialmente riformato la sentenza – di primo grado, rigettando la domanda di Cittadinanzattiva (già Movimento Federativo Democratico) e del Comitato Consumatori Altroconsumo relativamente ad alcune clausole.

Per quello che ancora rileva in questa sede la Corte territoriale ha affermato:

a) quanto alla legittimazione passiva dell’ABI, che la previsione, nel testo dell’art. 1469 sexies c.c., della legittimazione passiva delle associazioni di professionisti che "utilizzano" condizioni generali, a differenza da quanto previsto nell’art. 7 della direttiva CEE 93/13, secondo cui sono passivamente legittimati all’azione inibitoria anche le associazioni di professionisti che "raccomandano" l’inserzione di clausole generali, non può essere interpretata come manifestazione della volontà del legislatore di limitare la legittimazione ai soli soggetti contraenti, potendosi ritenere compresa implicitamente nella nozione di utilizzazione anche quella di elaborazione, diffusione e espressione di parere positivo di utilizzabilità delle clausole; l’autorevolezza delle raccomandazioni dell’ABI sarebbe rilevata dall’espressione "norme bancarie uniformi" con la quale, fino a un recente passato, venivano indicate le condizioni generali elaborate dall’associazione, alle quali era anche riconosciuta natura di raccolta di usi con valore normativo; la legittimazione passiva dell’ABI è simmetrica a quella delle associazioni dei consumatori, con l’aggiunta che la rappresentanza del settore avrebbe per l’ABI natura monopolistica;

b) quanto alla clausola riguardante il servizio delle cassette di sicurezza – nella parte in cui, dopo aver fatto obbligo al cliente di dichiarare il massimale assicurativo adeguato a coprire il rischio della banca, prevede che il cliente stesso sottoscriva una dichiarazione integrativa con la quale prende atto che la banca avrà titolo per richiedere il risarcimento di eventuali danni subiti in conseguenza della mancata corrispondenza del massimale indicato all’effettivo valore delle cose contenute nella cassetta – che:

1) non è chiaro se la clausola preveda l’esclusione del risarcimento per valore eccedente il massimale dichiarato o una facoltà di rivalsa;

2) la clausola stessa costituisce elusione del principio di cui all’art. 1229 c.c. sulla base del quale il risarcimento è dovuto per intero quando la perdita è dovuta a dolo o colpa grave della banca, perchè finisce per trasferire il danno sul cliente, sulla base di una sua violazione della buona fede in contrahendo che è irrilevante a fronte dell’assorbente responsabilità della banca;

3) più che vessatoria, la clausola sarebbe in realtà nulla;

4) il danno derivante dall’infedele dichiarazione del cliente, peraltro, potrebbe essere neutralizzato da un’adeguata copertura assicurativa, che prescinda dalla dichiarazione stessa e assuma la funzione di una voce dei costi generali d’impresa, da distribuire tra tutti gli utenti del servizio;

c) quanto alla facoltà della banca di modificare le "norme" relative ai conti correnti di corrispondenza e servizi connessi, per adeguarle a nuove disposizioni di legge ovvero a proprie necessità organizzative, e di mutare le condizioni economiche del rapporto, anche in senso sfavorevole al correntista, con il solo limite del rispetto delle condizioni previste dal D.Lgs. n. 385 del 1993, senza che, in entrambi i casi, sia richiesto un giustificato motivo, come previsto dall’art. 1469 bis c.c., comma 4, n. 2, che, da un lato, le esigenze organizzative sono una formula vaga che finirebbe per rendere legittima qualsiasi determinazione unilaterale della banca, comportando un significativo squilibrio sinallagmatico in danno del consumatore, e, dall’altro, che il R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375, art. 118, che prevede il diritto della banca di modificare le condizioni contrattuali economiche, con il solo limite che ciò sia oggetto di una preventiva pattuizione, deve essere integrato con la successiva disciplina delle clausole vessatorie, che, come già osservato, richiede un giustificato motivo;

d) quanto, infine, all’efficacia temporale dell’inibitoria, che doveva confermarsi l’applicazione anche ai contratti in corso, perchè:

1) la dichiarazione di invalidità di una disposizione negoziale ha effetto ex tunc, anche sui rapporti contrattuali di durata, con il solo limite dei rapporti esauriti, come è confermato dal fatto che, a seguito dell’orientamento giurisprudenziale formatosi in tema di nullità delle clausole che prevedevano l’anatocismo bancario, è stata emanata una norma di legge di sanatoria (D.Lgs. n. 342 del 1999, art. 25, comma 3, dichiarato incostituzionale con sentenza n. 425 del 2000);

2) a ritenere il contrario, le clausole dichiarate abusive avrebbero effetti ultrattivi, con disparità di trattamento tra rapporti identici contemporaneamente in vigore;

3) l’inibizione dell’uso non si riferisce al solo atto istantaneo dell’inserzione della clausola in un nuovo contratto, ma alla costante utilizzazione delle clausole vessatorie che, altrimenti, nei rapporti di durata prolungata, potrebbero continuare ad applicarsi indefinitamente.

Avverso la sentenza della corte d’appello di Roma ha proposto ricorso per Cassazione articolato in tre motivi la Banca Popolare di Milano, resistono con controricorso Cittadinanzattiva e l’associazione Altroconsumo (già Comitato Consumatori Altroconsumo), l’ABI e la Banca Fideuram hanno anche proposto ricorsi incidentali "adesivi", ciascuno affidato a due motivi (mediante rinvio ai propri ricorsi autonomi).

L’ABI ha proposto anche autonomo ricorso affidato a due motivi, al quale resistono con controricorso Cittadinanzattiva e Altroconsumo, Banca Popolare di Milano e Banca Fideuram hanno proposto ricorsi incidentali "adesivi" affidati, rispettivamente a tre e a due motivi (mediante rinvio ai propri ricorsi autonomi). Altro ricorso principale, articolato in due motivi, ha proposto Banca Fideuram, al quale resistono con controricorso Cittadinanzattiva e Altroconsumo, l’ABI e Banca Popolare hanno anche proposto ricorsi incidentali "adesivi" affidati, rispettivamente a tre e a due motivi. Banca Popolare di Milano, ABI, Cittadinanza attiva e Altroconsumo hanno presentato memorie.

Con atto del 28 dicembre 2006 Banca Fideuram ha rinunciato al ricorso principale e ai ricorsi incidentali "adesivi" proposti. La rinuncia è stata accettata da Cittadinanzattiva e Altroconsumo.

Motivi della decisione

I tre ricorsi autonomamente proposti, nonchè i ricorsi incidentali della Banca Popolare di Milano, dell’ABI e della Banca Fideuram, in quanto diretti nei confronti della stessa sentenza, debbono essere riuniti.

1. Il giudizio instaurato con il ricorso di Banca Fideuram (r.g. n. 27056/2003) e nel quale hanno proposto ricorsi incidentali "adesivi" la Banca Popolare di Milano (r.g. n. 3073/2003 r.g.) e l’ABI (r.g. n. 30778/2003), deve dichiararsi estinto a seguito della rinuncia della ricorrente principale che riflette i suoi effetti anche sui ricorsi incidentali "adesivi", con compensazione delle spese tra le parti.

2.1. In ordine logico deve essere esaminato, innanzi tutto, il primo motivo del ricorso dell’ABI, con il quale, deducendo la violazione dell’art. 1469 sexies. c.c. e dell’art. 100 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per avere respinto la propria eccezione di difetto di legittimazione passiva.

La ricorrente non contesta che, alla luce dell’art. 7 della direttiva Cee 93/13 (e come risulta confermato dal testo dell’art. 1469 sexies c.c. modificato con la L. n. 14 del 2003, art. 6) l’azione inibitoria generale può essere esercitata non solo nei confronti delle associazioni di professionisti che utilizzano le condizioni generali, ma anche nei confronti di quelle che ne "raccomandano" l’utilizzo.

Sostiene, tuttavia, che la "raccomandazione" non può consistere nella semplice elaborazione e diffusione delle clausole, e neppure nell’espressione di un parere positivo circa l’utilizzabilità, implicito nella stessa diffusione, ma richiede che l’associazione solleciti, favorisca o caldeggi l’inserimento delle clausole nei contratti dei propri associati. Ora, se è vero che fino al provvedimento n. 12/94 della Banca d’Italia, che l’aveva invitata a precisare che quelle che all’epoca venivano indicate come "norme bancarie uniformi" non avevano valore vincolante o di raccomandazione, l’associazione effettivamente aveva svolto attività, appunto, di "raccomandazione" dell’utilizzazione delle clausole, dopo questa data tale attività era cessata essendosi l’ABI limitata a prestare attività di consulenza, come risulterebbe sia dalla precisazione, contenuta nelle periodiche comunicazioni agli associati, del carattere non vincolante delle clausole predisposte, sia dalla sentenza della corte di giustizia Ce 21 gennaio 1999, nella cause riunite n. 215/96 e 216/96, che ha dato atto del mutamento intervenuto nell’attività svolta. E poichè la legittimazione passiva, come condizione dell’azione, deve sussistere al momento della decisione, il giudice del merito avrebbe dovuto tenere conto del fatto che era venuta meno l’attività di "raccomandazione" dell’utilizzazione delle clausole, mentre la corte d’appello aveva omesso di motivare sul punto.

La sentenza impugnata, inoltre, sarebbe caduta in due contraddizioni.

Da un lato, per confermare l’autorevolezza della "raccomandazione", la corte territoriale ha fatto riferimento alle norme bancarie uniformi e alla opinione che costituissero una raccolta di usi, dotate di costante efficacia conformativa dei contratti stipulati dalle banche, e, dall’altro, non ha potuto non dare atto che quella denominazione e quella natura di uso normativo sono state superate dall’orientamento della giurisprudenza di questa corte. Peraltro, l’insussistenza di un’attività di "raccomandazione" sarebbe dimostrata anche nel presente giudizio dalla circostanza che le due banche inizialmente convenute utilizzavano clausole diverse tra loro.

Nè era fondato il rilievo del carattere monopolistico della rappresentanza del settore bancario, smentito dall’esistenza di altre associazioni bancarie, come quella delle banche popolari e delle banche di credito cooperativo, e dalla citata sentenza della corte di giustizia CE che ha escluso l’esistenza di una posizione dominante collettiva.

Ulteriore contraddizione viene evidenziata nel fatto che, dopo avere escluso che l’accoglimento dell’azione inibitoria abbia una portata invalidante assoluta delle clausole, ben potendo le clausole dichiarate abusive essere validamente inserite nei singoli contratti se, per effetto delle trattative individuali, sia eliminato lo squilibrio delle prestazioni, la corte territoriale non ha ordinato alla ricorrente di cessare dalla (peraltro inesistente) attività di raccomandazione, ma le ha inibito di utilizzare le clausole abusive.

Poichè l’ABI non stipula nè ha mai stipulato (nè potrebbe stipulare) contratti individuali, l’inibitoria non può avere altro effetto che escludere definitivamente le clausole giudicate abusive dai propri formulari, proprio, quindi, un effetto invalidante assoluto che lo stesso giudice del merito aveva dichiarato di non poter produrre.

2.2. Il motivo, a parte i profili che attengono alla sussistenza in concreto dei caratteri di "raccomandazione" o ®uso" nell’attività svolta dall’ABI, che non sono ammissibili in questa sede, non è fondato.

L’accertamento della legittimazione passiva all’azione inibitoria è stato effettuato dalla corte d’appello in presenza del testo dell’art. 1469 sexies c.c. anteriore alla modifica apportata con la L. 3 febbraio 2003, n. 14, art. 6, che, in esecuzione della sentenza della corte di giustizia CE 24 gennaio 2002 in causa n. 372/1999, ha aggiunto al comma 1 della disposizione il riferimento ai professionisti o alle associazioni di professionisti "che raccomandano l’utilizzo" di condizioni generali, così rendendo conforme la disciplina nazionale all’art. 7 della direttiva CE n. 93/13 e facendo venir meno l’accertata violazione degli obblighi comunitari. Il giudice del merito, proprio allo scopo di dare alla norma interna un’interpretazione conforme alla direttiva di cui avrebbe dovuto costituire attuazione e in conformità con la dottrina, ha fatto propria una nozione molto ampia dell’"utilizzazione", tale da comprendere l’elaborazione, la diffusione e l’espressione di parere positivo sull’utilizzabilità delle clausole. D’altra parte, poichè la norma prende in considerazione non solo i professionisti, ma anche le associazioni di professionisti, che, per loro natura, non utilizzano direttamente le clausole in contratti individuali, una diversa e più restrittiva interpretazione avrebbe finito non solo per aggravare il contrasto con la direttiva comunitaria, ma anche per abrogare la previsione della legittimazione passiva delle associazioni di professionisti.

Comunque, come anche la ricorrente ammette in questa sede, l’allargamento della legittimazione passiva ai professionisti e alle associazioni di professionisti che non solo utilizzano ma anche raccomandano l’utilizzo delle clausole, non è più oggetto di una mera attività di interpretazione, doverosamente conforme alla direttiva CE di cui si tratta, ma di un’espressa disciplina rispetto alla quale l’interpretazione seguita dalla corte territoriale appare coerente.

Infatti, l’elaborazione e la diffusione (nella quale, come esattamente rileva la ricorrente, è implicito il parere positivo circa l’utilizzazione) di clausole da parte di un’associazione di imprese, portatrice di un interesse di categoria, non consiste in una mera attività di studio di modelli e di consulenza teorica, in quanto il predetto interesse può essere soddisfatto solo attraverso l’inserimento delle clausole nei contratti individuali stipulate dalle imprese associate, perchè solo in questo modo si realizza l’interesse delle imprese bancarie alla standardizzazione degli strumenti contrattuali con conseguente riduzione dei costi, onde a tale inserimento le attività di elaborazione e diffusione sono necessariamente indirizzate. Che tali attività abbiano influenza sul mercato dipende, poi, certamente dal grado di rappresentatività e quindi di autorevolezza dell’associazione. E poichè è notorio e, comunque è pacifico tra le parti, che l’ABI rappresenta autorevolmente se non la totalità, certamente una larghissima parte delle imprese bancarie, non può escludersi che l’attività di elaborazione e diffusione di clausole indirizzata all’inserimento nei contratti individuali è idonea a influire sul mercato.

2.3. L’omessa valutazione da parte della corte territoriale dell’invito a non considerare vincolanti le clausole contrattuali predisposte, contenuto nelle lettere circolari dell’ABI successive al 1995, e della sentenza della corte di giustizia CE del 21 gennaio 1999, in cause riunite n. 215/96 e 216/96, non configura un vizio di motivazione censurabile in questa sede, in quanto nessuna delle due circostanze ha valore decisivo.

Non la prima, perchè la "raccomandazione" è logicamente incompatibile con il carattere vincolante della clausola, essendo evidente che, se la clausola avesse tale natura, sarebbe sufficiente la semplice diffusione di conoscenza. D’altra parte, mai nei precedenti giudizi si è discusso tra le parti circa la natura vincolante delle clausole elaborate e diffuse dall’ABI, essendo pacifico tra le parti che, anche a seguito dell’evoluzione della giurisprudenza sul punto, tali clausole hanno natura di condizioni generali di contratto.

Nè è decisiva la citata sentenza della corte di giustizia (in un giudizio avente ad oggetto l’accertamento dell’eventuale contrasto di alcune norme bancarie uniformi – così denominate nella sentenza stessa – utilizzate in contratti conclusi tra il 1989 e il 1992, con l’art. 85, n. 1 e l’art. 86 del trattato CE) perchè la corte stessa si è limitata a dare atto, nella parte descrittiva delle vicende rilevanti per il processo, della precisazione inserita dall’ABI, su richiesta della Banca d’Italia, circa il carattere non vincolante delle clausole, ma, come si già osservato, tale precisazione non di per sè idonea a escludere che l’attività di elaborazione e diffusione di condizioni generali di contratto da inserire nei contratti individuali abbia natura di "raccomandazione" o di "uso" in senso lato.

2.4. Non sussistono neppure le denunciate contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata.

La corte d’appello ha correttamente dato atto che, "fino a un recente passato" le cosiddette norme bancarie uniformi erano ritenute avere natura di raccolta di usi normativi, con ciò accertando che tale natura non era più riconosciuta al momento della decisione. Il riferimento alla passata esperienza delle cosiddette norme bancarie uniformi è stata infatti utilizzata solo come una delle argomentazioni sulle quali si è basato il giudizio di autorevolezza delle raccomandazioni dell’ABI e non ha certo il significato di affermare l’attuale "vigenza" delle predette norme".

Quanto alle considerazioni svolte (al fine di accertare in quale modo si distribuisce l’onere della prova dell’abusività delle clausole) sulla natura relativa e non assoluta dell’"effetto invalidante" dell’accertamento della vessatorietà – nel senso che la clausola inserita nelle condizioni generali predisposte dall’ABI e dichiarata vessatoria, può validamente essere inserita in un singolo contratto se, a seguito di trattative individuale, sia superato lo squilibrio contrattuale derivante dalla previsione generale – deve rilevarsi che si tratta di considerazioni del tutto corrette, che non confliggono con il fatto che per la natura stessa dell’associazione, che non stipula contratti bancari individuali, il predetto "effetto invalidante" finirebbe per diventare assoluto, invece che relativo.

Infatti se fossero fondati i rilievi della ricorrente la norma che prevede la legittimazione passiva all’azione inibitoria delle associazioni di professionisti sarebbe sempre inapplicabile, perchè in ogni caso l’accertamento dell’abusività e la conseguente inibizione dell’uso produrrebbero l’effetto "assoluto" denunciato.

3.1. Con il secondo motivo dell’autonomo ricorso la Banca Popolare di Milano, deducendo la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 118 recante il t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia, dell’art. 1469 ter c.c., comma 3, in relazione all’art. 1469 bis c.c., comma 5 e dell’art. 1469 bis c.c., comma 1, e vizio di omessa e contraddittoria motivazione, censura la dichiarazione di vessatorietà della clausola delle condizioni generali con la quale si prevede che "La banca si riserva la facoltà di modificare le condizioni economiche applicate ai rapporti regolati in conto corrente, rispettando, in caso di variazioni in senso sfavorevole al correntista, le prescrizioni del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385 e delle relative disposizioni di attuazione".

Poichè l’art. 1469 ter c.c., comma 3, esclude dalla valutazione giudiziale di vessatorietà le clausole riproduttive di disposizioni di legge e la clausola di cui si tratta sarebbe conforme a quanto previsto D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 118, erroneamente la corte territoriale ne ha dichiarato il carattere abusivo.

In senso contrario non potrebbe invocarsi il disposto dell’art. 1469 bis c.c., comma 5, che richiede l’esistenza di un giusto motivo per escludere la vessatorietà della clausola che, nei contratti aventi ad oggetto prestazioni di servizi finanziari, prevede la facoltà del professionista di modificare il tasso d’interesse o qualunque altro onere relativo alla prestazione originariamente prevista. Tale norma non avrebbe effetto derogatorio del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 118, come ritenuto dalla corte territoriale, perchè non sarebbe ipotizzabile che le autorità comunitarie, nell’approvare la direttiva 93/13, di cui l’art. 1469 bis c.c. costituisce tardiva attuazione nel diritto interno, avessero intenzione di abrogare la norma del t.u. bancario, dovendo piuttosto desumersi dall’art. 1469 ter c.c., comma 3, l’intento di coordinare la nuova disciplina dei contratti dei consumatori con quella preesistente. Anzi, se fosse fondata la tesi seguita dalla corte d’appello, ne deriverebbe l’abrogazione dell’art. 1469 ter c.c., comma 3, che invece costituisce attuazione di quanto previsto nell’art. 1, 2 comma e nel "considerando" n. 13 della direttiva CE 93/13.

Nè potrebbe attribuirsi efficacia abrogativa del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 118, t.u. bancario all’art. 1469 bis c.c., comma 5 per il fatto di essere entrato in vigore successivamente, perchè l’art. 118 t.u. bancario ha natura speciale rispetto alla disciplina generale dei contratti dei consumatori e, comunque, ha ad oggetto la prestazione non di servizi finanziari e ma di servizi bancari.

Infine, la clausola di cui si tratta sarebbe conforme a buona fede, in senso oggettivo, non potendo ipotizzarsi la violazione dei doveri di correttezza nella predisposizione di clausole conformi a legge.

3.2. il motivo è ammissibile.

Contrariamente a quanto sostenuto dal controricorrente Altroconsumo, la ricorrente non censura l’accertamento in concreto del carattere vessatorio della clausola, ammesso che un accertamento di tale natura sia possibile rispetto alle condizioni generali di contratto predisposte dal professionista o dall’associazione di professionisti, ma critica l’applicazione delle norme (art. 18 t.u. bancario e art. 1469 bis c.c., comma 5) di cui si tratta, in quanto sarebbe basata su un’erronea interpretazione delle norme stesse.

Per altro verso, l’interesse al ricorso non è venuto meno a seguito dell’entrata In vigore del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 10, introdotto con la Legge di Conversione n. 28 del 2006, che ha modificato l’art. 118 t.u. bancario, subordinando l’esercizio della facoltà di modificare unilateralmente i tassi, i prezzi e le altre condizioni del contratto alla sussistenza di un giustificato motivo e al rispetto dell’art. 1341 c.c., comma 2 non essendovi alcun elemento per ritenere che la modifica legislativa abbia natura interpretativa e non innovativa, con la conseguenza che la modifica stessa è irrilevante nel presente giudizio che ha ad oggetto una clausola predisposta in epoca anteriore all’entrata in vigore della nuova disciplina.

3.3. Il motivo non è fondato.

Innanzi tutto, la necessità di interpretare l’art. 1469 ter c.c., comma 2 in conformità con la direttiva n. 93/13 impone di limitarne la portata alle clausole che riproducono norme che direttamente o indirettamente disciplinano clausole di contratti con consumatori, come si desume dal tredicesimo "considerando" della direttiva citata, mentre l’art. 118 t.u. bancario si riferisce a tutti i contratti bancari, siano essi stipulati con consumatori o non. Inoltre, per escludere la vessatorietà di una clausola ai sensi dell’art. 1469 ter c.c., comma 3 è necessario che la stessa si limiti a riprodurre, anche se non in senso formalistico, ma contenutistico, il nucleo precettivo di una norma imperativa, mentre restano soggette al controllo giudiziale di vessatorietà quelle clausole con le quali il predisponente si avvale autonomamente di una facoltà che la norma gli riconosce, nei limiti in cui tale riconoscimento opera. Questo è il caso dell’art. 118 t.u. bancario, che, insieme con l’art. 117, 5 comma, detta i limiti entro i quali la banca può esercitare la facoltà convenzionale di modificare unilateralmente e in senso sfavorevole al cliente le condizioni economiche del contratto.

Inoltre, la norma sui contratti dei consumatori la cui "riproduzione" avrebbe potuto sottrarre la clausola al giudizio di vessatorietà non può essere quella di cui all’art. 118 t.u. bancario, che disciplina anche i contratti con soggetti diversi dai consumatori, ma soltanto l’art. 1469 bis c.c., comma 5 che richiede la sussistenza del giustificato motivo per escludere la vessatorietà della clausola che riconosce al professionista la facoltà di modificare unilateralmente le condizioni economiche del contratto avente ad oggetto prestazioni finanziarie.

Tali rilievi rendono non decisiva l’indagine circa l’effetto abrogativo da riconoscere all’art. 1469 bis c.c., comma 5 rispetto all’art. 118 t.u. bancario.

Per la soluzione del problema relativo all’individuazione della norma applicabile è poi irrilevante il rilievo della "derivazione" comunitaria della disposizione codicistica o le valutazioni compiute da organi amministrativi circa la prevalenza dell’una o dell’altra norma.

Infine, quanto all’irrilevanza della buona fede in senso oggettivo nel caso di specie, a fronte dell’espressa previsione di cui all’art. 1469 bis c.c., comma 5, è evidente che l’affermazione secondo la quale la clausola di cui si tratta non potrebbe mai porsi in contrasto con il dovere di correttezza, essendo riproduttiva dell’art. 118 t.u., si risolve in una petizione di principio, dovendosi prima dimostrare sia l’applicabilità della predetta disposizione e sia la natura "riproduttiva" della clausola stessa.

4.1. Con il terzo motivo la Banca Popolare di Milano, deducendo la violazione e falsa applicazione degli articoli 1229, 1469 bis, 2697, 2059, 1460 e 1469 ter. c.c. e vizio di motivazione, critica la dichiarazione di vessatorietà delle clausole delle condizioni generali relative al servizio di cassette di sicurezza con le quali il risarcimento dei danni derivanti dalla sottrazione, dal danneggiamento o dalla distruzione delle cose custodite viene limitato ai danni comprovati e obbiettivi, con esclusione del valore d’affezione, tenendo conto del massimale assicurativo adeguato a coprire il rischio della banca che il cliente deve dichiarare e con il riconoscimento del diritto della banca al risarcimento dei danni subiti in conseguenza della mancata corrispondenza tra l’effettivo valore delle cose contenute in cassetta e il massimale dichiarato.

Analoga censura alla sentenza impugnata muove l’ABI, con il secondo motivo del suo ricorso, deducendo la violazione o falsa applicazione degli articoli 1225, 1375 e 1469 bis c.c. e vizio di motivazione.

La corte territoriale, osservano entrambe le ricorrenti, ha motivato la conferma della dichiarazione di vessatorietà delle clausole facendo esclusivo riferimento alla violazione dell’art. 1229 c.c. che deriva dalla limitazione del risarcimento nel caso in cui la perdita delle cose custodite derivi da dolo o colpa grave della banca. Ma dalla rilevata violazione, secondo la stessa sentenza impugnata, deriva non la vessatorietà, ma la nullità della clausola, che esclude l’idoneità della clausola stessa a provocare un significativo squilibrio delle prestazioni. Inoltre, la conferma della dichiarazione di vessatorietà delle clausole, nel loro complesso, si pone in contrasto con la limitazione della nullità ai casi di perdita delle cose custodite derivante da dolo o colpa grave.

In tali casi la previsione dell’obbligo del cliente di dichiarare il valore delle cose custodite e la limitazione del risarcimento, in caso di violazione di detto obbligo, è conforme alla disciplina legale, il cui contenuto è riprodotto dalle clausole di cui si tratta (che in particolare sono riproduttive delle regole sulla distribuzione dell’onere della prova, di cui all’art. 2697 c.c.; dei limiti di risarcibilità del danno non patrimoniale: art. 2059 c.c.;

del diritto del contraente adempiente di rifiutare la prestazione in caso di inadempimento dell’altra parte: art. 1460 c.c.; dell’obbligo generale di correttezza e buona fede, dal quale derivano i più specifici obblighi di informazione e di collaborazione: art. 1375 c.c. e della limitazione del risarcimento ai danni prevedibili: art. 1225 c.c.) e non comporta nessun squilibrio delle prestazioni, essendo il pregiudizio economico del cliente conseguenza delle sue violazioni degli obblighi di correttezza.

Rilevano, infine, le ricorrenti, che erroneamente la corte territoriale ha affermato che il danno derivante dall’infedele dichiarazione preventiva del cliente potrebbe essere neutralizzato da un’adeguata copertura assicurativa, perchè nessuna copertura sarebbe possibile in caso di impossibilità di attendibile valutazione del rischio.

4.2. Il motivo non è fondato.

La sentenza impugnata, nel confermare integralmente la dichiarazione di vessatorietà delle clausole sopra indicate pronunciata dal tribunale – sulla base del duplice rilievo della scarsa chiarezza e trasparenza e del significativo squilibrio dei diritti e obblighi contrattuali che deriva dalla previsione dell’eventuale risarcimento dei danni a carico del cliente – ha limitato il suo esame al profilo relativo al limite della risarcibilità dei danni subiti a causa della perdita delle cose custodite, affermando che sia che si intenda la clausola come esclusione del risarcimento dei danni eccedenti il valore dichiarato, sia che la clausola stessa debba essere interpretata come previsione di un diritto di rivalsa in caso di risarcimento per valori superiori al massimale indicato dal cliente, si verificherebbe un’elusione di quanto disposto dall’art. 1229 c.c. per il caso che la perdita sia conseguenza del comportamento doloso o gravemente colposo della banca. Ma, dopo avere ribadito, in conformità con il costante orientamento di questa corte (a partire dalla sentenza delle sezioni unite n. 6225/1995, seguita da Cass. n. 8820/1995, 750/1997, 1355/1998, 9640/1999, 1682/2000, 4946/2001, 3389/2003, 9902 e 14462/2004) che la clausola di esonero o di limitazione della responsabilità in caso di dolo o colpa grave della banca è nulla, la corte territoriale, richiamando espressamente la sentenza di questa corte n. 4946 del 2001 ha affermato che, indipendentemente da tale nullità (e quindi al di là delle ipotesi di dolo o colpa grave) la clausola è affetta da un concorrente vizio di vessatorietà. Con ciò deve intendersi che la corte territoriale abbia anche fatto rinvio alle argomentazioni utilizzate dalla predetta sentenza n. 4946/2001 secondo cui la clausola di cui si discute, comunque, comporta uno "squilibrio" a carico del cliente – consumatore ex art. 1469 bis c.c., e, ancora più specificamente, anche se ha formato oggetto di trattativa, determina, in caso di inadempimento (per colpa lieve) della banca, una limitazione nella proposizione dell’azione risarcitoria nei confronti della stessa (art. 1469 quinquies c.c., comma 2, n. 2).

A parte dunque la correttezza, riconosciuta dalla ricorrente Banca Popolare di Milano, dell’affermazione relativa alla possibile concorrenza del giudizio di validità e di quello di inefficacia per vessatorietà della stessa clausola, con riferimento ai diversi parametri sostanziali previsti, rispettivamente dall’art. 1229 c.c. e dagli articoli 1469 bis e seguenti c.c. e alle diverse tutele, individuali o collettive, all’interno delle quali i parametri possono essere utilizzati, non sussiste la denunciata contraddizione tra la conferma dell’accertamento della vessatorietà delle clausole e il richiamo all’orientamento secondo il quale è nulla la limitazione o l’esclusione del risarcimento dei danni da perdita delle cose custodite in cassette di sicurezza in caso di dolo o colpa grave della banca, trattandosi di affermazioni tra loro compatibili in quanto relative ad effetti giuridici appartenenti a piani diversi.

Deve inoltre rilevarsi che tra le parti non è controverso che le clausole di cui si tratta prevedano, direttamente o indirettamente, l’esclusione o la limitazione dei diritti o delle azioni che il cliente può esercitare in caso di inadempimento della banca e pertanto deve confermarsi quanto rilevato nella sentenza n. 4946/2001, e cioè che la clausola stessa rientra nella previsione dell’art. 1469 bis c.c., comma 3, n. 2 o dell’art. 1469 quinquies c.c., comma 2, n. 2 a seconda che abbia o non formato oggetto di trattativa.

Per superare la presunzione di vessatorietà di cui all’art. 1469 bis c.c., comma 2, e la sanzione di inefficacia prevista dall’art. 1469 quinquies c.c., comma 2 le ricorrenti affermano che la clausola di cui si tratta sarebbe riproduttiva di norme di legge (art. 1469 ter c.c., comma 3) e che non sussisterebbe il significativo squilibrio tra i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto.

Il primo profilo, a parte che non risulta abbia formato oggetto di dibattito tra le parti nel giudizio d’appello, appare infondato, potendo al massimo discutersi della conformità o meno delle clausole alle norme richiamate, ma non certo di un carattere riproduttivo delle clausole stesse rispetto alla pluralità e varietà dei contenuti precettivi delle indicate disposizioni. Il secondo profilo, inoltre, nei limiti in cui nel giudizio promosso con azione inibitoria collettiva è consentito l’accertamento in concreto della vessatorietà, in relazione all’esistenza o meno del significativo squilibrio dei diritti e obblighi contrattuali, contiene una censura inammissibile in questa sede, non potendo sfuggire all’alternativa tra l’irrilevanza, ai fini del predetto accertamento, di argomentazioni meramente astratte, e l’incensurabilità di un giudizio di fatto.

5.1. Con il primo motivo del suo ricorso la Banca Popolare di Milano, deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 1469 sexies c.c., comma 1 e art. 12 preleggi e art. 2909 c.c. e vizio di motivazione, censura, con una complessa e articolata argomentazione, l’estensione degli effetti dell’inibitoria ai rapporti contrattuali già in essere al momento della pronuncia.

Premesso il principio del dovere del giudice nazionale di interpretare le norme di diritto interno in conformità con le direttive comunitarie di cui costituiscono attuazione, incorrendo in caso contrario nella violazione delle regole in tema di gerarchia delle fonti, la ricorrente lamenta che il giudice del merito abbia interpretato l’art. 1469 sexies c.c. nella parte in cui prevede il potere di inibire "l’uso" delle condizioni ritenute vessatorie, nel senso di possibilità di inibire l’utilizzazione delle predette clausole nei contratti già conclusi e non nel senso di attribuzione del potere di "far cessare l’inserzione" di clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, come previsto nel "considerando" n. 24 e nell’art. 7, 1 e 3 comma della direttiva CEE 93/13, così come interpretata anche da corte giustizia CE 24 gennaio 2002, in causa n. 372/99, che ha esplicitamente affermato che le azioni inibitorie collettive hanno "natura preventiva e finalità dissuasiva". La necessità dell’interpretazione conforme al diritto comunitario è stata anche alla base dell’intervento del legislatore nazionale il quale, con la L. n. 14 del 2003, art. 6 ha aggiunto all’art. 1469 sexies c.c., comma 1, il riferimento all’attività di "raccomandazione dell’utilizzo" di clausole, che sarebbe corrispondente all’espressione "raccomandano l’inserzione", di cui al terzo comma dell’art. 7 della direttiva.

La ricorrente, inoltre, rileva che la giurisprudenza di merito e la dottrina ritengono che l’azione inibitoria collettiva abbia lo scopo di impedire l’inserzione delle clausole ritenute vessatorie nei contratti stipulati successivamente al provvedimento giudiziale e che tale interpretazione non ha suscitato reazioni negli organi comunitari che certamente avrebbero iniziato una procedura d’infrazione se fosse stata difforme dalla direttiva.

Nè la difforme interpretazione sostenuta dalla sentenza impugnata potrebbe giustificarsi con la necessità di evitare una disparità di trattamento tra i clienti che hanno stipulato prima, rispetto a quelli che stipulano dopo il provvedimento giudiziario e quindi una violazione del principio d’eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., perchè, per la diversità dei piani sui quali si svolgono la tutela collettiva e quella individuale, la diversità di trattamento non dipenderebbe dalla mancata estensione degli effetti dell’inibitoria, ma dall’inerzia del singolo cliente a far valere i propri diritti individuali. Conseguentemente, la disparità di trattamento sarebbe legittimamente superata solo dal fatto che i "vecchi" clienti facciano valere le proprie pretese a fronte delle quali la banca potrebbe stipulare nuovi contratti nei quali non sarebbe possibile inserire le clausole dichiarate vessatorie. Sarebbe piuttosto l’interpretazione seguita dal giudice del merito, che, avendo per effetto la sostituzione indebita della tutela collettiva alle iniziative individuali, verrebbe a violare il diritto dell’impresa a disciplinare i rapporti con i clienti sulla base di contratti standard, in tal modo contenendo i costi.

La stessa sentenza impugnata, nella parte in cui si è occupata del rapporto tra accertamento della vessatorietà in sede di azione collettiva e validità della clausola ha identificato la portata dell’inibitoria collettiva con il divieto di "inserzione automatica a titolo di condizioni generali".

Sarebbe irrilevante, poi, il richiamo alla sentenza della corte costituzionale n. 425 del 2000, avente ad oggetto il D.Lgs. n. 342 del 1999, art. 25, comma 3, norma con efficacia validante successiva delle clausole sull’anatocismo bancario da ritenere nulle per effetto del più recente orientamento di questa Corte, perchè il problema degli effetti dello jus superveniens sui singoli rapporti contrattuali in corso è diverso da quello relativo all’identificazione degli effetti dell’inibitoria collettiva sulle condizioni generali.

Del pari inconferente sarebbe il richiamo che la sentenza impugnata ha fatto alle class action come modello di azione che proietta i suoi effetti su scala generale, a conferma del fatto che l’accoglimento dell’azione inibitoria provoca automaticamente l’illegittimità dell’uso concreto delle clausole ritenute vessatorie, perchè a differenza che nelle class action le associazioni che agiscono per la inibitoria collettiva non rappresentano i consumatori.

Sul piano del diritto interno il dubbio sulla estensione degli effetti dell’inibitoria collettiva ai contratti in corso dovrebbe essere superato sulla base di un’interpretazione restrittiva in quanto la tutela inibitoria avrebbe natura eccezionale.

Sostiene, infine la ricorrente che ove non fosse accolta la propria tesi questa corte dovrebbe sollevare questione pregiudiziale davanti alla corte di giustizia Ce.

5.2. Il motivo non è fondato.

5.2.1. L’art. 8 della direttiva CEE 93/13 prevede che gli stati membri possono adottare o mantenere, nel settore della disciplina dei contratti con i consumatori, disposizioni più severe, compatibili con il Trattato, per garantire un livello di protezione più elevato per il consumatore. Il legislatore nazionale con l’art. 1469 sexies c.c., a fronte di un testo della direttiva (art. 7) che, in materia di inibitoria, prevedeva l’obbligo di adottare mezzi adeguati ed efficaci per "far cessare l’inserzione" di clausole ritenute vessatorie ha scelto di assegnare all’azione giudiziaria collettiva la finalità di "inibire l’uso" delle condizione ritenute vessatorie.

Non può negarsi che l’inserimento di una clausola in un formulario o in un contratto individuale rappresenti una delle modalità di uso o utilizzazione della clausola stessa, ma è altresì vero che la nozione di "uso" è più ampia di quella di "inserzione", perchè comprende tutta l’ampia gamma dell’esercizio dei diritti e dei poteri che nella clausola trovano fondamento. E poichè, tenendo presente il significato proprio delle parole, l’impiego dell’espressione di più ampia portata ("uso") certamente assicura un livello di protezione del consumatore più elevato di quello garantito dall’utilizzazione dell’espressione di portata più ristretta ("inserzione"), in quanto consente di inibire una serie di comportamenti più estesa, la scelta del legislatore nazionale non si pone in contrasto con la direttiva.

Infatti, le istituzioni comunitarie, che pure, mostrando di considerare la disciplina di cui all’art. 7 della direttiva uno degli aspetti fondamentali della tutela introdotta, hanno iniziato una procedura d’infrazione riguardante l’aspetto dell’art. 1469 sexies c.c. relativo all’individuazione dei legittimati passivi (esaminato sub 2), che ha portato alla condanna dell’Italia per inadempimento agli obblighi comunitari (sentenza 24 gennaio 2002, in causa 372/99), non hanno ritenuto di contestare alcuna infrazione per la diversità dell’oggetto dell’inibitoria nazionale rispetto a quello previsto dalla direttiva.

Nè può dubitarsi della conformità della disciplina dell’inibitoria collettiva di cui all’art. 1469 sexies c.c. al Trattato, nella parte in cui considera prioritario l’obbiettivo dell’armonizzazione delle discipline nazionali, perchè è la stessa direttiva, sulla cui conformità al Trattato non sono sorti dubbi, che autorizza l’introduzione o il mantenimento di discipline nazionali diversificate con il solo limite che abbiano per effetto di ampliare e non di restringere la tutela dei consumatori.

Si possono pertanto superare tutte le censure della ricorrente basate sul richiamo alla necessità di osservare, anche in sede interpretativa, la direttiva di cui si discute e la stessa sollecitazione del rinvio pregiudiziale alla corte di giustizia Ce, perchè a fronte del chiaro tenore dell’art. 8 della direttiva non si pone alcun dubbio di conformità della normativa interna agli obblighi derivanti dalla direttiva stessa.

5.2.2. L’inibitoria dell’uso delle clausole ritenute vessatorie, anche con riferimento ai contratti esistenti al momento della pronuncia, non si pone in contrasto con la funzione preventiva di tale strumento di tutela. L’esigenza di prevenzione non riguarda solo l’inserimento delle clausole nei moduli o formulari utilizzati per la stipula di contratti successivamente all’adozione del provvedimento inibitorio, ma anche il prodursi, sempre in epoca successiva al provvedimento, degli effetti che le clausole producono o sono idonee a produrre nel tempo, mediante l’esercizio dei poteri che dalla clausole stesse derivano.

Infatti deve distinguersi tra fatto generatore del rapporto ed effetti che da tale fatto prendono origine; mentre il giudizio di validità del primo va condotto alla stregua della situazione normativa esistente al momento in cui si è prodotto, per gli effetti che si producono nel tempo deve tenersi conto dell’evoluzione dei parametri di valutazione dipendenti dalla successione di norme (così Cass. n. 831/1999, in materia di nuova disciplina della fideiussione omnibus) 827/1999, in materia di intese restrittive della concorrenza e, tra le più recenti, Cass. n. 2140/2006 e 4093/2005, in materia di rinvio agli usi per la determinazione degli interessi; 5286, 1126 e 14899/2000 in materia di interessi usurari). Mentre, quindi, contrasterebbe con la funzione preventiva dell’inibitoria ammettere che possa incidere sul fatto generatore, resta coerente con tale funzione fondamentale il riconoscimento dell’idoneità del provvedimento inibitorio a impedire il verificarsi dei futuri effetti derivanti dalle clausole inserite in formulari utilizzati prima della pronuncia del provvedimento.

5.2.3. La tesi interpretativa seguita dalla corte territoriale, che si inserisce in un orientamento della giurisprudenza di merito non univoco, consente, tuttavia, di attribuire all’azione collettiva quel valore centrale nell’ambito della tutela che la direttiva CEE 93/13 intende apprestare e che le istituzioni comunitarie più volte hanno affermato. Solo infatti se l’inibitoria collettiva è in grado di per sè di impedire che le clausole ritenute vessatorie possano produrre effetti per il futuro può essere ritenuta una forma di tutela efficace ed adeguata (anche dal punto di vista della garanzia di eguaglianza di trattamento) dei diritti dei consumatori, mentre se tale finalità fosse riservata esclusivamente alle azioni individuali, come pretende la ricorrente, la tutela collettiva sarebbe meramente virtuale e teorica e quindi avrebbe un ruolo del tutto trascurabile e secondario nell’ambito degli strumenti a tutela del consumatore.

Nè appare convincente l’obiezione secondo cui, se fosse corretta la soluzione data dalla corte territoriale, si verificherebbe un’indebita sostituzione dell’azione collettiva a quella individuale, sia perchè quest’ultima resterebbe sempre ammissibile, sia perchè la tutela collettiva voluta dalla direttiva CEE ha specificamente la finalità di ovviare alle difficoltà che i consumatori incontrano, sia sul piano dei costi che su quello probatorio, per far valere in giudizio i propri diritti individuali.

Infine, il diritto dell’impresa bancaria di disciplinare i rapporti con i clienti sulla base di contratti standardizzati, che permettono un contenimento dei costi dei servizi, non si pone in contrasto con l’inibizione degli effetti delle clausole stipulate precedentemente all’adozione del provvedimento giudiziario, essendo sufficiente introdurre nei contratti in corso, che resterebbe per il resto conformi agli standard precedentemente elaborati e costiruirebbero per il futuro standard altrettanto efficaci, le modificazioni necessarie per superare il giudizio di vessatorietà. Sarebbe invece contrario alla lettera e alla ratio della norma (art. 1469 sexies c.c.) consentire che le imprese continuassero a usare le clausole dichiarate vessatorie, esercitando i poteri o giovandosi comunque degli effetti che dalle clausole stesse derivano. 6. in conclusione, dichiarato estinto per rinuncia il giudizio promosso con ricorso di Banca Fideuram e nel quale sono stati proposti ricorsi incidentali "adesivi" di Banca Popolare Italiana e ABI, debbono essere rigettati i ricorsi principali di Banca Popolare di Milano e di ABI e gli altri ricorsi incidentali dalle stesse proposti.

E’ inammissibile la domanda risarcitoria ai sensi dell’art. 96 c.c., comma 1 formulata da Altroconsumo nella memoria ex art. 378 c.p.c. (Cass. 17300/2003).

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE Riunisce i ricorsi; dichiara estinto il giudizio su ricorso della Banca Fideuram (r.g. n. 27056/03), con ricorsi incidentali della Banca Popolare di Milano (r.g. n. 30373/03) e dell’ABI (r.g.n. 30778/03 r.g.), compensando le spese tra le parti; rigetta gli altri ricorsi, dichiara inammissibile la domanda ex art. 96 c.p.c. di Altroconsumo e condanna la Banca Popolare di Milano e l’ABI, in solido, al pagamento delle spese di questo giudizio che si liquidano in Euro 12.100,00 (di cui Euro 100,00 per esborsi) in favore di ciascuno dei controricorrenti, Cittadinanzattiva e Altroconsumo.

Redazione