Corte di Cassazione Civile sez. I 17/12/2008 n. 29522; Pres. Carnevale C.

Redazione 17/12/08
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La s.p.a. *****, assumendo di essere titolare dei diritti privativa sulle forme tridimensionali di alcune colonnine per la spillatura della birra, le cui fattezze ricordano quelle di un serpente Cobra, riferiva di essersi avvalsa tra il 1982 ed il 1992 della collaborazione esclusiva di TOF S.r.l. per la fabbricazione seriale dei predetti articoli. Assumeva di aver ideato il primo esemplare di colonnina a forma di cobra nel (omissis) e di aver affidato alla ditta Berti Rubinetterie la fabbricazione della prima serie di colonnine denominate "(omissis)". Nel (omissis), ***** aveva affidato alla ditta M.T. il compito di realizzare gli stampi per un altro tipo di colonnina, denominata "(omissis)". Nel (omissis), aveva approntato delle varianti alla colonnina "(omissis)", realizzando la "(omissis)". Nel (omissis) ***** s.p.a. aveva trasmesso a TOF s.r.l. i disegni della nuova colonnina per realizzarne il prototipo. Agli inizi del (omissis), la forma della colonnina "(omissis)" veniva brevettata come modello ornamentale, con domanda n. 4252 del 29.07.86, concessa il 28.05.88 con n. 48365.

Riferiva ancora l’odierna ricorrente che in data 3.12.1987, ***** aveva consegnato "in prestito d’uso" a TOF s.r.l. lo stampo per la colonnina "(omissis)". Assumeva che, avendo individuato una fisionomia vincente, ***** aveva realizzato, poi, "(omissis)" e "a quattro vie", imponendo sul mercato delle colonnine per la birra il primato del modello (omissis).

Il nome "(omissis)" veniva registrato a livello nazionale con domanda di brevetto per marchio d’impresa n. (omissis) del 23.12.92 concessa in data 14.03.93 con n. 603942.

Denunciava che, cessato il rapporto di collaborazione, TOF s.r.l. aveva intrapreso autonomamente la produzione e distribuzione dei manufatti in questione. ***** reagiva immediatamente proponendo contro TOF ricorso d’urgenza ante causam per sequestro ed inibitoria di prodotti e materiali costituenti contraffazione del marchio registrato "(omissis)" e del c.d. marchio di fatto "(omissis)". Tof si affrettò allora a cessare l’utilizzo dei marchi di *****.

In data 12.04.95, ************ citava TOF s.r.l. avanti al Tribunale di Novara per ottenere il risarcimento dei danni conseguente ad atti di contraffazione del brevetto (omissis) e agli atti di concorrenza sleale nonchè per comportamento civilmente illecito per abuso di relazioni contrattuali.

Con sentenza in data 15.10.02, il Tribunale di Novara respingeva le domande attoree, revocava il sequestro e condannava l’attrice alle spese della lite.

Il Giudice osservava, quanto all’inadempienza contrattuale contestata alla convenuta, che non era emersa l’asserita esclusiva; quanto alla concorrenza sleale tramite imitazione servile dei modelli "(omissis)" e "(omissis)", che la parte convenuta aveva fornito prove in ordine sia alla mancanza di novità di entrambi, sia alla mancanza di capacità distintiva, sia alla standardizzazione delle forme stesse.

Avverso tale sentenza ************ proponeva appello, con atto di citazione del 26.02.03.

In via principale chiedeva di accertare e dichiarare TOF responsabile di concorrenza sleale per imitazione servile, concorrenza sleale per violazione degli obblighi di segretezza con abuso di relazioni contrattuali dell’ex collaboratore, concorrenza parassitaria per la sistematica imitazione delle forme distintive e dei marchi di ************ e contraffazione di brevetto per modello ornamentale n. (omissis) del 29.07.86.

TOF s.r.l. si costituiva, con comparsa del 27.05.03, affermando la correttezza della statuizione del primo Giudice e domandando la conferma della sentenza appellata con il favore delle spese.

La Corte d’appello di Torino, con sentenza in data 30.01/10.03.04, respingeva le doglianze dell’appellante e confermava interamente l’impugnata sentenza, condannando la società appellante a rifondere alla controparte le spese.

In primo luogo, sottolineava la Corte che l’onere della prova in tema di imitazione servile del prodotto incombeva su parte attrice.

Affermava poi il Collegio torinese che l’aver reagito sempre ad ogni tipo di usurpazione non escludeva la generalizzazione delle forme delle colonnine in questione e che la domanda di tutela del modello "(omissis)" era del tutto inconferente.

L’incarico di Heineken a ***** per reperire una colonnina che si diversificasse da quelle in ceramica fino ad allora usate era antecedente di ben dieci anni rispetto all’illecito lamentato e non escludeva l’uso, da parte di società concorrenti di Heineken di colonnine costruite in diverso materiale.

I numerosi cataloghi e fatture prodotti non valevano a dimostrate la capacità distintiva e individualizzante in termini di "originalità", tale da divenire "connaturale" delle colonnine *****.

Era, poi, agevole desumere dai docc. 56/60 del fascicolo Tof e dai successivi docc. 61/62 datati 8.1.80, nonchè dalle dichiarazioni del teste A., che la vendita delle colonnine rappresentate nei fotolito in questione era pubblicizzata già nel 1980; affermazione che non era stata sottoposta a censura e che, inoltre, non si poteva ritenere in alcun modo assorbita dall’assunto, del tutto indimostrato, secondo cui il preteso preuso di TOF sarebbe stato remotissimo, per essersi interrotto dagli anni 60 fino al 1985, allorchè la stessa aveva iniziato a lavorare come contoterzista di *****. Parte appellante aveva prodotto una serie di documenti attestanti le reazioni costantemente adottate a tutela dei propri prodotti, ed aveva sostenuto che l’imitazione era fenomeno diverso dalla standardizzazione, ma anche tale motivo era da ritenersi infondato.

Già il Primo Giudice aveva ritenuto esatto il rilievo sollevato da TOF nella comparsa conclusionale secondo cui se le colonnine identiche o simili a quelle della ***** (di cui ai docc. Tof da 21 a 32, da 39 a 48 e da 68 a 71) erano anteriori a quelli di quest’ultima, esse privavano i manufatti di costei della novità e della priorità sul mercato; se invece erano successivi li privavano della valenza distintiva e ne generalizzavano la forma. D’altra parte, il rilievo secondo cui l’imitazione era indice di successo delle forme (comp. concl. Tof) era esatto dal punto di vista socioeconomico, ma dal punto di vista giuridico, posto che tale successo significava standardizzazione e quindi impossibilità di ottenere l’invocata tutela. Se nel mercato la forma di un prodotto è compresente nella produzione di un elevato numero di concorrenti, detta forma finisce per perdere la capacità distintiva di connotare la produzione di uno specifico produttore.

Inoltre, l’asserito valore individualizzante e distintivo delle colonnine ***** al momento della loro immissione sul mercato era rimasto indimostrato. Quindi, la critica svolta al primo Giudice per la "standardizzazione" si appalesava teorica e sostanzialmente irrilevante.

Già il Giudice di prime cure aveva rilevato che l’attrice non aveva allegato e men che meno dimostrato quali fossero stati gli atti e le iniziative oggetto di imitazione e che la sola imitazione dei prodotti non era idonea ad integrare la fattispecie di concorrenza parassitaria, rientrando, invece, nell’imitazione servile. I profili secondo cui TOF, in qualità di conto – terzista, sarebbe incorsa in violazione degli obblighi d segretezza, con abuso di relazioni contrattuali e in sfruttamento illecito dell’avviamento competitivo di *****, erano inammissibili ex art. 345 c.p.c., essendo stati per la prima volta inseriti nelle conclusioni finali ed essendo stato rifiutato il contraddittorio.

Quanto alle censure sulle ricostruzioni fatte dal primo Giudice in punto "predivulgazione" e "mancanza di novità della privativa", doveva rilevarsi che le critiche mosse alla testimonianza B. non assumevano rilievo decisivo, posto che non consideravano che vi erano le altre due testimonianze D.P. e G. a sostegno della produzione e vendita di "(omissis)" già alcuni anni prima della domanda brevettuale, negli anni 1984 e ’85, e ’79 e ’80.

Quanto all’assunto dell’appellante secondo cui, anche in caso di predivulgazione del modello "(omissis)", lo stesso troverebbe tutela nelle norme che reprimono la concorrenza sleale e l’imitazione servile, la Corte torinese osservava che le caratteristiche allegate non erano tali da ritenere che, una volta confermata la nullità del brevetto, gli argomenti in punto di mancanza di capacità distintiva già svolti a proposito delle colonnine "(omissis)" e "(omissis)" non avrebbero dovuto essere estesi anche a "(omissis)".

Avverso tale sentenza ************ proponeva ricorso per cassazione, notificato in data 29.09.04, esponendo 13 motivi di gravame.

La TOF s.r.l. proponeva controricorso, notificato 27.10.04, chiedendo di rigettare il ricorso e depositando in fotocopia gli atti difensivi del fascicolo di primo grado che era andato smarrito. Depositava altresì memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. Come primo motivo di ricorso, la difesa ricorrente deduceva la violazione e/o falsa applicazione delle norme dell’art. 2697 c.c., e art. 116 c.p.c., in rapporto all’art. 2598 c.c., con particolare riferimento al requisito di novità, nonchè la contradditoriertà della motivazione della sentenza sul punto decisivo della controversia, riguardante il requisito di novità.

Secondo la società ricorrente, in materia di imitazione servile, spettava al convenuto l’onere di provare la mancanza di novità del prodotto imitato attraverso l’esibizione di anteriorità anticipatole, documentando un fatto estintivo o impeditivo. La Corte torinese si era uniformata a tale quadro normativo solo in apparenza, invocando il principio a parole, ma disapplicandolo nella realtà dei fatti. Nel caso di specie, mentre il primo Giudice aveva erroneamente addossato alla ricorrente la prova di un fatto negativo, la Corte d’appello, pur condividendo in linea di principio la prova di un fatto negativo non fosse esigibile, aveva finito con l’appiattirsi sulla motivazione di primo grado affermando che "…nessuna delle argomentazioni addotte da parte appellante giova(va) a superare il diniego di capacità distintiva ed individualizzante".

L’errore di prospettiva della Corte piemontese era evidente.

Infatti, tale Collegio avrebbe dovuto esaminare e valutare la veridicità storica e l’efficacia ostativa delle eccezioni sollevate da TOF s.r.l..

In tal modo la Corte aveva travisato l’art. 2697 c.c., impedendo una corretta e lineare operatività del divieto di cui all’art. 2598 c.c..

La prova del fatto negativo sarebbe stata eccessivamente gravosa per i titolari di privative di fatto e un’attenuazione del rigore probatorio in sede interpretativa sarebbe stata coerente alla ratio della fattispecie. Se si fosse aumentato l’onere di tali allegazioni, si sarebbe potuto imporre all’attore di documentare lo stato dell’arte esistente al momento dell’inizio dell’uso, in modo da marcare la non evidenza della forma pretesamente nuova rispetto al panorama vigente (in tal senso Appello Milano, 26.10.99).

La società ***** avrebbe, quindi, dovuto documentare come si realizzavano le colonnine nel momento in cui era nata e si era accreditata la colonnina (omissis).

Tale elemento era stato offerto da ************ attraverso l’esibizione di numerosi depliant comprovanti come la forma delle colonnine in questione, non avendo carattere funzionale, poteva venir realizzata nelle forme più svariate dai concorrenti.

Tale prova era stata offerta anche da TOF s.r.l., che pur avendo esibito una moltitudine di cataloghi concorrenti, non aveva prodotto nemmeno un documento anticipatorio e cronologicamente antecedente alle date di immissione sul mercato da parte di *************

1.2. Questo Collegio ritiene che il motivo di doglianza sia infondato.

Deve innanzitutto essere disatteso il rilievo della controricorrente secondo cui ***** non avrebbe proposto alcuna specifica doglianza nei confronti della sentenza impugnata in relazione all’illecito concorrenziale coinvolgente le colonnine "(omissis)" ed il marchio "(omissis)", cosicchè il dibattito dovrebbe intendersi limitato alle colonnine (omissis).

Ritiene questo collegio che le censure mosse dalla difesa ricorrente investano nel complesso la decisione della Corte d’appello di Torino, con un’analisi diffusa, nell’ambito della quale deve ritenersi compreso anche il rigetto della tutela per il modello "(omissis)", mentre risulta espressamente riproposto il tema della tutela del marchio, quantomeno con riferimento all’efficacia individualizzante del binomio forma/marchio Cobra, di cui al terzo motivo di censura.

Sgombrato il campo da tale eccezione di carattere pregiudiziale deve escludersi anche rilievo risolutivo, in termini pregiudiziali dell’esame del merito delle singole censure, all’ulteriore affermazione di parte resistente secondo cui il ricorso dovrebbe intendersi nel suo complesso inammissibile, perchè contenente un sindacato di valutazioni discrezionali e apprezzamento dei fatti e risultanze istruttorie. L’eccezione è fondata solo in parte e, nell’analisi dei singoli motivi di ricorso, si illustreranno i punti sui quali un simile rilievo è da condividere. Ragioni logiche inducono ad esaminare congiuntamente al primo motivo il secondo motivo di ricorso.

2.1 Come secondo motivo la difesa della s.p.a. ***** ha dedotto l’omessa motivazione della sentenza sul punto, decisivo della controversia, del requisito della novità. La sentenza sembrava voler risolvere il problema della novità nell’assenza di distintività, in una indebita sovrapposizione dei due piani logici, che, invece, dovevano essere mantenuti ben distinti.

Pur sussistendo un preciso quadro indiziario e presuntivo a favore di *****, e preso atto dell’inerzia di TOF, l’aver neutralizzato il giudizio positivo di novità con un giudizio negativo di distintività non era conforme nè a legge nè a logica.

2.2 Premette questa Corte che i rilievi di parte ricorrente sono sicuramente puntuali e coerenti con l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria sulla distinzione del requisito della novità rispetto a quello della distintività. Ed in vero, il requisito della novità porta ad escludere la tutela di forme che al momento della loro adozione siano simili a quelle già prodotte e immesse sul mercato da altri, laddove il concetto di distintività vale ad indicare quel carattere idoneo a rendere il prodotto riconoscibile agli occhi del pubblico come proveniente da una certa impresa e postula che esso sia noto sul mercato.

La Corte d’appello ha riferito il puntuale rilievo al riguardo del primo giudice ("chi agisce per imitazione servile ha l’onere di provare il fatto costitutivo della sua pretesa, cioè la priorità della forma che si assume imitata, ed il carattere distintivo e non funzionale della stessa"), non senza aver preso indirettamente autonoma posizione sul punto, affermando che incombeva su parte attrice l’onere di provare, ai sensi dell’art. 2697 c.c., comma 1, il carattere distintivo e gli elementi di individuazione (quindi il profilo della distintività), di priorità e di originalità dei prodotti asseritamene imitati (quindi il profilo della novità; vedi pag. 11). E’ vero poi che la Corte non si è occupata più specificamente dell’uno e dell’altro requisito (della distintività e/o della novità), essendosi preoccupata di dare risposta alla censura articolata dalla difesa dell’appellante ***** in merito alle regole circa l’onere della prova. Ha così affermato che ***** avrebbe potuto dimostrare con riviste di settore che all’epoca dell’introduzione sul mercato dei propri prodotti le forme erano diverse. Tuttavia non ha ritenuto di dilungarsi su tale profilo (e quindi, come si dirà in seguito, anche i rilievi della ricorrente al riguardo perdono di rilevanza), essendo passata a considerare che nessuna delle argomentazioni addotte da parte appellante giovava a superare il diniego di capacità distintiva e individualizzante. La Corte, quindi, ha ritenuto di procedere con la tecnica argomentativa di non formulare un’espressa valutazione sulla novità della forma, per passare subito a prendere in esame il successivo requisito della capacità distintiva.

Tale tecnica non appare errata e non denuncia nè una violazione di legge nè un vizio di motivazione. L’esclusione del requisito della distintività, infatti, rendeva superflua una pronuncia sulla novità, dal momento che entrambi i requisiti sono necessari per il prodotto che sì assume imitato, al fine di integrare la fattispecie dell’imitazione servile.

Ed invero, l’originalità del prodotto e la sua capacità distintiva integrano entrambi fatti costitutivi della dedotta contraffazione per imitazione servile, essendo i medesimi requisiti necessari non in via alternativa, ma in via cumulativa. Il relativo onere probatorio incombe, quindi, su chi agisce in contraffazione, mentre incombe sul convenuto in contraffazione l’onere di provare la mancanza di novità del prodotto dell’attore o la perdita sopravvenuta della sua capacità distintiva, quali fatti estintivi dell’altrui diritto. E’ stato da alcuni osservato che un onere probatorio può ricorrere solo in ordine alla novità e notorietà della forma, mentre la capacità distintiva non sarebbe oggetto di prova, ma di valutazione del giudice sulla base del notorio. Merita di essere considerato che, secondo consolidata giurisprudenza, integra gli estremi dell’illecito di concorrenza sleale sotto il profilo della cosiddetta "imitazione servile", sanzionato dall’art. 2598 c.c., n. 1, il comportamento dell’imprenditore che imiti un prodotto la cui forma abbia un valore individualizzante e distintivo, indipendentemente dall’essere il prodotto stesso oggetto di brevetto, in modo tale da creare confusione con quello messo in commercio dal "concorrente" (sez. 1, sentenza n. 13918 del 13/12/1999, rv. 532066; in senso conforme: n. 661 del 1992 rv, 475387, n. 7869 del 1997 rv. 506987, a 2578 del 1998 rv. 513482, n. 3967 del 2004 rv. 3967).

La tutela di cui alla norma indicata, quindi, concerne le forme aventi efficacia individualizzante e diversificatrice del prodotto rispetto ad altri simili, non essendo tuttavia compresi nella tutela medesima gli elementi formali dei prodotti imitati che nella percezione del pubblico non assolvano ad una specifica funzione distintiva del prodotto stesso, intesa nel duplice effetto di differenziarlo rispetto ai prodotti simili e di identificarlo come riconducibile ad una determinata impresa. Può aggiungersi che l’imitazione rilevante ai fini della concorrenza sleale per confondibilità non si identifica con la riproduzione di qualsiasi forma del prodotto altrui, ma solo con quella che cade sulle caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante e cioè idonee, proprio in virtù della loro capacità distintiva, a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa. In ogni caso, non si può attribuire carattere individualizzante alla forma funzionale, cioè a quella resa necessaria dalle stesse caratteristiche funzionali del prodotto. Pertanto, la fabbricazione di prodotti identici nella forma a quelli realizzati da impresa concorrente (che non abbia provveduto a registrare il brevetto, ovvero non fruisca più della scaduta tutela brevettuale, o comunque non la invochi), costituisce atto di concorrenza sleale soltanto se la ripetizione dei connotati formali non si limiti a quei profili resi necessari dalle stesse caratteristiche funzionali del prodotto, ma investa caratteristiche del tutto inessenziali alla relativa funzione. Se, infatti, non ricorre una privativa a tutela di una determinata funzione e di una determinata forma, alla libera riproducibilità della funzione corrisponde la altrettanto libera riproducibilità della forma che, necessariamente, la realizza (in tal senso: sez. 1, sentenza n. 1062 del 19/01/2006, rv. 585952; n. 2578 del 1998 rv.

513482, n. 697 del 1999 rv. 522633, n. 3967 del 2004 rv. 570611).

Deve ancora rilevarsi come la tutela di cui all’art. 2598 c.c., n. 1, valga a tutelare le forme arbitrarie e capricciose e non quelle che, pur dotate di capacità distintiva, abbiano al contempo carattere funzionale sotto il profilo tecnico ed estetico. Si esclude, inoltre, l’applicabilità di questa ipotesi di concorrenza sleale alle forme brevettabili ed a quelle per cui la protezione brevettuale sia scaduta.

L’imitazione di forme con valenza estetica è libera solo quando esse non siano suscettibili di varianti, avendo l’imitatore l’onere di differenziarsi con le c.d. varianti innocue, cioè mediante quelle varianti che non compromettano il pregio estetico della forma e non richiedano costi anticompetitivi.

Sulla base di tali premesse deve considerarsi che le conclusioni cui è pervenuta la Corte d’appello in merito alla mancanza del requisito della distintività, sono sufficienti a minare il costrutto dell’attrice – appellante e ad escludere la ricorrenza della fattispecie di concorrenza sleale.

Quanto al giudizio circa detta carenza di distintività può fin d’ora osservarsi come le censure dedotte (si analizzerà meglio la problematica rispondendo ai successivi motivi di impugnazione che riguardano nello specifico le prove e la loro valutazione) sollecitano da questa Corte un giudizio di merito ed una diversa valutazione degli elementi probatori, che non può certo essere rimessa al sindacato di legittimità.

A proposito del rilievo di parte ricorrente secondo cui i depliants prodotti avrebbero dimostrato che la forma delle colonnine per l’erogazione di bevande all’epoca dell’immissione sul mercato delle colonnine (omissis) di ***** si atteggiava il forme diverse, lo stesso non appare risolutivo al fine di dimostrare il carattere individualizzante e distintivo delle colonnine *****, potendo al massimo dimostrare che non si trattava di forme generalizzate. In relazione alle doglianze circa la prova negativa che sarebbe gravata su ***** (dimostrare che nessun altro aveva all’epoca utilizzato la forma delle colonnine ***** per gli erogatori in questione), va rilevato che la Corte d’appello, coerentemente con le premesse svolte, non ha valorizzato l’omessa ottemperanza all’onere probatorio da parte di *****, bensì l’offerta in causa da parte di TOF della prova positiva di aver realizzato colonnine con quelle forme prima dell’immissione sul mercato delle stesse da parte di *****. Inoltre, come già si è detto, la Corte non ha ritenuto raggiunta in causa la prova dell’altro elemento imprescindibile per la tutela invocata, quello della distintività nel senso già sopra indicato.

I primi due motivi di ricorso sono, pertanto, infondati.

3.1 Con il terzo motivo di gravame, la difesa di ***** ha imputato alla sentenza impugnata l’omissione e contraddittorietà della motivazione (ovvero l’omesso giudizio) sul punto decisivo della controversia del requisito di distintività e/o originalità.

La Corte d’Appello, infatti, non si sarebbe premurata di spiegare per quali motivi abbia ritenuto le forme del prodotto ***** prive dei requisiti di originalità e distintività.

La ricorrente sottolineava che sarebbe stato logico aspettarsi un ragionamento sui motivi che inducevano ad escludere o ad ammettere l’originalità della morfologia esteriore, come l’ovvietà o l’innovatività geometrica, la banalità o l’incisività estetica, la pochezza o ricercatezza stilistica, la povertà o ricchezza volumetrica e così via. Sarebbe stato inoltre opportuno esprimere una valutatone sull’efficacia individualizzante del binomio forma/marchio (serpente a forma di cobra/nome (omissis)) e sull’enorme diffusione e conclamata celebrità dell’articolo. La sentenza sostiene che non basta il preteso accreditamento sul mercato a dimostrare che la forma delle colonnine in questione fosse munita di quella "originalità", tale da divenire connaturale delle stesse. Il richiamo che il Collegio torinese aveva fatto al concetto di originalità connaturale era fuorviante. I Giudici avevano citato una sentenza della Suprema Corte (n. 7869/87) in cui era stato statuito che "… la forma individualizzante oggetto della tutela concorrenziale è dunque la forma munita di capacità distintiva, in tal senso costituente l’originalità del prodotto, tale da divenire connaturale, nell’immagine presso il consumatore, del prodotto stesso". In tale contesto l’originalità connaturale era sinonimo di avviamento, ossia di accreditamento sul mercato della forma stessa.

Ad avviso della difesa ricorrente, la citazione conteneva cioè l’esatto contrario di ciò che aveva affermato la Corte d’appello torinese.

3.2. In merito al terzo motivo di ricorso deve rilevarsi l’infondatezza dello stesso. Non risponde a verità, infatti, che la Corte non si sia pronunciata sulle ragioni dell’esclusione dei requisiti della originalità e, soprattutto, distintività delle colonnine *****. Innanzitutto il collegio torinese rilevava che l’incarico di Heineken a ***** per reperire una colonnina che si diversificasse da quelle in ceramica fino ad allora usate era antecedente di ben dieci anni rispetto all’illecito lamentato e non escludeva l’uso, da parte di società concorrenti di Heineken, di colonnine costruite in diverso materiale. La Corte, contrariamente a quanto asserito dalla difesa ricorrente, esaminava i numerosi cataloghi e fatture prodotti dall’appellante, ma riteneva che gli stessi non valessero a dimostrare la capacità distintiva e individualizzante, tale da divenire "connaturale" alle colonnine *****. Osservava poi come fosse agevole desumere dai docc. 56/60 del fascicolo Tof e dai successivi docc. 61/62 datati 8.1.80, nonchè dalle dichiarazioni del teste A., che la vendita delle colonnine rappresentate nei fotolito in questione era stata pubblicizzata già nel 1980; affermazione che, a giudizio del collegio torinese, non era stata sottoposta a censura e che, inoltre, non si poteva ritenere in alcun modo assorbita dall’assunto, del tutto indimostrato, secondo cui il preteso preuso di TOF sarebbe stato remotissimo, per essersi interrotto dagli anni ’60 fino al 1985, allorchè la stessa aveva iniziato a lavorare come contoterzista di *****.

Rilevava ancora la Corte d’appello come già il primo Giudice avesse ritenuto esatto il rilievo sollevato da TOF nella comparsa conclusionale secondo cui, se le colonnine identiche o simili a quelle della ***** (di cui ai docc. Tof da 21 a 32, da 39 a 48 e da 68 a 71) erano anteriori a quelle di quest’ultima, esse privavano i manufatti di costei della novità e della priorità sul mercato; se invece erano successivi, li privavano della valenza distintiva e ne generalizzavano la forma. D’altra parte, il rilievo secondo cui l’imitazione era indice di successo delle forme (comp. concl. Tof) era esatto dal punto di vista socio-economico, ma non dal punto di vista giuridico, posto che tale successo significava standardizzazione e quindi impossibilità di ottenere l’invocata tutela.

Se nel mercato la forma di un prodotto è compresente nella produzione di un elevato numero di concorrenti, detta forma finisce per perdere la capacità distintiva di connotare la produzione di uno specifico produttore.

In termini conclusivi e risolutivi la Corte torinese notava che l’asserito valore individualizzante e distintivo delle colonnine ***** al momento della loro immissione sul mercato era rimasto indimostrato. Quindi, la critica svolta al primo Giudice per la "standardizzazione" si appalesava teorica e sostanzialmente irrilevante. Questa Corte ritiene che la disamina condotta dai Giudici dell’appello sia condivisibile, se non in tutti i suoi passaggi argomentativi, quantomeno nella considerazioni conclusive.

Si è già detto che bastava la sola carenza dell’elemento della distintività per rendere non invocabile la tutela di cui all’art. 2598 c.c., n. 1. Il riconoscimento o meno del carattere distintivo discende da valutazioni che rivestono indubbiamente un margine di discrezionalità, valutazioni rimesse ai Giudici di merito sulla base di un giudizio sottratto al vaglio di legittimità, ove sorretto da adeguata e logica motivazione. Tale deve dirsi quella concordemente formulata dai Giudici di merito nel caso di specie.

Ed invero, può ricorrere il caso in cui il giudizio sulla distintività sia rimesso ad un’indagine di mercato, volta ad accertare se quel certo prodotto, quella certa forma o quel certo segno distintivo siano considerati, nella percezione del consumatore mediamente avveduto ed informato, da un lato, come provenienti da una determinata impresa e, dall’altro, come idonei a differenziare il prodotto o segno in esame dai prodotti simili o dai segni analoghi di altre imprese. Tuttavia, fatta eccezione del predetto caso, più frequentemente un simile giudizio va verificato con riferimento agli ordinari mezzi di prova.

Si è già detto che il relativo onere probatorio fa carico a colui che agisce in contraffazione, secondo i principi generali di cui all’art. 2697 c.c., anche se una simile prova ben può essere offerta tramite presunzioni. Nel caso in esame, tuttavia, i Giudici del merito non solo hanno rilevato che parte attrice – appellante a tale proposito non aveva ottemperato all’onere probatorio che le faceva carico, ma hanno all’opposto rilevato che dalla documentazione prodotta da parte convenuta – appellata e dai testi escussi era emerso che il prodotto ***** fosse stato anticipato. Le doglianze formulate a proposito di detto giudizio da parte della difesa ricorrente finiscono per tradursi in censure di merito, che non riescono ad individuare lacune nella sentenza impugnata, la quale, contrariamente a quanto denunciato dalla ricorrente, si è invece espressa circa le ragioni che inducevano la Corte territoriale ad escludere il carattere distintivo ed individualizzante per il prodotto *****.

I termini con cui la ricorrente si lamenta di tale valutazione non sono ammissibili nella presente sede di legittimità. Ed invero, il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione ex art 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal Giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione, non consistendo nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal Giudice di merito. La sua deduzione con ricorso per cassazione conferisce al Giudice di legittimità, non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui alla prova è assegnato un valore legale) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (Cass. sent. a 828 del 16/01/2007, rv. 593744; n. 17076 del 3.8.07, rv. 600132; n. 6064 del 6.3.08, rv. 602595: Cass. S.U. 27.12.1997 n. 13045).

Il terzo motivo di ricorso, quindi, appare in parte infondato (ove si assume che la Corte torinese non abbia dato conto delle motivazioni delle sue scelte), in parte inammissibile (ove si sottopone a censura la valutazione espressa in merito alle prove).

4. Come quarto motivo di ricorso la difesa della società ***** ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 2597 c.c., e dell’art. 116 c.p.c., in rapporto all’art. 2598 c.c..

Sottolinea la ricorrente che le deposizioni dei testi, giudicate isolatamente come prive di valore assoluto, non erano state valutate alla luce del contesto probatorio complessivo.

La Corte d’Appello si era limitata ad una valutazione atomistica dei singoli elementi, mentre avrebbe dovuto valutare se gli elementi offerti da *****, considerati nel loro insieme, avrebbero potuto essere esaustivi della prova che a questa incombeva.

Ad avviso della ricorrente, il Collegio si era precluso la possibilità di una disamina integrata e armonica delle risultanze probatorie, che avrebbe consentito l’emersione del carattere di novità e distintività delle colonnine (omissis).

Meritano di essere esaminate congiuntamente le censure articolate con il quinto motivo di ricorso.

5.1 Con il quinto motivo di gravame, la difesa ricorrente ha dedotto la violazione o falsa applicazione sotto il profilo processuale degli artt. 2697, 2712 e 2729 c.c., e sotto il profilo sostanziale dell’art. 2598 c.c., nonchè omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione alla rilevanza degli elementi documentali allegati da TOF s.r.l. a sostegno del proprio asserito preuso della colonna (omissis).

La Corte aveva erroneamente attribuito all’attrice – appellante l’onere di provare l’inesistenza di forme simili, anzichè pretendere anche da TOF s.r.l. la prova contraria dell’esistenza di forme simili. Spettava a TOF dare prova convincente dell’esistenza di anteriorizzazioni capaci di distruggere la novità del prodotto di *****.

Al contrario, la controparte non era stata in grado di provare un solo atto di preuso, avendo risposto con pochi ed inconferenti documenti quali: un catalogo di dubbia provenienza asseritamente risalente al 1955, una richiesta di listino prezzi risalente al 1961, in cui si accennava a colonne con forma di "collo di cigno", una foto corredata della fattura del (omissis), del fotografo R..

I primi due documenti erano, però, stati reputati ininfluenti dalla Corte d’appello di Torino, salvo poi assegnare, incomprensibilmente, rilievo anticipatorio ed invalidante alla foto del fotografo R..

Il Collegio torinese aveva quindi basato il suo giudizio negativo di novità su tale reperto cartaceo, anche in quanto confermato dal teste A..

Ma il documento R. in sè non dimostra il preuso, nemmeno se confermato dall’autista a distanza di 20 anni circa, con riferimento alla consegna di un pacco contenente una colonna di metallo. In ogni caso, la motivazione sarebbe del tutto insufficiente a giustificare la ritenuta sussistenza di un inesistente preuso di Tof. Il Giudice d’appello aveva inopinatamente disatteso il dettato normativo violando la ratio della fattispecie, dal momento che, secondo autorevole dottrina, non era tutelabile la forma "…semplicemente creata, progettata da un imprenditore che intenda adottarla per i propri prodotti…".

La creazione fotografica, in ogni caso, non implicava l’uso e la diffusione commerciale del relativo prodotto. Inoltre, la Corte aveva iniquamente e contraddittoriamente assegnato alla deposizione del teste A. carattere di assolutezza e universalità, carattere negato invece ai testi della *************

5.2 Anche in relazione al quarto e al quinto motivo di ricorso valgono i rilievi esposti con riferimento al terzo motivo di censura (vedi punto 3.2).

Va rilevato infatti che la Corte torinese ha esaminato le prove testimoniali (pp. 13 e 16 e 23), nonchè le prove documentali (pp. 13, 15, 16 e 24); ha correttamente posto le une in correlazione con le altre ed ha proceduto altresì al confronto delle deposizioni rese dai testimoni indicati da ***** con quelle rese dai testimoni indicati da TOF. Tale operazione risulta condotta in termini corretti. Nè ha pregio il rilievo dell’aver attribuito carattere di assolutezza alla testimonianza A. e non a quella dei testi *****, ove si consideri che la sentenza ha riferito che nella deposizione resa il teste ******* ebbe a riferire "quel tipo di pezzo era per noi una novità" ed è per tale rilievo che la Corte ha mostrato di condividere l’affermazione del primo Giudice circa la carenza del carattere di assolutezza ed universalità di tale dichiarazione. Quanto alle conclusioni che i Giudici dell’appello hanno tratto sulle prove in generale, non può che richiamarsi quanto già si è detto sull’impossibilità di dedurre quale vizio di legittimità la difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal Giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto Giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui un valore legale è assegnato alla prova.

Sulle risultanze istruttorie che TOF avesse introdotto sul mercato la propria colonnina a forma di collo di cobra prima di ***** (doc. fotografica e fiscale di R., conferma testimoniale di A.), deve rilevarsi, in termini risolutivi, che la Corte d’appello ha osservato (p. 16) che la ratio decidendi in punto valutazione del primo Giudice dei documenti da 56 a 60 e poi 61 – 62, prodotti dalla TOF, dai quali sarebbe stato agevole desumere che la vendita delle colonnine a forma di cobra era stata pubblicizzata già nel 1980 dalla Rubinetteria ***************** (dante causa di TOF), non era stata sottoposta a censura.

Tale rilievo della sentenza d’appello non ha costituito oggetto di specifica censura da parte della difesa ricorrente, che mostra di trascurarlo, sottoponendo in questa sede a censura direttamente i documenti già analizzati nei termini sopra riportati. Lamenta ora la ricorrente che mancherebbe la prova della diffusione sul mercato delle colonnine TOF, ma la circostanza è stata data per acquisita dai giudici dell’appello, in quanto non sottoposta a censura da parte di *****. Quindi, non può essere riproposta in questa sede anche per tale ragione, oltre che perchè comunque sì tratterebbe di sollecitare da parte di questa Corte una inammissibile diversa valutazione dei mezzi istruttori raccolti nel giudizio di merito.

6.1 Come sesto motivo di gravame, la ricorrente ha dedotto la violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., e art. 2598 c.c., n. 1 e art. 2729 c.c., nonchè omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all’estensione temporale dell’asserito preuso della colonna (omissis).

Quand’anche si fosse ritenuto effettivo il preuso di TOF s.r.l. sulla forma della colonna (omissis), ***** non aveva mancato di osservare come tale preuso fosse talmente remoto, da essersene persa ogni memoria.

"Quando il preuso di un segno distintivo sia da tempo cessato, il segno stesso rientra nella disponibilità altrui, e chiunque è libero di acquistare su di esso un diritto di esclusiva" (Cass. n. 4383/76 e Appello Torino, 1 ottobre 1991). Nel caso in esame il preteso preuso si sarebbe perso negli anni ’50 e ’60 e la TOF s.r.l. non era stata in grado di allegare, esibire o produrre documenti comprovanti la commercializzazione di tali colonnine nel periodo tra il 1955 e il 1982 o la commercializzazione di tali colonnine dal 1982 a inizio anni ’90 a soggetti diversi da *************

Il preteso preuso di TOF, se esistito, non aveva importato alcuna notorietà sul segno distintivo tridimensionale di TOF, data l’esiguità del numero di esemplari pretesamene trattati.

I testi di TOF avevano tutti indistintamente collocato la pretesa produzione di colonne (omissis) negli anni ’60 (teste L., si era riferito agli anni 1959 – 1960, teste C. al 1974 – 1975, teste V. al periodo dal 1961, teste Al. al 1962).

Il titolare di TOF s.r.l., inoltre, aveva dichiarato nel verbale di sequestro del 1996 di non possedere stampi ed esemplari della Colonna (omissis), nè di averli mai posseduti o prodotti nei 15 anni precedenti e che nulla poteva riferire per il periodo precedente.

La sentenza della Corte torinese sul punto si presentava sbrigativa, avendo affermato solo che non "può ritenersi in alcun modo assorbita dall’assunto, del tutto indimostrato, secondo cui il preteso preuso di TOF sarebbe remotissimo…e non avrebbe esercitato alcuna rilevanza invalidante della forma di cui **************, nel 1982, sarebbe stata libera di appropriarsi". 6.2 Sul punto basti rilevare che, una volta che TOF aveva dimostrato (e così almeno hanno ritenuto i Giudici di merito) che vi era stata un’anteriore diffusione del modello di colonnine per cui è causa, spettava a ***** allegare e dimostrare che tale preuso era cessato.

Del resto, le considerazioni svolte dal primo Giudice e ritenute definitivamente accertate dalla Corte d’appello riguardavano un utilizzo del modello nel 1980 e, quindi, prossimo all’introduzione sul mercato del modello (omissis) da parte di *****. Nè poteva essere argomento risolutivo quanto dichiarato dal titolare della TOF, le cui affermazioni (proprio nei termini riferiti dalla ricorrente) si riferivano al solo modello (omissis) e non all’intera produzione di modelli simili. In ogni caso appare sempre argomento risolutivo e non validamente smentito dalle argomentazioni opposte dalla difesa ricorrente, il giudizio espresso dai Giudici di merito circa la mancanza del requisito della distintività, requisito che, come si è detto, richiede un quid pluris rispetto alla semplice novità e originalità del trovato.

7.1 Come settimo motivo di gravame, la ricorrente deduceva la violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., in rapporto alla L. Invenzioni art. 15, e alla L. Modelli artt. 1 e 5, nonchè omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione alla validità del modello ornamentale di ************ n. (omissis) relativo alla colonna " (omissis)".

La difesa ***** aveva sollevato censure alle deposizioni testimoniali ed aveva sottolineato la preminenza che i Giudici erano soliti assegnare ai reperti documentali, anzichè alle prove orali.

Tali reperti documentali cristallizzavano le creazioni degli stampi della Colonna (omissis) e della (omissis).

Celli aveva, inoltre, precisato che i doc. 15, 16, 17 si riferivano a "(omissis)" e non a "(omissis)" ed aveva chiesto nelle deduzioni 19.12.96, ribadendo la richiesta alla precisazione delle conclusioni in atto di appello, l’ammissione di uno specifico capitolo di prova testimoniale sul punto, capitolo non ammesso, posto che l’ordinanza 20 – 23.08.97 aveva recepito solo le istanze istruttorie di cui alle deduzioni 4.04.96.

Asseriva, inoltre, quanto alla ritenuta predivulgazione del modello, che la documentazioni relativa al rapporto tra ***** s.p.a. e ****************** non era idonea a provocare alcun tipo di accesso al pubblico del trovato. Aggiungeva che il preuso dell’oggetto brevettando (prototipo) non integrava gli estremi della predivulgazione invalidante.

"Il preuso dell’invenzione non esclude che essa possieda il requisito della novità intrinseca quando non sia stata provato che le caratteristiche strutturali di essa fossero state divulgate nei confronti a un numero indeterminato di persone attraverso la diffusione di depliant o in altro modo prima del deposito della domanda di brevetto" (App. Bologna 18.07.1991).

La ricorrente affermava, poi, che non era dato comprendere come il giudice dell’appello avesse potuto trarre la plausibile certezza che il doc. 16 di TOF s.r.l. fosse riferito al modello "(omissis)" e, soprattutto, che tale modello fosse stato distribuito sul mercato.

7.2 Le censure così articolate ancora una volta si traducono nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle prove e nella critica in ordine alla scelta delle risultanze istruttorie. I Giudici di merito hanno dato conto che gli stessi testi indicati da ***** (********, teste P.) avevano confermato la predivulgazione dell’oggetto del modello, avendo confermato che una fattura si riferiva proprio al "(omissis)", mentre il quantitativo commissionato alla ******************** non poteva certo essere inteso quale semplice campionatura, trattandosi di quantità commerciali, all’evidenza destinate alla vendita. I rilievi in diritto svolti a tale riguardo non hanno pregio nel caso di specie, posto che si fondano su circostanze di fatto che ne smentiscono i presupposti.

Quanto al capitolo di prova per il quale si lamenta la non ammissione, deve rilevarsi che la ritenuta divulgazione si fonda su una pluralità di elementi documentali e testimoniali, a fronte dei quali la difesa ricorrente non è stata in grado di dimostrare che quel capitolo, ove ammesso, avrebbe invalidato l’efficacia delle altre risultanze istruttorie. La risultanza processuale non esaminata poi deve essere tale da invalidare con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze processuali sulle quali è fondato il convincimento del Giudice (Cass. n. 15797/00; n. 13963/01; n. 13630/01). Ciò non può dirsi per il caso di specie, ove la rilevanza del capitolo dedotto sarebbe comunque del tutto circoscritta.

Quanto al fatto che non sarebbe provato che il prodotto TOF era distribuito sul mercato, la Corte ha ritenuto di decidere in base alla presunzione che TOF senza un’apprezzabile ragione non poteva essersi astenuta dal mettere sul mercato il prodotto. Si tratta di una presunzione non certo illogica. Tuttavia si deve considerare, in termini risolutivi, che per invalidare un modello non occorre la messa sul mercato del prodotto in termini di sua commercializzazione, ma basta che altri in qualsiasi modo abbia predivulgato quel modello, che è quanto ha fatto TOF realizzando quantomeno dei campioni e facendoli oggetto di commessa fotografica al R..

8. Devono ora essere presi in considerazione congiuntamente i motivi 8, 9 e 10, tutti riguardanti il problema della standardizzazione.

Come ottavo motivo di censura il difensore della ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., in relazione all’eccezione di standardizzazione.

L’asserito valore individualizzante e distintivo delle colonnine in questione al momento della loro immissione sul mercato era rimasto indimostrato.

La critica rivolta al termine standardizzazione usato dal primo Giudice, basata sul fatto che si trattava piuttosto di imitazione servile delle colonnine, note come prodotte da ***** s.p.a., attuata da terzi concorrenti e sulla quale non vi era mai stata tolleranza, si appalesava come teorica e sostanzialmente irrilevante.

La Corte torinese aveva interpretato erroneamente il dettato normativo nella misura in cui aveva indebitamente instaurato un’equazione tra il concetto di diffusione e quello di standardizzazione.

9. Con il nono motivo di ricorso la difesa ***** imputa alla sentenza impugnata la violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., in rapporto all’art. 2598 c.c., in relazione alla prova dell’eccezione di standardizzazione. All’atto pratico il Giudice d’appello aveva ritenuto sufficienti pochi e confusi documenti, mai adeguatamente esaminati, per fondare l’eccezione avversaria. La sentenza era insufficientemente motivata nella misura in cui fondava l’eccezione di standardizzazione con generico rinvio all’elenco di documenti ex adverso prodotti senza che dalla motivazione fosse evincibile il riferimento a singoli prodotti artefici della standardizzazione.

Il difetto di motivazione determinava l’incomprensibilità della conclusione assunta.

10.1 Come decimo motivo di ricorso, la difesa ***** ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., in relazione all’eccezione di standardizzazione in presenza di attività reattiva del titolare della privativa. Il Collegio torinese aveva erroneamente ritenuto irrilevante il fatto che ***** s.p.a. fosse sempre stata attenta alla tutela giudiziale della propria attività affermando che "l’aver sempre reagito ad ogni tipo di violazione non escludeva la generalizzazione delle colonnine in questione del 1995". Al contrario, il fenomeno di standardizzazione non si configurava in presenza di una reazione giudiziale e quindi di mancata acquiescenza del titolare delle forme registrate nel territorio in cui lo stessa reclamava l’esclusiva (Trib. Napoli 8.11.96, Trib. Milano 16.6.1986).

Con l’atto di citazione in appello erano stati prodotti altri documenti ad ulteriore prova delle reazioni di *****, quali una denuncia penale presso la Procura di Novara, la citazione contro la concorrente Vin Service s.r.l. (davanti al Trib. Rimini), la citazione contro la concorrente Berbex s.r.l. (Trib. Rimini RG 748/00), la diffida in data 17.03.95 contro IMI ********* s.r.l..

10.2 I motivi in linea astratta possono essere ritenuti fondati, in quanto sicuramente si coglie una certa confusione nella sentenza impugnata fra il concetto di semplice diffusione e quello di standardizzazione. La standardizzazione, altrimenti indicata come generalizzazione o volgarizzazione, infatti, è qualcosa di più della semplice diffusione o della notorietà acquisita dal prodotto sul mercato. In tema di marchio, infatti, si è detto che la volgarizzazione consiste nell’acquisizione nel linguaggio comune dell’espressione oggetto del marchio, ovvero costituente un elemento del medesimo, quale idonea a rappresentare un certo tipo di prodotto, indipendentemente dal concorso dell’inattività del titolare del brevetto ed in esito ad un processo di generalizzazione svoltosi nell’ambiente sociale, (vedi: Sez. U, sentenza n. 5376 del 23/10/1984, caso "****** up", rv. 437085). Sempre in tema di marchio è stato ritenuto che, la decadenza del brevetto per marchio, per essere divenuto denominazione generica del prodotto, opera (operava, parlandosi ora di registrazione del marchio e non più di brevettazione, ma le conseguenze non cambiano, neppure alla luce dell’analoga disposizione del Codice Proprietà Industriale), a norma del R.D. n. 929 del 1942, art. 41, per il fatto obiettivo dell’avvenuta volgarizzazione, indipendentemente dal concorso dell’inattività del titolare, dato che questi non potrebbe opporsi ad una realtà effettuale consistente nell’acquisizione della parola al linguaggio comune dei consumatori e dei produttori, siccome indicativa genericamente di un prodotto, indipendentemente dal suo produttore. Consegue che il marchio volgarizzato può essere utilizzato, a termini dell’art. 2563 c.c., dall’impresa, che fabbrica il prodotto con esso indicato, anche con la sua inclusione nella ditta, quando questa sia caratterizzata dal nome dell’imprenditore (ad esempio la Cassazione ha confermato la decisione dei Giudici del merito che avevano ritenuto la decadenza per volgarizzazione del marchio "cellophane", nel rilievo che la parola "cellofan" fosse divenuta denominazione comune di un intero genere di prodotti costituiti da materiale incolore o colorato trasparente ottenuta per laminazione della viscosa. In tal senso sez. 1^, sentenza n. 5833 del 11/12/1978, rv. 395659).

I principi elaborati in materia di marchio in tema di volgarizzazione ben possono essere traslati nel settore della forma del prodotto per distinguere la semplice notorietà e diffusione di una certa forma, di un ornamento o di un particolare pregio estetico rispetto alla sua generalizzazione. Per quest’ultima, infatti, occorrerebbe dimostrare che quel determinato prodotto ha assunto sul mercato, in termini generali e quasi necessitati la medesima forma oggetto del prodotto per il quale si invochi la tutela, in modo tale che quella forma – appunto standardizzata – abbia escluso per quel prodotto la possibilità di essere riconosciuto come proveniente da una determinata impresa.

Nulla di simile è stato dimostrato sia avvenuto per il prodotto *****, rispetto al quale tuttavia permane quale fattore preclusivo, indipendente dalla (a torto) ritenuta standardizzazione, il problema della carenza del carattere della distintività. Si è già detto, infatti, che per concorde giurisprudenza la concorrenza sleale per imitazione servile del prodotto altrui, in relazione alla riproduzione dello stesso che non integri violazione di diritti di privativa, è configurabile soltanto quando tale riproduzione abbia ad oggetto elementi che non siano inscindibilmente dipendenti da esigenze strutturali o funzionali, e che, inoltre, siano dotati di carattere individualizzante, cioè di idoneità ad identificare la merce come proveniente da una determinata impresa, restando esclusa, pertanto, nel caso di prodotti standardizzati ed usuali, privi di connotati di originalità (sez. 1^, sentenza n. 15761 del 22/10/2003, rv. 567564; conformi; n. 4222 del 1985 rv. 441726; n. 1348 del 17/03/1978, rv. 390718).

Quindi, nel caso di specie, posto che la valenza individualizzante al momento dell’adozione di quella forma da parte di ***** non era stata provata, le censure sulla standardizzazione appaiono teoriche ed irrilevanti.

Lo stesso è a dirsi per quanto riguarda il modello registrato che, seppure non possa dirsi standardizzato, tuttavia risulta, in base alle considerazioni svolte dai Giudici di merito, predivulgato dalla stessa ***** e anticipato dalla produzione delle aziende danti causa di TOF e/o dalla stessa TOF. Anche a tale riguardo, pertanto, i problemi della ritenuta standardizzazione rimangono assorbiti.

11. Come undicesimo motivo di gravame, la ricorrente ha dedotto l’omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione alla sussistenza della concorrenza parassitaria. Assume la ricorrente che la motivazione data dalla Corte torinese sul punto sembra frutto di un lapsus, avendo la Corte asserito che "i soli prodotti imitati non sono idonei ad integrare la fattispecie di concorrenza parassitaria…".

In realtà, nella tesi della ricorrente sarebbe stato dimostrato, già in primo grado, come l’escalation imitativa di TOF s.r.l. non avesse risparmiato alcuno dei prodotti di maggior successo di ***** s.p.a. e si fosse spinta fino alla contraffazione del marchio registrato, il cui utilizzo era cessato solo a seguito dell’istanza cautelare proposta avanti al Tribunale di Novara prima dell’instaurazione del presente giudizio.

12.1 Anche il dodicesimo motivo di ricorso attiene alla concorrenza parassitarla, sotto il profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., in merito appunto alla sussistenza di tale particolare forma di concorrenza. A detta della difesa ricorrente, risultava documentato nel catalogo della TOF del 1995 che questa aveva imitato, oltre al marchio (omissis), tutte le colonne di *****:

(omissis) a una via, (omissis) a due vie, (omissis) nelle tre versioni *****, Medium e *****, (omissis). In tale catalogo TOF millantava addirittura il diritto di esclusiva sulla gamma (omissis), TOF, infatti, aveva potuto beneficiare del know – how acquisito durante la pregressa collaborazione con ***** non solo in termini costruttivi, ma anche promozionali.

Il Giudice, per valutare la sussistenza della concorrenza parassitaria non avrebbe dovuto limitarsi a contare il numero dei prodotti imitati, ma avrebbe dovuto verificare se dietro le fattispecie imitative vi fosse stato uno sfruttamento sistematico del lavoro e della creatività altrui.

12.2 Questo Collegio esclude che siano ravvisagli violazioni di legge o vizi di motivazione nelle valutazioni della Corte torinese in merito alla pretesa concorrenza parassitaria. La Corte, infatti, condividendo le valutazioni del primo giudice sul punto, ha escluso che fossero stati allegati e men che meno dimostrati gli elementi caratterizzanti la fattispecie della concorrenza parassitaria, elementi ben individuati con puntuali richiami della giurisprudenza e con motivazione coerente ed esaustiva. Ancora una volta la difesa ricorrente sembra indicare a questa Corte la strada per una diversa valutazione di merito degli elementi in causa. Non avendo i Giudici di merito ritenuto sufficientemente provati i singoli episodi della dedotta imitazione servile, tanto meno avrebbero potuto ritenere fondati gli estremi della concorrenza parassitaria, che, semplificandone la portata, si può definire quale l’insieme di una serie di atti di imitazione servile.

Va osservato infine che i profili di illecito dedotti con riferimento all’abuso di know how e all’abuso di pregressi rapporti di collaborazione, sono stati considerati irritualmente introdotti in corso di causa, avendo TOF sempre rifiutato il contraddittorio sui medesimi, tanto che sugli stessi la Corte non ha preso alcuna posizione, rilevando altresì la genericità del relativo assunto, profilo quest’ultimo che la difesa ricorrente non si da carico di confutare validamente.

13.1 Come tredicesimo motivo di gravame, la difesa ricorrente ha infine dedotto la violazione o falsa applicazione di norme in relazione all’art, 345 c.p.c., nonchè l’omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione alla sussistenza dell’abuso di relazioni contrattuali. Nonostante il giudizio fosse iniziato sotto il regime del vecchio codice di rito, la Corte d’Appello aveva bollato il profilo di abuso di posizioni contrattuali come "…profili inammissibili ex art. 345 c.p.c., essendo stati per la prima volta inseriti nelle conclusioni finali ed essendo stato rifiutato il contraddittorio, non se ne poteva tener conto…".

Al contrario, a pag. 12 del ricorso cautelare in corso di causa, si era formulata esplicitamente domanda in tal senso, senza alcun rifiuto del contraddittorio da parte di TOF s.r.l..

Il Giudice aveva quindi errato nell’applicare l’art. 345 c.p.c., non trattandosi di una domanda nuova, ma di domanda ritualmente proposta.

13.2 Quanto al profilo dell’abuso di relazioni contrattuali, appare assorbente il rilievo che non risulti essere stata sottoposta a censura in sede di appello (e del resto neppure risulta considerata neppure nella presente sede) l’affermazione del Giudice di primo grado, riferita a pag. 9 della sentenza impugnata, in base alla quale, con riguardo al profilo dell’inadempienza contrattuale contestata alla convenuta, non era emersa l’asserita esclusiva.

Neppure viene considerata e fatta oggetto di uno specifico motivo di impugnazione l’affermazione contenuta a pag. 21 della sentenza d’appello, ove la Corte ha affermato la genericità dell’assunto basato sull’attribuzione a TOF di una qualità, indimostrata e prospettata per la prima volta in secondo grado, di subfornitore obbligato a "trattare come confidenziali tutte le informazioni commerciali o di altra natura di cui veniva a conoscenza con l’esecuzione degli ordini impartitigli da *****" e "a rispettare al massimo la sua proprietà intellettuale. Seppure, quindi, si volesse ritenere superato il problema della preclusione di cui all’art. 345 c.p.c., e si volesse ritenere che la domanda basata sul rapporto contrattuale fosse stata ritualmente introdotta, non si potrebbe comunque superare il rilievo della genericità dell’assunto e della mancanza di prova circa i dedotti obblighi contrattuali.

14. Alla luce delle considerazioni svolte, il ricorso appare nel suo complesso infondato e deve essere respinto, con conseguente condanna della società ricorrente al pagamento delle spese anche del presente giudizio, che vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese processuali del presente giudizio, che liquida in Euro 8.200,00, di cui Euro 8.000,00, per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.

Redazione