Corte di Cassazione Civile sez. I 14/1/2009 n. 557

Redazione 14/01/09
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Cassazione civile, Sezioni unite, 2 dicembre 2008 – 14 gennaio 2009, n. 557

Svolgimento del processo

1. C. M., in proprio e quale esercente la potestà sui figli minori F. e L., marito di F. L. – deceduta a seguito di un incidente stradale avvenuto in data omissis tra un automezzo da lui condotto ed altro automezzo condotto da *****, nel quale subì lesioni anche la figlia C. L. – C. A. e S. C., suoceri conviventi, F. V. e A. P., genitori, con citazione 12 luglio 1990 convenivano dinanzi al tribunale di Treviso L. N. e la S.P.A. ***************, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni nella misura di lire 44.570.000 quanto al C. in proprio, nella misura di lire 509.992.653 quanto al C. in proprio e per conto dei figli minori, quanto a F. V. e A. P. nella misura di lire 80.000.000, nella misura di lire 20.000.000 quanto a C. A. e S. C., nella misura di lire 60.510.000, quanto a C. L.. I convenuti si costituivano allegando un concorso di colpa di C. M. e contestando la misura dei danni. In prima udienza C. M. chiedeva l’ulteriore somma di lire 300.000.000 per sé ed i figli a titolo di danno biologico. Avendo gli attori chiesto l’emissione di ordinanza ex art. 186 quater c.p.c., il G.I., con ordinanza 15 gennaio 1997, accertata la colpa esclusiva del L., condannava i convenuti in solido a pagare: a) a C. M. lire 35.270.000 (rivalutate in lire 49.845.000) per danni auto; lire 100.000.000 per danno morale; lire 100.000.000 per danno biologico iure proprio; lire 150.000.000 per danno patrimoniale da lucro cessante; lire 15.000.000 per spese funerarie; b) a C. F. e L., figli minori della vittima, lire 80.000.000 ciascuno per danno morale e lire 80.000.000 ciascuno per danno biologico jure proprio; c) a C. L. lire 20.000.000 per le lesioni da lei riportate; d) a F. V. e A. P. lire 80.000.000 per danno morale. I convenuti notificavano agli attori dichiarazione della rinuncia alla sentenza ai sensi dell’art. 186 quater c.p.c., depositandola in cancelleria e, successivamente, in data 28 gennaio 1998, notificavano ai medesimi atto di appello, in relazione al mancato riconoscimento della corresponsabilità del C., al riconoscimento del danno biologico al C. ed ai figli, alla rivalutazione ed agl’interessi liquidati. Si costituiva in giudizio C. M., in proprio e per i figli minori, proponendo appello incidentale in relazione alla misura dei danni liquidati. La Corte di appello di Venezia, con sentenza 23 gennaio 2003, riformava la sentenza sia in relazione all’appello principale che a quello incidentale, riconoscendo il concorso di colpa e riliquidando i danni. Avverso tale sentenza C. M., in proprio e quale genitore esercente la potestà sulla figlia minore L., nonché C. F., hanno proposto ricorso a questa Corte con atto notificato il 25 febbraio 2004 al L. ed al Lloyd Adriatico, formulando sei motivi. Gl’intimati resistono con controricorso e ricorso incidentale notificati il 5 aprile 2004. Il C. ha anche depositato memoria.
La causa, assegnata alla terza sezione civile, è stata rimessa al primo presidente della Coorte, per eventuale rimessione alle sezioni unite, con ordinanza 22 aprile 2008, essendo stata dedotta, con il ricorso principale, l’inammissibilità dell’appello perché proposto dopo il decorso del termine di trenta giorni dal deposito dell’atto di rinuncia notificato agli attori ed essendovi, su tale questione, un contrasto di orientamenti all’interno della Corte. Il primo Presidente della Corte ha rimesso la causa alle sezioni unite.

Motivi della decisione

1. I ricorsi vanno riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c. per essere decisi con la stessa sentenza.
2. Con il primo motivo del ricorso principale si deduce l’inammissibilità dell’appello in relazione al disposto degli artt. 186 quater e 325 c.p.c. Si deduce al riguardo che i convenuti nel giudizio di primo grado, dopo l’emissione dell’ordinanza, in data 15 gennaio 1997, ex art. 186 quater, di parziale accoglimento delle domande, notificarono agli attori dichiarazione di rinuncia alla sentenza, depositandola in cancelleria il 27 settembre 1997 e il 18 dicembre 1997. Pertanto dal deposito dell’atto notificato l’ordinanza aveva acquistato efficacia di sentenza e il termine per proporre l’appello non era quello annuale, bensì quello di trenta giorni, tenuto conto che la parte intimata, rinunciando alla sentenza, aveva dimostrato di avere piena conoscenza della stessa, così da non essere più necessaria un’ulteriore notifica per far decorrere il termine breve di cui all’art. 325 c.p.c.
Con il secondo motivo del ricorso principale si denunciano la violazione dell’art. 2054 cod. civ. e vizi motivazionali. Si deduce al riguardo che la Corte di appello ha affermato il principio che l’individuazione a carico di uno dei conducenti di un veicolo di uno specifico profilo di colpa non è sufficiente ad attribuirgli l’esclusiva responsabilità dell’incidente causato, essendo necessario a tal fine che sia accertato che l’altro conducente si era uniformato completamente alle norme di circolazione stradale e di comune prudenza, dovendo a tal fine provare, per vincere la presunzione di concorrente responsabilità, di avere fatto tutto il possibile per evitare il sinistro. Pertanto, nel caso di specie, il C. avrebbe dovuto provare – e non lo aveva fatto – che la velocità dei veicoli nella fase di avvicinamento al crocevia e la velocità del veicolo della controparte erano tali da non consentirgli di evitare la collisione. Secondo il ricorrente principale erroneamente la Corte di appello avrebbe affermato che in base alla deposizione dei testi escussi il C. avrebbe potuto percepire che il L. che sopraggiungeva non si sarebbe arrestato all’incrocio. Si deduce che la perizia espletata in sede penale aveva accertato che non c’era relazione causale fra il comportamento del C. e il sinistro, ascrivibile a responsabilità esclusiva del L.. In tale contesto, secondo il ricorrente, doveva farsi applicazione del principio secondo il quale per escludersi la colpa non è necessaria la prova di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, ma è sufficiente l’accertamento dell’assenza di una propria colpa e l’idoneità della condotta della controparte a costituire causa esclusiva dell’evento.
Con il terzo motivo del ricorso principale si denunciano la violazione degli artt. 2, 3, 24, 29 e 32 Cost. in relazione agli artt. 2043, 1226, 2056 e 2059 cod. civ., nonché vizi motivazionali. Si deduce al riguardo che la Corte di appello avrebbe erroneamente escluso l’esistenza di un danno biologico per la perdita della congiunta per C. M. e i suoi figli, in quanto trattandosi di danno conseguenza essi avrebbero dovuto provare la sussistenza in concreto di tale danno (quale lesione dell’integrità psicofisica degli stessi, determinante una patologia o un aggravamento di una patologia preesistente), senza possibilità per il giudice di ricorrere al fatto notorio, mentre gli attori non avevano neppure addotto un simile danno, limitandosi ad allegare la menomazione del tessuto familiare. In realtà gli attori, con la dicitura "danno biologico iure proprio" avevano inteso riferirsi a quello che viene detto danno esistenziale, inteso come peggioramento oggettivo delle condizioni di vita in conseguenza di un fatto ingiusto che ha provocato la lesione di un diritto costituzionalmente garantito. Danno che è in "re ipsa" e pertanto non necessita di prova e può essere liquidato in via equitativa.
Con il quarto motivo del ricorso principale si denunciano vizi motivazionali e violazione di norme di diritto in relazione ai danni liquidati alla minore C. L.. Si deduce al riguardo che nulla le è stato liquidato a titolo di danno biologico sulla temporanea di giorni novanta, per la quale era stata richiesta la somma di lire 5.400.000 e a titolo di rimborso di spese mediche, documentate in lire 520.000.
Con il quinto motivo del ricorso principale si denunciano violazione o falsa applicazione di norme di diritto e vizi motivazionali circa un punto decisivo della controversia, in relazione al danno materiale per la morte di F. L.. Con il motivo si lamenta che il danno materiale conseguente al mancato apporto della F. alla famiglia non andava attribuito interamente al marito, ma diviso al 50% fra lui e i figli, in quanto anch’essi avrebbero beneficiato dell’apporto economico della madre, con la conseguenza che sulla somma ad essi spettante non andava operata la riduzione del 30% relativa alla ritenuta corresponsabilità del C..
Con il sesto motivo del ricorso principale si denuncia l’errata quantificazione del danno, in quanto la Corte di appello ha quantificato in euro 212.449,25 il credito spettante a C. M. in proprio e quale padre dei minori, da conguagliarsi con la somma già corrispostagli di euro 289.103,27, condannandolo alla restituzione di euro 76.654,02. Ma la somma pagata dalla società assicuratrice era comprensiva di lire 19.750.000 per spese di registrazione della sentenza e lire 6.760.866 per spese legali liquidate con l’ordinanza ex art. 186 quater. c.p.c. Si deduce che, essendo la società assicuratrice soccombente in entrambi i gradi di giudizio, tali spese non andavano restituite.
2. Con il primo motivo del ricorso incidentale si denunciano – condizionatamente all’accoglimento del terzo motivo del ricorso principale – vizi motivazionali e la violazione degli artt. 2043, 2056, 1226 e 2059 cod. civ., in relazione alla misura dei danni morali liquidati.
Con il secondo motivo del ricorso incidentale si denunciano vizi motivazionali e la violazione degli artt. 1223, 1224, 1227, 1283, 2056 e 2058 cod. civ., in relazione alla liquidazione degl’interessi al tasso dell’8% dalla data del sinistro al 19 maggio 1997, sulle somme già rivalutate a tale data, invocandosi il diverso principio stabilito dalle sezioni unite di questa Corte con la sentenza 17 febbraio 1995, n. 1712.
Con il terzo motivo del ricorso incidentale si denunciano vizi motivazionali e la violazione degli artt. 90-92 c.p.c. in relazione alla condanna alle spese dei due gradi.
2. I ricorsi, assegnati alla terza sezione civile, a seguito di ordinanza interlocutoria di quella sezione sono stati assegnati alle sezioni unite per risolvere il contrasto – involgente il primo motivo del ricorso principale – insorto all’interno di questa Corte relativamente alla decorrenza del termine breve per l’impugnazione dell’ordinanza ex art. 186 guater c.p.c., nel testo anteriore alle modifiche introdotte dalla legge n. 263 del 2005, nell’ipotesi di rinuncia, da parte dell’intimato, alla pronuncia della sentenza, con riferimento alla disciplina originaria contenuta nel quarto comma di detto articolo, applicabile "ratione temporis" alla fattispecie oggetto del ricorso. Occorre, pertanto, nell’esame del ricorso, muovere dalla soluzione di tale contrasto.
3. Al riguardo va premesso che l’art. 186 quater c.p.c. – introdotto dall’art. 7 del d.l. 18 ottobre 1995, n. 423, conv. con mod. dalla legge 20 dicembre 1995, n. 534 – ha aggiunto un nuovo provvedimento anticipatorio della sentenza finale rispetto a quelli già inseriti nel c.p.c. dalla novella del 1990, disponendo (al primo comma) che il giudice istruttore, esaurita l’istruttoria "su istanza della parte che ha proposto la domanda di condanna al pagamento di somme ovvero alla consegna o al rilascio di beni, può disporre con ordinanza il pagamento ovvero la consegna o il rilascio, nei limiti per cui ritiene raggiunta la prova". Tale ordinanza (secondo comma) è titolo esecutivo, è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio ma (terzo comma), se dopo la pronuncia dell’ordinanza il processo si estingue, acquista l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza. L’ultimo comma dell’articolo (secondo il testo originario) prevedeva: "La parte intimata può dichiarare di rinunciare alla pronuncia della sentenza con atto notificato all’altra parte e depositato in cancelleria. Dalla data di deposito dell’atto notificato, l’ordinanza acquista l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza".
Tale ultima disposizione – successivamente innovata nel meccanismo, ma non nella finalità, dalla legge n. 263 del 2005, a norma della quale "l’ordinanza acquista l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza se la parte intimata non manifesta entro trenta giorni dalla sua pronuncia in udienza o dalla comunicazione, con ricorso notificato all’altra parte e depositato in cancelleria, la volontà che sia pronunciata sentenza" – aveva lo scopo di rendere possibile all’intimato, attraverso la rinuncia alla sentenza notificata alla controparte e depositata in cancelleria, d’impugnare l’ordinanza di condanna senza dovere attendere l’emanazione della sentenza, così da potere anche proporre al giudice dell’impugnazione la domanda di sospensione dell’esecutività dell’ordinanza, altrimenti non proponibile, salva la prosecuzione del giudizio relativamente alle eventuali domande estranee all’istanza stessa.
4. Come esposto nell’ordinanza interlocutoria della terza sezione civile, in relazione al regime d’impugnazione dell’ordinanza, convertita in sentenza impugnabile secondo il meccanismo previsto dall’originario testo dell’art. 186 quater, con riferimento al dies a quo del decorso del termine breve per l’impugnazione di cui all’art. 325 c.p.c., nella giurisprudenza di questa Corte si sono venuti a manifestare due diversi orientamenti.
Secondo un primo orientamento (formulato nelle sentenze n. 1692 del 2004 della seconda sezione, nn. 13997 e 20750 del 2004 della terza sezione e n. 18642 della prima sezione) dal deposito in cancelleria dell’atto di rinuncia notificato dall’intimato alla controparte decorrerebbe il solo termine lungo d’impugnazione di cui all’art. 327 c.p.c., mentre per rendere operante il termine breve di cui all’art. 325 c.p.c. sarebbe necessaria un’ulteriore notifica dell’ordinanza – con l’attestazione del deposito in cancelleria della notifica della rinuncia – dopo che essa abbia acquistato valore di sentenza impugnabile, decorrendo, pertanto, il termine breve solo da tale notifica.
Partendo dalla constatazione che l’art. 186 quater nulla dispone in proposito, tale indirizzo ritiene incompatibile con il sistema processuale ricavabile dagli artt. 325 e 327 c.p.c. una diversa interpretazione, che faccia decorrere per l’intimato sia il termine breve per impugnare, sia il termine lungo dal deposito in cancelleria dell’atto di rinuncia alla pronuncia della sentenza notificato all’altra parte.
Secondo altro orientamento (formulato nelle sentenze n. 19602 del 2004 della seconda sezione civile e n. 22533 del 2006 della terza sezione civile, che a questa si è conformata), dal deposito in cancelleria dell’atto di rinuncia notificato dall’intimato alla controparte decorrerebbe per l’intimato il termine breve per l’impugnazione, dovendosi desumere da tale attività la legale conoscenza del provvedimento da parte dell’intimato, nonché della sua volontà di fare acquisire all’ordinanza efficacia di sentenza impugnabile, restando esclusa per lui l’applicabilità del termine lungo, mentre per la controparte il termine breve decorrerebbe solo dall’ulteriore notifica dell’ordinanza dopo che essa abbia acquistato valore di sentenza impugnabile, decorrendo altrimenti, per essa, da tale momento, unicamente il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c.
5. Tale secondo indirizzo muove – in conformità di quanto evidenziato al riguardo dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 385 del 1997 – dalla considerazione che l’art. 186 quater, oltre a perseguire la finalità primaria consistente nell’anticipare i tempi di realizzazione del "petitum" rispetto all’ordinario schema processuale in tutti quei casi in cui la domanda abbia ad oggetto il pagamento di somme, ovvero la consegna od il rilascio di beni, ed il giudice ritenga raggiunta la prova del fatto costitutivo invocato, perseguirebbe l’effetto ulteriore di determinare una riduzione della pendenza dei procedimenti, in attuazione della "ratio" delle linee programmatiche della normativa avente ad oggetto le misure urgenti per il processo civile, intervenute a partire dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, così soddisfacendo, oltre all’interesse delle parti, in via indiretta e mediata, tale fondamentale finalità d’interesse collettivo.
In questa ottica, secondo la sentenza n. 19602 del 2004, "la possibilità di ottenere l’ordinanza post-istruttoria di condanna munita "ex lege" di efficacia esecutiva, concessa all’una delle parti con i primi due commi della norma in esame, è contestualmente bilanciata dalla facoltà, concessa all’altra parte con il successivo quarto comma, di rinunziare alla successiva pronunzia della sentenza… facendo conseguire l’efficacia della stessa all’ordinanza e, in tal modo, ponendosi in condizione d’impugnarla e di chiederne la sospensione dell’esecutività, diversamente non conseguibile". Ma essendo tale facoltà concessa all’intimato diretta, parimenti, a soddisfare "l’esigenza collettiva di riduzione dei tempi di definizione delle controversie", l’interpretazione della normativa in questione dovrebbe avvenire "in considerazione di siffatta finalità d’ordine generale, cui il legislatore ha informato l’intera sua azione riformatrice", che "si riverbera anche nel contenuto precettivo delle singole disposizioni in esame".
Sulla base di tale criterio, secondo l’orientamento in esame diffusamente illustrato dalla sentenza n. 19602 del 2004, occorre "tener presente come la previsione, nel codice di rito, d’un termine cosiddetto lungo per l’impugnazione non abbia lo scopo di concedere alla parte interessata all’impugnazione stessa uno "spatium deliberandi" di tale entità temporale, bensì quello di far fronte all’esigenza di formazione della cosa giudicata, per tutti i soggetti interessati, presenti o meno nel giudizio (salva, per questi ultimi, l’eccezione di cui all’art. 327, ultimo comma, c.p.c.), con il decorso d’un appropriato periodo di tempo dalla pronunzia della sentenza, decorso il quale è attribuita l’efficacia d’una presunzione assoluta di conoscenza della sentenza stessa", mentre "la previsione del termine cosiddetto breve abbia lo scopo di consentire, alla parte interessata, d’accelerare i tempi della formazione del giudicato sulla sentenza o dell’impugnazione della stessa con il portare la sentenza, mediante la notificazione, a legale conoscenza della controparte". Sarebbe, pertanto, in entrambe le ipotesi, "la legale conoscenza dell’intervenuta decisione della controversia e delle ragioni di essa, presunta "ex lege" nell’una e realizzata con la notificazione nell’altra, a determinare l’entità del periodo di tempo entro il quale può essere proposta l’impugnazione". Una simile ricostruzione della ratio degli artt. 325 e 327 c.p.c. sarebbe conforme alle affermazioni giurisprudenziali secondo le quali il termine breve per l’impugnazione decorre dalla notificazione della sentenza anche per il notificante, ai fini della tempestività del rinnovo di un’impugnazione inammissibile per il notificante il termine breve decorre dalla prima notificazione, il termine breve decorre per tutte le parti, indipendentemente dalla notificazione della sentenza, ove avverso di essa sia stato già proposto un diverso tipo d’impugnazione, dalla notificazione di detta impugnazione.
Sulla base di queste considerazioni si dovrebbe ritenere "che, se l’attività posta in essere dall’intimato, ex art. 186 quater c.p.c., con la notificazione alla controparte dell’atto di rinunzia alla sentenza e con il deposito in cancelleria dell’atto di rinunzia notificato, cui consegue l’acquisto per l’ordinanza post-istruttoria di condanna dell’efficacia di sentenza, costituisce adeguata dimostrazione della legale conoscenza del provvedimento da parte dell’intimato ed, inoltre, della specifica volontà dello stesso di far acquisire all’ordinanza medesima l’efficacia della sentenza impugnabile, allora nel momento in cui detta attività si perfeziona deve necessariamente ravvisarsi il "dies a quo" per il decorso del termine breve d’impugnazione da parte dell’intimato". Interpretazione che sarebbe confermata dalla "ratio" sollecitatoria della definizione delle controversie alla quale è improntato l’intero complesso delle misure nelle quali è inserito l’art. 184 quater, con cui "sarebbe palesemente incompatibile il frustrare gli effetti connessi al meccanismo acceleratorio predisposto con l’istituto in esame consentendo alla parte, che ad esso abbia dato impulso, di sottrarsi, poi, alle logiche conseguenze dell’adottata iniziativa ritenendo, invece, applicabile il termine lungo per l’impugnazione".
Ne deriverebbe che, in tal modo, di fatto verrebbe ad operare per l’intimato il solo termine breve e non anche quello lungo, ma questo sarebbe proprio l’intento del legislatore, "il quale può scegliere una diversificata disciplina processuale laddove la peculiarità del rapporto sostanziale controverso e/o le particolari connotazioni del giudizio ne rappresentino una ragionevole giustificazione". Fermo restando che per la controparte, rimasta ignara del prosieguo del procedimento iniziato con la rinuncia alla sentenza notificatale, tale principio non vale, decorrendo il termine breve dalla notifica dell’ordinanza-sentenza divenuta esecutiva.
6. Il contrasto interpretativo, a giudizio di queste sezioni unite va risolto in favore del primo orientamento, sulla base delle seguenti considerazioni.
Innanzitutto va premesso che il principio costituzionale della giusta durata del processo, sancito dall’art. 111 Cost., che può essere attuato mediante la previsione di termini processuali di decadenza, va sempre coordinato, dal legislatore come dall’interprete, con la garanzia costituzionale del diritto di difesa, che deve trovare effettiva attuazione perché si realizzi, nella ragionevole durata, il "giusto processo" garantito dallo stesso art. 111.
In tale ottica va rilevato che, quando il legislatore statuisce che un termine processuale di decadenza decorra dal verificarsi di un determinato atto o fatto, l’interprete non può sostituirne la decorrenza con altro fatto o atto diverso, ancorché ad effetti in qualche misura analoghi o equivalenti, senza compromettere l’esatta osservanza del criterio interpretativo stabilito dall’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, in connessione con il principio costituzionale di effettività del diritto di difesa, il quale ammette che tale diritto possa essere sottoposto a termini di decadenza, ma impone, affinché non ne risulti svuotato, non solo che essi siano congrui nella durata, ma anche rapportati – quanto al "dies a quo" – ad un fatto o atto specifico, predeterminato dalla legge, che il soggetto onerato, a quel momento, conosce o, secondo legge, avrebbe dovuto conoscere.
Ne deriva, già in base al su detto rilievo, la constatazione che mentre l’art. 326 c.p.c. fa decorrere il termine breve dalla notifica della sentenza e, nel caso previsto dall’ultimo comma, di processo con pluralità di parti con cause scindibili, per il soccombente, dalla notifica dell’impugnazione ad una delle parti, l’interpretazione prospettata da Cass. 29 settembre 2004, n. 19602 (e dalla sentenza n. 22533 del 2006), fa decorrere detto termine, per l’intimato, dal deposito in cancelleria dell’atto di rinuncia all’emanazione della sentenza notificato alla controparte, così discostandosi in modo evidente dal tenore della normativa che disciplina la decorrenza di quel termine, facendolo decorrere, contro il suo tenore, da un fatto completamente diverso da quelli da essa previsti.
A ciò aggiungasi che, se è vero che nel sistema posto in essere dagli artt. 325 e 327 c.p.c., sia il temine lungo sia il termine breve sono finalizzati a limitare nel tempo il diritto d’impugnare la sentenza allo scopo della formazione del giudicato, va parimenti considerato che l’attivazione del termine breve è rimesso alla valutazione ed all’interesse delle parti, le quali lo debbono manifestare nelle forme tipiche, previste dall’art. 326 c.p.c. Mentre nel caso previsto dall’art. 186 quater c.p.c. il deposito in cancelleria dell’atto di rinuncia alla pronuncia della sentenza, secondo l’espressa previsione della norma, ha l’effetto di fare acquistare all’ordinanza "l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza", con la conseguenza che non vi è ragione di desumere da una manifestazione di volontà dell’intimato, diretta a perseguire quel suo interesse ed a conseguire quell’effetto, l’ulteriore e diverso significato, non previsto dalla legge e per lui pregiudizievole, di fare iniziare da essa il decorso del termine breve, onerandolo di proporre entro trenta giorni l’impugnazione che, secondo la regola generale posta dall’art. 327 c.p.c., ha invece diritto di proporre entro l’anno da tale deposito. E ciò in presenza di una statuizione legislativa che, secondo il suo tenore, si limita a fare acquistare all’ordinanza "efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza".
Dall’osservazione che l’ultimo comma dell’art. 186 quater ha lo scopo di attribuire all’ordinanza, ai fini dell’impugnazione, efficacia di sentenza, deriva che la situazione giuridica che la legge ricollega al deposito in cancelleria della rinuncia della parte intimata alla sentenza, è in tutto analoga a quella che si sarebbe verificata se il giudice in tale data avesse depositato la sentenza. E pertanto risulta coerente con il sistema attribuire a tale fatto giuridico l’effetto tipico previsto dall’art. 327 c.p.c., che è quello di far decorrere da esso il termine lungo per l’impugnazione, mentre non appare coerente con il sistema attribuirgli l’effetto di far decorrere da esso il termine breve, che l’art. 326 c.p.c. riconnette ad atti giuridici completamente diversi.
La soluzione prospettata dal secondo orientamento interpretativo in esame, inoltre, dà luogo ad ulteriori incongruenze sistematiche, che non lo rendono idoneo a determinare quella minore durata del processo che si vorrebbe perseguire.
Infatti, nel vigente sistema processuale, la notifica della sentenza è di regola richiesta dalla parte vittoriosa ed è diretta a provocare l’impugnazione di quella soccombente e, in difetto, il giudicato in proprio favore e fa decorrere il termine breve per entrambe le parti. Nel caso di specie, invece, il deposito dell’atto di rinuncia alla sentenza, che viene ad essere, di norma, eseguito dalla parte soccombente, avrebbe l’effetto di far decorrere il termine breve solo nei confronti di tale parte (come si riconosce nella stessa sentenza n. 19602 del 2004), non avendo l’altra parte notizia di tale deposito, cosicché, con una grave disarmonia sistematica, per una parte decorrerebbe il termine breve e per l’altra il termine lungo, così da essere resa comunque non perseguibile per tale via quella "ratio" acceleratoria posta a base dell’interpretazione adottata. Mentre, frustrandosi parimenti tale "ratio" acceleratoria, ove il deposito della rinuncia notificatagli fosse effettuata dall’intimante (come questa Corte ha ritenuto ammissibile: Cass. 22 dicembre 2005, n. 28419), si verificherebbe la stessa situazione a parti invertite.
Inoltre va ancora rilevato che essendo l’art. 186 quater inserito nella disciplina del giudizio di primo grado, la sua "ratio" acceleratoria non può che attenere alla più rapida conclusione di tale giudizio cosicché – anche per tale ulteriore ragione di ordine sistematico – non può essere utilizzata per fondarvi, senza un esplicito appiglio normativo, una deroga alla disciplina dei termini d’impugnazione.
7. In linea con le regole ed i principi posti dagli art. 325, 326 e 327 c.p.c. appare, invece, l’indirizzo interpretativo adottato dalle sentenze nn. 1692, 13997 18642 e 20750 del 2004, che identifica nel deposito dell’atto di rinuncia notificato, a seguito del quale l’ordinanza acquista efficacia di sentenza impugnabile, il "dies a quo" del decorso del termine lungo d’impugnazione previsto dall’art. 327 c.p.c., mentre per il decorso del termine breve d’impugnazione di cui all’art. 325 c.p.c. richiede, al termine del procedimento previsto dall’ultimo comma dell’art. 186 quater per fare acquistare all’ordinanza efficacia di sentenza, una nuova notifica di essa con l’attestazione del deposito in cancelleria della notifica della rinuncia.
Infatti – disponendo l’art. 186 quater c.p.c. (nel testo anteriore alle modifiche introdotte dalla legge n. 263 del 2005) che dalla data del deposito in cancelleria della rinuncia alla pronuncia della sentenza "l’ordinanza acquista l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza" – l’indirizzo in esame, in piena aderenza a tale disposto, afferma che la situazione che si viene a creare è in tutto analoga a quella determinata dal deposito, in tale data, di una sentenza: deposito che, a norma dell’art. 327 c.p.c., determina l’inizio del decorso del termine annuale di decadenza dall’impugnazione. Con la logica e congruente conseguenza che, nel caso previsto dall’art. 186 quater, dalla data del deposito in cancelleria della rinuncia alla pronuncia della sentenza inizia il decorso del termine annuale d’impugnazione in conformità della statuizione dell’art. 327 c.p.c.
Parimenti aderente al disposto dell’art. 326, comma 1, c.p.c. risulta l’assunto secondo il quale perché decorra anche il termine breve di cui all’art. 325 c.p.c. è necessaria la notifica dell’ordinanza con l’attestazione del deposito in cancelleria della notifica della rinuncia alla sentenza.
Una volta perfezionato l’"iter" previsto dall’art. 186 quater, ultimo comma, c.p.c., infatti, non avendo il legislatore dettato alcuna disposizione che autorizzi ad applicare all’ordinanza che abbia acquistato efficacia di sentenza una disciplina del decorso dei termini d’impugnazione diversa da quella generale, per il decorso del termine breve deve necessariamente farsi riferimento alla disciplina generale dell’art. 326 c.p.c., con gli adattamenti resi necessari dalla circostanza che l’atto impugnabile è un’ordinanza con efficacia di sentenza, la quale dovrà essere, pertanto, notificata con le attestazioni necessarie a dimostrare al destinatario della notifica tale sua acquistata efficacia.
Il contrasto, pertanto, deve essere risolto con l’affermazione del seguente principio di diritto: "In tema d’impugnazione dell’ordinanza ex art. 186 quater c.p.c. – nel testo introdotto dall’art. 7 del d.l. 18 ottobre 1995, n. 423, conv. con mod. dalla legge 20 dicembre 1995, , n. 534 – l’adempimento, da parte dell’intimato, degli oneri di notifica e di deposito della rinuncia alla sentenza, ai sensi del comma 4 della norma citata, fa sì che l’ordinanza stessa acquisti, dal momento del deposito, l’efficacia della sentenza impugnabile pubblicata, con conseguente decorrenza del termine annuale di cui all’art. 327 c.p.c., mentre perché decorra anche il termine breve di cui all’art. 325 c.p.c. è necessaria una nuova notifica dell’ordinanza con l’attestazione del deposito in cancelleria della notifica della rinuncia all’emanazione della sentenza".
8. Dalla soluzione del contrasto nei sensi sopra indicati deriva il rigetto del primo motivo del ricorso principale.
9. Deve pertanto passarsi all’esame del secondo motivo del ricorso principale, con il quale si denunciano la violazione dell’art. 2054 cod. civ. e vizi motivazionali. Con il motivo si censura, in relazione all’art. 2054 cod. civ., l’affermazione della Corte di appello secondo la quale l’individuazione a carico di uno dei conducenti di un veicolo di uno specifico profilo di colpa non è sufficiente ad attribuirgli l’esclusiva responsabilità dell’incidente causato, essendo necessario a tal fine che sia accertato che l’altro conducente si era uniformato completamente alle norme di circolazione stradale e di comune prudenza, dovendo egli provare, per vincere la presunzione di concorrente responsabilità, di avere fatto tutto il possibile per evitare il sinistro. Sotto il profilo motivazionale secondo il ricorrente erroneamente la Corte di appello avrebbe affermato che in base alla deposizione dei testi escussi egli avrebbe potuto percepire che il L. che sopraggiungeva non si sarebbe arrestato all’incrocio e si deduce che la perizia espletata in sede penale dal P. M. aveva accertato che non c’era relazione causale fra il comportamento di esso ricorrente e il sinistro, ascrivibile a responsabilità esclusiva del L.. In tale contesto, secondo il ricorrente, doveva farsi applicazione del principio secondo il quale per escludersi la colpa non è necessaria la prova di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, ma è sufficiente l’accertamento dell’assenza di una propria colpa e l’idoneità della condotta della controparte a costituire causa esclusiva dell’evento.
Il motivo è infondato.
Sul punto la sentenza impugnata esattamente ha fatto applicazione del principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo il quale in materia di responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli, l’accertamento in concreto della colpa di uno dei soggetti coinvolti nel sinistro, per avere commesso un’infrazione, anche grave, al codice della strada, non esclude la presunzione di colpa concorrente dell’altro, ove non sia stata da questo fornita la prova liberatoria dell’assenza di ogni possibile addebito a suo carico, essendo a tal fine necessario accertare che egli si sia pienamente uniformato alle norme sulla circolazione e a quelle di comune prudenza e abbia fatto tutto il possibile per evitare l’incidente (ex multis: Cass. 14 giugno 2006, n. 3193; 3 novembre 2004, n. 21056; 27 ottobre 2004, n. 20814; 23 febbraio 2004, n. 3549). Mentre costituisce accertamento di merito, adeguatamente motivato dalla sentenza impugnata e pertanto incensurabile in questa sede, quello secondo il quale non era stata data dal C. la prova, in relazione alle circostanze emerse dall’istruttoria espletata, che la sua condotta di guida portasse ad escludere ogni efficienza causale rispetto al sinistro, con riferimento al comportamento da tenersi in prossimità degli incroci ed al criterio di generale prudenza.
10. Infondato è anche il terzo motivo del ricorso principale, con il quale si denunciano la violazione degli artt. 2, 3, 24, 29 e 32 Cost. in relazione agli artt. 2043, 1226, 2056 e 2059 cod. civ., nonché vizi motivazionali, per avere la Corte di appello erroneamente escluso l’esistenza di un danno biologico, per la perdita della congiunta, per C. M. e i suoi figli, in quanto trattandosi di danno conseguenza essi avrebbero dovuto provare la sussistenza in concreto di tale danno, mentre gli attori non avevano neppure addotto un simile danno, limitandosi ad allegare la menomazione del tessuto familiare. Si deduce che in realtà gli attori, con la dicitura "danno biologico iure proprio" avevano inteso riferirsi a quello che viene detto danno esistenziale, inteso come peggioramento oggettivo delle condizioni di vita in conseguenza di un fatto ingiusto che ha provocato la lesione di un diritto costituzionalmente garantito: danno che è in re ipsa, non necessita di prova e può essere liquidato in via equitativa.
La sentenza impugnata ha interpretato la domanda in proposito come richiesta del risarcimento del danno biologico ed ha esattamente affermato, con riferimento ad esso, che non ne era stata data la prova, riformando sul punto la sentenza di primo grado che aveva riconosciuto tale tipo di danno. Peraltro, contestualmente, la sentenza impugnata ha accolto parzialmente il terzo motivo del ricorso incidentale dei C., con il quale lamentavano l’inadeguatezza della misura dell’indennizzo correlato al danno morale per la perdita della congiunta, "sostenendo che in relazione alla giovane età della comune congiunta ed alla immaturità dei figli, la sofferenza inferta riuscisse di particolare severità", sì da fare apparire inadeguato l’indennizzo concesso a tale titolo di lire 100.000.000 per ciascuno dei danneggiati. In proposito la sentenza della Corte di appello ha valutato che, effettivamente, "nella specie la perdita sofferta… appariva di particolare gravità, sia per il coniuge – in relazione alla giovane età della vittima ed alla centralità del ruolo che essa veniva ad occupare nella compagine familiare in ragione della poliedricità del suo impegno di moglie, madre e lavoratrice – che per i figli, privati della madre in un’età in cui la madre costituisce la figura genitoriale di primario rilievo sotto il profilo affettivo". Ha pertanto elevato il risarcimento per "il danno morale per la perdita della congiunta" a lire 200.000.000 per il marito ed euro 140.000.000 per ciascun figlio, correttamente riassorbendo il "danno da perdita del rapporto parentale" – del quale con il motivo in esame, nella sostanza, si lamenta la mancata liquidazione – nel danno morale, secondo un principio aderente a quanto stabilito da queste sezioni unite con le sentenze nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 del 2008, con le quali è stato negato che il cd. "danno esistenziale" costituisca un’autonoma categoria di danno e tutti i danni non patrimoniali sono stati ricondotti nell’ambito della previsione dell’art. 2059 cod. civ., ivi compreso il "danno da perdita del rapporto parentale".
Il motivo, pertanto, deve essere rigettato.
11. Infondato è anche il quarto motivo del ricorso principale, con il quale si denunciano vizi motivazionali e violazione di norme di diritto in relazione ai danni liquidati alla minore C. L., deducendosi che nulla le era stato liquidato a titolo di danno biologico sulla temporanea di giorni novanta, per la quale era stata richiesta la somma di lire 5.400.000 e a titolo di rimborso di spese mediche, documentate in lire 520.000. Risulta, infatti, dalle conclusioni riportate nella sentenza della Corte di appello che con riferimento a C. L. fu richiesta la condanna degli appellanti al pagamento dell’ulteriore somma di lire 17.000.000, "a titolo di danno biologico e morale", da aggiungersi ai venti milioni liquidati in primo grado a tale titolo. Domanda questa che risulta integralmente accolta dalla sentenza della Corte di appello, la quale ha riliquidato il danno in questione complessivamente in lire 37.000.000 (scomposte in lire 27.000.000 a titolo di danno biologico e 10.000.000 a titolo di danno morale), con conseguente infondatezza del motivo.
12. Infondato è anche il quinto motivo del ricorso principale, con il quale si denunciano violazione o falsa applicazione di norme di diritto e vizi motivazionali circa un punto decisivo della controversia, in relazione al danno materiale per la morte di F. L., deducendosi che il danno materiale conseguente al mancato apporto della F. alla famiglia non andava attribuito interamente al marito, ma diviso al 50% fra lui e i figli, in quanto anch’essi avrebbero beneficiato dell’apporto economico della madre, con la conseguenza che sulla somma ad essi spettante non andava operata la riduzione del 30% relativa alla ritenuta corresponsabilità del C..
In proposito va rilevato che in primo grado, per il titolo in questione, secondo quanto esposto nello stesso ricorso principale, tale voce di danno era stata liquidata unicamente in favore del marito della F., C. M., senza che sul punto fosse proposta impugnazione da parte dei figli, vertendo il gravame al riguardo unicamente sulla misura del risarcimento liquidato in prime grado. Ne risulta l’infondatezza della censura, avendo la Corte di appello correttamente accolto l’impugnazione nei limiti della censura formulata, traendo poi le conseguenze, in ordine alla misura liquidabile, del concorso di colpa del C..
13. Parzialmente fondato è, invece, il sesto motivo del ricorso principale, con il quale si denuncia l’errata quantificazione del danno, per avere la Corte di appello quantificato in euro 212.449,25 il credito spettante a C. M. in proprio e quale padre dei minori, da conguagliarsi con la somma già corrispostagli di euro 289.103,27, condannandolo alla restituzione di euro 76.654,02, senza tenere conto che la somma pagata dalla società assicuratrice era comprensiva di lire 19.750.000 per spese di registrazione della sentenza e lire 6.760.866 per spese legali liquidate con l’ordinanza ex art. 186 quater c.p.c.
In effetti la sentenza impugnata ha riliquidato sia le spese di primo che di secondo grado, cosicché esattamente la compensazione è stata operata anche con riferimento alle spese liquidate con l’ordinanza ex art. 186 quater, non più dovute, mentre erroneamente la Corte di appello ha omesso di disporre che il conguaglio avvenisse tenendosi conto anche delle spese di registrazione della sentenza di primo grado, che non è contestato essere state anticipate dai C.. Il motivo, pertanto, va accolto entro tali limiti.
14. Venendosi all’esame del ricorso incidentale, il primo motivo va dichiarato assorbito essendo condizionato all’accoglimento del terzo motivo del ricorso principale che è stato rigettato.
Infondato è il secondo motivo, con il quale si denunciano vizi motivazionali e la violazione degli artt. 1223, 1224, 1227, 1283, 2056 e 2058 cod. civ., in relazione alla liquidazione degl’interessi al tasso dell’8% dalla data del sinistro al 19 maggio 1997, sulle somme già rivalutate a tale data, invocandosi il diverso principio stabilito dalle sezioni unite di questa Corte con la sentenza 17 febbraio 1995, n. 1712.
La Corte di appello ha attribuito ai litisconsorti C. gl’interessi compensativi al tasso medio dell’8% annuo: a) sulle somme ad essi attribuite definitivamente rivalutate alla data della decisione di primo grado (lire 628.640.728), dalla data del fatto illecito (omissis) alla data di corresponsione del primo acconto (1 dicembre 1991); b) dall’1 dicembre 1991 all’1 maggio 1997 (data del pagamento da parte dell’assicuratore) sull’importo del credito residuo rivalutato a tale ultima data (lire 202.090.728). Tali statuizioni, peraltro, non si pongono in contrasto con il principio, stabilito da queste sezioni unite, secondo il quale: "In tema di risarcimento del danno da fatto illecito extracontrattuale, se la liquidazione viene effettuata per equivalente, e cioè con riferimento al valore del bene perduto dal danneggiato all’epoca del fatto illecito, espresso poi in termini monetari che tengano conto della svalutazione monetaria intervenuta fino alla data della decisione definitiva è dovuto inoltre il danno da ritardo e cioè il lucro cessante provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma, che deve essere provato dal creditore. La prova può essere data e riconosciuta dal giudice mediante criteri presuntivi ed equitativi e quindi anche mediante l’attribuzione degli interessi, ad un tasso stabilito valutando tutte le circostanze obiettive e soggettive inerenti alla prova del pregiudizio subito per il mancato godimento – nel tempo – del bene o del suo equivalente in denaro. Se il giudice adotta, come criterio di risarcimento del danno da ritardato adempimento, quello degli interessi, fissandone il tasso, mentre è escluso che gli interessi possano essere calcolati dalla data dell’illecito sulla somma liquidata per il capitale, rivalutata definitivamente, è consentito invece calcolare gli interessi con riferimento ai singoli momenti (da determinarsi in concreto, secondo le circostanze del caso) con riguardo ai quali la somma, equivalente al bene perduto, si incrementa nominalmente, in base agli indici prescelti di rivalutazione monetaria, ovvero ad un indice medio" (Cass. sez. un., 17 febbraio 1995, n. 1712). Nel caso di specie, infatti, la Corte di appello ha fatto ricorso a tale ultimo criterio, applicando un tasso d’interesse medio sulla somma rivalutata, in parte con decorrenza dalla data del fatto – in modo da tener conto che gl’interessi decorrono su una somma che inizialmente non era di quell’entità e che si è solo progressivamente adeguata a quel risultato finale – la cui legittimità è stata costantemente confermata anche dalla successiva giurisprudenza di questa Corte (Cass. 10 marzo 2006, n. 5234; 9 giugno 2004, n. 10967; 5 agosto 2002, n. 11712; 8 maggio 2002, n. 6590).
Il terzo motivo del ricorso incidentale, riguardante le spese dei gradi precedenti, va dichiarato assorbito.
15. Il ricorso principale deve essere accolto, pertanto, limitatamente al sesto motivo, nei sensi sopra indicati, mentre vanno rigettati tutti gli altri motivi. Il ricorso incidentale va rigettato. La sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto.
Sussistono le condizioni per la decisione nel merito, ex art. 384 c.p.c., in relazione al motivo parzialmente accolto, in quanto le spese di registrazione della sentenza debbono essere attribuite e liquidate nella misura di lire 19.750.000 (pari ad euro 10.200,02) in favore dei ricorrenti principali, non essendo contestato nel controricorso che le abbiano pagate, né la loro misura. Cosicché – dovendo essere attribuita ai ricorrenti principali tale ulteriore somma – la somma dovuta in restituzione dai ricorrenti principali al Lloyd Adriatico, con gl’interessi legali dal 19 maggio 1997 all’effettiva restituzione, non è quella stabilita nella sentenza impugnata, di lire 148.422.890 (euro 76.654,02), ma è quella di lire 148.422.890 (euro 76.654,02) meno lire 19.750.000 (euro 10.200,02), pari a lire 128.672.890 e ad euro 66.454,00, con gl’interessi dalla data su detta.
Quanto alle spese, il L. ed il *************** vanno condannati al pagamento delle spese dei due gradi di merito, che si liquidano come in dispositivo, mentre si ravvisano giusti motivi per compensare le spese del giudizio di cassazione, tenuto conto del rigetto di gran parte delle censure proposte dai ricorrenti principali.

P.Q.M.

La Corte di cassazione
Riuniti i ricorsi, accoglie il sesto motivo del ricorso principale. Rigetta gli altri ed il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata limitatamente al motivo accolto e decidendo nel merito, attribuisce ai ricorrenti principali la somma di euro 10.200,02, così riducendo la somma complessivamente dovuta in restituzione da C. M., C. L. e C. F., ad euro 66.454,00, con gl’interessi legali dal 19 maggio 1997. Condanna il Llyod Adriatico e *****, in solido, al pagamento delle spese del giudizio di primo grado, che liquida nella misura complessiva di euro 6.843,65, di cui euro 849,36 per spese, comprensive di quelle generali, euro 1,800,65 per diritti ed euro 4.193,64 per onorari, nonché al pagamento delle spese del giudizio di secondo grado, che liquida nella misura complessiva di euro 8.835,49, di cui euro 956,95 per spese, comprensive di quelle generali, euro 1300,56 per diritti ed euro 6.577,98 per onorari. Compensa le spese del giudizio di cassazione.

Redazione