Corte di Cassazione Civile sez. I 1/12/2008 n. 28531; Pres. Ianniruberto G.

Redazione 01/12/08
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Dott. S.S. è stato assunto dall’Azienda Usl (OMISSIS) a far tempo dall’1.4.1999, in qualità di dirigente medico di primo livello, con patto di prova di mesi sei e, allo scadere del periodo minimo garantito – così come previsto all’atto della nomina – era stato dispensato dal servizio.

Impugnata tale provvedimento dinanzi al Tribunale di Venezia, l’adito giudice, con sentenza 30 maggio 2002, dichiarava l’illegittimità del licenziamento ordinando la riassunzione per il completamento del periodo di prova.

A seguito di gravame dell’azienda sanitaria, la Corte di appello di Genova, con sentenza 5 aprile – 10 agosto 2005, in riforma della decisione di primo grado, ha rigettato la domanda dello S..

Per quanto rileva ai fini del presente giudizio quella Corte, premesso che il recesso era stato comunicato dopo il periodo di prova minimo garantito, valutava le risultanze processuali e riteneva che le ragioni, che avevano indotto l’azienda a risolvere il rapporto, erano state confermate e che tali fatti davano ampiamente conto della valutazione negativa sull’opera del sanitario.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre lo S. con due motivi.

Resiste con controricorso l’Azienda USL n. (OMISSIS).

Le parti hanno depositato memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo – denunziando violazione di legge per mancata applicazione dell’art. 15, comma 5, CCNL per la Dirigenza Medica – sostiene il ricorrente che, in forza della norma richiamata, il recesso dell’azienda deve essere motivato, il che significa, contrariamente a quanto argomentato nel l’impugna sentenza, che ricadeva sul datore di lavoro l’onere di dimostrare le ragioni ostative al superamento del periodo di prova; pertanto, non doveva essere il dipendente a dimostrare che il recesso era stato determinato da un intento discriminatorio od illecito dell’azienda.

Con il secondo motivo il ricorrente ascrive alla sentenza impugnata un vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ai vari episodi, che l’ente aveva addotto per esprimere una valutazione negativa sul suo operato, rilevando, al contrario, che i fatti relativi a tali episodi si erano svolti in maniera diversa ed in modo da non giustificare l’intimato recesso.

I due motivi, per essere tra di loro connessi, vanno esaminati congiuntamente ed, essendo privi di fondamento, non possono essere condivisi.

In linea di principio occorre ricordare che questa Corte, anche di recente (cfr. Cass. 5 novembre 2007 n. 23061) ha affermato che il licenziamento intimato nel corso o al termine del periodo di prova, avendo natura discrezionale, non deve essere motivato, salvo che la motivazione sia imposta, a tutela del lavoratore, dalla contrattazione collettiva; in tale ultimo caso, la motivazione ha la funzione di dimostrare sinteticamente che il recesso è stato determinato effettivamente da ragioni specifiche inerenti all’esito dell’esperimento in prova (che costituisce la causa del patto) e che non è dovuto a ragioni illecite, o comunque estranee al rapporto, ed in particolare a forme di discriminazione; inoltre, ove il prestatore non assunto in via definitiva contesti quella motivazione, il datore deve integrarla opportunamente fornendo le indicazioni specifiche e complete delle ragioni della decisione assunta. Ha poi aggiunto che l’obbligo di motivazione non può spostare integralmente l’onere della prova sul datore di lavoro, così come avviene per il licenziamento di un dipendente a tempo indeterminato. Quando è prescritta essa ha la funzione di dimostrare che il recesso del datore è stato determinato effettivamente da ragioni specifiche inerenti all’esito dell’esperimento in prova (che costituisce la causa del patto) e che non è dovuto a ragioni illecite, o comunque estranee al rapporto, ed in particolare a forme di discriminazione, come tali illegittime. Orbene, nella specie, come emerge dalla sentenza impugnata, l’azienda sanitaria ha dato ampio conto delle ragioni per la sua valutazione negativa sull’operato del ricorrente e, con motivazione ampia ed articolata, si è anche fatto carico di esaminare i singoli episodi, che a dire dell’ente, evidenziavano la sua non convenienza alla prosecuzione del rapporto.

Contro questo accertamento dei fatti, eseguito con puntuali riscontri su vari episodi avvenuti duranti il periodo di prova, e con un’argomentazione logica e corretta, il ricorrente oppone una diversa ricostruzione, senza peraltro segnalare eventuali deficienze nella motivazione, per cui la censura proposta si risolve in una diversa interpretazione dei fatti, nel maggior rilievo attribuito a talune circostanze in luogo di altre maggiormente valorizzate nella sentenza impugnata, osservazioni tutte che in questa sede di legittimità non possono condurre all’annullamento della sentenza impugnata, essendo rimesso alla valutazione del giudice del merito basare il suo convincimento su alcuni profili in fatto.

Il ricorso va pertanto rigettato e le spese del giudizio, per il principio della soccombenza, vanno poste a carico del ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in Euro 33,00, di Euro 2.500,00 (duemilacinqueceento/00), oltre IVA, CPA e spese generali.

Redazione