Corte di Cassazione Civile 19/11/2008 n. 27506; Pres. Criscuolo A.

Redazione 19/11/08
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione 13 febbraio 1995, la signora S.C. chiese al Tribunale di Milano la condanna della Pioneer Electronics Italia s.p.a. (nel seguito: *******) al risarcimento dei danni morali e materiali cagionati dalla pubblicazione non autorizzata di una sua fotografia – nella quale appariva di profilo, a torso nudo, in ambiente marino – nel contesto di una campagna pubblicitaria proposta dalla (omissis) nel (omissis) per mezzo d’affissioni murali di cartelloni di grandi dimensioni. Secondo l’esposizione dell’attrice, la fotografia era stata scattata da un professionista nell’estate del (omissis) in (omissis), e faceva parte del suo "book" personale da utilizzare presso le agenzie di moda e i committenti pubblicitari per promuovere, all’epoca, la sua professione di modella, poi abbandonata nel (omissis). L’attrice chiedeva il risarcimento dei danni in qualità di persona riconoscibilmente ritratta, che non aveva consentito, nell’attualità, alla specifica utilizzazione pubblicitaria.

La Pioneer sostenne la legittimità della sua condotta, e chiamò in causa Lionhearth s.r.l. (nelle more del giudizio divenuta prima G.G.A. s.r.l. in liquidazione, poi Republic s.r.l.), che aveva organizzato la campagna pubblicitaria, e l’Action Press Photo Agency s.n.c. (nel seguito: agenzia), che aveva messo a disposizione la fotografia, avendola acquistata dal fotografo, C.P.. La Lionhearth si difese dichiarando di aver utilizzato la fotografia messa a sua disposizione dalla società committente, e l’agenzia documentò di aver acquistato i diritti sulla fotografia. Nel giudizio intervenne anche il signor C.P., che produsse l’atto di cessione dei diritti sulla fotografia, sottoscritto dall’attrice il (omissis), e chiese l’accertamento del suo diritto patrimoniale d’autore.

Con sentenza n. 10603 del 2001, il Tribunale respinse le domande proposte in causa dall’attrice, dichiarò inammissibile la domanda proposta dall’intervenuto C., e dichiarò compensate le spese tra le parti. La signora S. propose appello, deducendo che il suo generico, iniziale consenso alla diffusione della sua immagine, della quale ribadiva la riconoscibilità, valeva soggettivamente solo a favore del fotografo destinatario, e non si estendeva, oggettivamente, all’imprevedibile ipotesi di un così massiccio sfruttamento pubblicitario a fini di lucro da parte di terzi; il consenso medesimo, inoltre, non era più attuale dopo cinque anni, e quando l’appellante aveva abbandonato l’attività di modella. Nel giudizio di gravame davanti alla Corte d’appello di Milano si costituirono tutti gli appellanti, proponendo appello incidentale sul regolamento delle spese del primo grado. Il signor C., inoltre, lamentò la dichiarata inammissibilità della sua domanda.

Con sentenza 25 luglio 2003, la Corte d’Appello di Milano respinse tutti i gravami e regolò le spese, in particolare compensandole nel rapporto tra l’appellante principale e il C..

La corte, dopo aver richiamato i principi di diritto applicabili alla fattispecie, premise che i diritti sulla fotografia, scattata in (omissis) nell’estate del (omissis), erano stati ceduti in quello stesso anno dall’appellante al fotografo con atto scritto, e senza espresse limitazioni; che tale cessione costituiva il corrispettivo dell’opera professionale del fotografo e delle spese di viaggio, da lui interamente sostenute; che nello stesso anno il fotografo aveva consegnato, per l’eventuale commercializzazione, il materiale all’agenzia; che l’occasione di utilizzarlo si era presentata nel (omissis), allorchè l’agenzia acquistò dal fotografo i diritti sulla foto in questione, e cedette a sua volta alla Pioneer l’utilizzo del "fotocolor per affissione nazionale 6 mesi". La corte accertò quindi che la persona ritrattata era riconoscibile, ma giudicò la cessione univoca e valida nel riferimento ad ogni prevedibile utilizzazione del ritratto. Poichè il C., autore della fotografia, era già titolare dei diritti morali su di essa, la cessione in suo favore dei connessi diritti d’utilizzazione economica non poteva significare se non consenso all’esposizione, riproduzione e messa in commercio, di cui all’art. 96 della Legge sul diritto d’autore. Quanto ai limiti del consenso medesimo, che dovevano essere provati da chi lo aveva espresso per iscritto, l’utilizzazione pubblicitaria non poteva ritenersi oggettivamente imprevedibile, essendo un impiego ordinario e sperato delle fotografie di modelli professionisti o aspiranti.

Ciò era stato in qualche modo ammesso dalla stessa appellante, che avrebbe voluto limitarlo alla sua attività di fotomodella; non si comprendeva però, in quest’impostazione, l’utilità del fotografo di acquistare a titolo oneroso dei diritti ad un’esibizione promozionale a vantaggio solo della stessa modella, alla quale peraltro erano state consegnate copie delle fotografie. Quanto ai limiti soggettivi, il consenso era collegato alla controprestazione, e dunque, in mancanza d’ulteriori limiti, andava non solo a favore del primo destinatario, ma anche dei suoi legittimi aventi causa, tanto più che la S. non aveva mai allegato un qualche intuitus personae o un rapporto fiduciario che potesse limitare il suo consenso a favore del C., con il quale si era messa in contatto attraverso un’agenzia. Il tempo trascorso, se valorizzato in relazione alla richiesta attualità del consenso, non poteva tradursi se non in una peraltro problematica revocabilità; nel qual caso il mancato esercizio della revoca, prima della compiuta realizzazione della campagna pubblicitaria, era dirimente nella controversia. Altri profili di danno in relazione ad ipotizzabili illeciti erano stati abbandonati dall’appellante, e in ogni caso dovevano essere esclusi nel merito. Quanto alle spese processuali richieste dal C., la corte qualificò il suo intervento in causa come diretto ad adiuvandum, adesivo alla posizione dell’agenzia cessionaria delle foto, ma tale da non legittimare la proposizione d’autonome domande d’accertamento di suoi diritti patrimoniali in ordine alla fotografia, peraltro da lui ceduta all’agenzia; la soccombenza del C. in appello giustificava poi la compensazione delle spese, nel rapporto processuale con l’appellante principale.

Per la cassazione della sentenza, notificata il 5 gennaio 2004, la signora S. ricorre con atto notificato il 27 febbraio 2004, articolato in due mezzi d’impugnazione.

La Pioneer Italia s.p.a. resiste con controricorso notificato il 31 marzo 2004; la Republic s.r.l., già G.G.A. s.r.l. in liquidazione, con controricorso notificato il 6 aprile 2004; l’************************* s.n.c. con controricorso notificato il 6 aprile 2004.

Il signor C.P. resiste con controricorso e ricorso incidentale, articolato in due motivi, uno dei quali condizionato, notificato il 6 aprile 2004; ad esso la ricorrente principale resiste con controricorso notificato il 14 maggio 2004.

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’eccezione d’inammissibilità del ricorso per difetto di procura speciale, a causa della genericità di quella rilasciata in margine al ricorso, è infondata. La procura in questione, quantunque formulata in termini generici, deve intendersi riferita al ricorso in margine al quale è rilasciata, mentre alla mancanza di data della procura sopperisce la sua presenza nella copia notificata, la quale dimostra che essa era stata conferita prima della consegna del plico all’ufficiale giudiziario.

Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione di norme di diritto (e precisamente della L. 22 aprile 1941, n. 633, artt. 12, 88, 96 e 97), e l’esistenza di vizi di motivazione in relazione al punto della decisione costituito dall’individuazione di limiti soggettivi ed oggettivi del consenso prestato alla utilizzazione dell’immagine della ricorrente. Si sostiene che la mera circostanza dell’avvenuta prestazione del consenso non era sufficiente a risolvere il problema di causa, e a ritenere scriminata qualsiasi utilizzazione dell’immagine. La corte territoriale avrebbe attribuito alla dichiarazione liberatoria sottoscritta dalla S. un significato ampio, non normativamente previsto. Il semplice consenso rilasciato dalla S., tuttavia, non aveva valenza illimitata nello spazio e nel tempo e sul punto la motivazione sarebbe insufficiente. Nella fattispecie la pubblicazione dell’immagine – prosegue la ricorrente – era lesiva del suo onore e del suo decoro, perchè la ritraeva a seno nudo. Sarebbe stato pertanto "prevedibile e forse più ragionevole" ritenere che la liberatoria in questione valesse ad offrire un generico consenso alla promozione della propria immagine e dovesse operare in un ambito comunque ristretto. Le fotografie, inoltre, erano state commissionate per un "book" di proprietà della modella e non per qualsiasi divulgazione. La ricorrente infine argomenta dalla pur riconosciuta revocabilità del consenso la dimostrazione del suo carattere non assoluto: ciò postulava, a distanza di cinque anni dal suo rilascio, un’esplicita autorizzazione che il soggetto intenzionato ad avvalersi dell’immagine avrebbe dovuto richiedere alla ricorrente; e tale autorizzazione, avente ad oggetto l’uso per la pubblicità commerciale, doveva essere specifica.

Il motivo è infondato. Il giudice di merito ha rilevato che, nella fattispecie di causa, l’odierna ricorrente aveva espresso per iscritto la sua volontà di cedere i diritti patrimoniali sulla fotografia, senza indicare dei limiti a tali diritti, e questo accertamento di fatto non è messo in discussione dal mezzo d’impugnazione. La ricorrente sostiene peraltro che la cessione sarebbe stata subordinata a limiti soggettivi ed oggettivi, non rispettati nella vicenda sottoposta al giudizio. Nonostante la genericità dell’allegazione, che sembra volersi avvalere qui (vale a dire, in una fattispecie di manifestazione scritta di volontà negoziale) di una giurisprudenza elaborata a proposito dell’interpretazione del consenso tacito all’utilizzazione del ritratto, il giudice di merito si è dato carico dell’indagine sulla sussistenza di limiti desumibili dalle circostanze di fatto nelle quali il fotografo eseguì il ritratto, e la persona ritratta sottoscrisse l’atto di cessione, esponendo compiutamente le ragioni che inducevano ad escludere che quei limiti fossero stati sia pur tacitamente posti dalla disponente. In particolare, il giudice di merito ha accertato che la cessione aveva la funzione di remunerazione del fotografo professionale per le spese da lui anticipate e per il servizio fotografico realizzato a favore della committente; ha quindi osservato che la limitazione soggettiva della cessione a favore del cessionario, escludendo la commercializzazione delle fotografie avrebbe svuotato di contenuto economico l’attribuzione; e che la limitazione oggettiva in funzione della promozione della fotomodella avrebbe soddisfatto un interesse della sola committente, e non anche del fotografo (argomenti che non sono stati fatti oggetto di censure specifiche). Ora, la questione dei limiti al consenso prestato si traduce in un’indagine sull’interpretazione del negozio giuridico, e dunque della volontà espressa dalla parte, nella fattispecie, in forma scritta; indagine da svolgere nel rispetto degli artt. 1362 e 1371 c.c., dei quali non si deduce, con il mezzo in questione, la violazione. A questo riguardo, infatti, la ricorrente si limita ad indicare una diversa interpretazione, a suo giudizio "forse più ragionevole", sollecitando così una valutazione tipicamente di merito, preclusa alla corte di legittimità; mentre omette di individuare vizi logici della motivazione, o di indicare punti precisi sui quali la valutazione del giudice di merito, pur sollecitata, sarebbe mancata;

sicchè, ancor meno di tali punti può illustrare il carattere decisivo, pur richiesto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Anche l’incidenza sulla validità del consenso del tempo trascorso, di cinque anni, peraltro prospettata in termini generici, e senza l’allegazione di un limite temporale preciso e più breve di validità della manifestazione della volontà, concerne in ogni caso un profilo esclusivamente di merito, non sindacabile in questa sede.

Infondata è pure la censura sul punto della revocabilità del consenso, dalla quale si vorrebbe arbitrariamente dedurre la necessità, per il lecito uso della fotografia, di un rinnovato consenso. Una tale necessità, invero, più che dedursi dalla revocabilità del consenso, la contraddice, giacchè, sebbene il consenso sia stato prestato senza limiti temporali, ne limita il valore all’attualità del momento del suo rilascio, rendendo superflua ogni revoca. E’ certamente vero, a questo riguardo, che il consenso alla pubblicazione della propria immagine costituisce un negozio unilaterale, avente ad oggetto non il diritto, personalissimo ed inalienabile, all’immagine, ma soltanto il suo esercizio; e che il consenso, sebbene possa essere occasionalmente inserito in un contratto (come sarebbe avvenuto nella fattispecie), da esso resta tuttavia distinto ed autonomo: con la conseguenza che esso è revocabile in ogni tempo, e anche in difformità di quanto pattuito contrattualmente, salvo, in questo caso, il diritto dell’altra parte al risarcimento del danno (Cass. 17 febbraio 2004 n. 3014). Ma, se revoca (tempestiva, e cioè anteriore all’utilizzazione) non vi sia stata, il consenso precedentemente prestato resta efficace, e legittima l’uso che ne sia stato fatto in conformità alle previsioni contrattuali, accertabili con gli ordinari mezzi processuali; e tale accertamento, riservato al giudice di merito, è insindacabile in cassazione, se sostenuto da motivazione congrua ed esente da vizi logici e giuridici.

Con il secondo motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2059 e 1226 c.c., per avere la corte territoriale escluso il diritto al risarcimento del danno, negando l’esistenza di lesioni all’onore e al decoro della appellante, nonchè vizi di motivazione della sentenza impugnata. Si sostiene che la campagna pubblicitaria aveva recato pregiudizio alla reputazione della S., e che "l’illecito, in questo caso, non può non avere natura diffamatoria", con la conseguenza che al risarcimento del danno economico deve aggiungersi quello dei danni non patrimoniali, la cui sussistenza deve ritenersi "in re ipsa". Da ultimo si svolgono delle considerazioni in relazione ad una violazione della legge sulla tutela delle persone rispetto al trattamento dei dati personali (L. n. 675 del 1996). L’ultimo riferimento alla L. n. 675 del 1996, è inammissibile, perchè vertente su questioni che la ricorrente non riferisce di aver sottoposto al giudice di merito (nella sentenza, infatti, la questione non risulta essere stata sollevata).

Nel resto il mezzo, sebbene posto sotto la rubrica della violazione di norma di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), è apertamente diretto a sollecitare dalla corte una valutazione di merito degli elementi della fattispecie. La violazione denunciata, infatti, sarebbe stata commessa, dalla corte territoriale, affermando che nella fattispecie la fotografia pubblicata non era lesiva dell’onore e del decoro della persona ritratta. Si tratta di un tipico giudizio di merito, sindacabile in sede di legittimità negli stretti limiti di congruenza e logicità della motivazione, indicati dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e in nessun caso con il mezzo d’impugnazione prescelto, che deve di conseguenza essere dichiarato inammissibile.

Con il ricorso incidentale, il signor C. censura il regolamento delle spese processuali nei due gradi di merito. Egli sostiene che, sebbene non fosse stato citato in causa, il suo intervento nel giudizio intrapreso dalla S. si era reso necessario per dimostrare la circostanza dell’avvenuto rilascio del consenso all’utilizzazione della fotografia, contestata dall’attrice; e che in appello era stato citato dalla S., sicchè aveva dovuto costituirsi per difendersi.

Il mezzo è infondato. Il ricorrente, infatti, è intervenuto nel giudizio, nel quale non era stato citato (e contro di lui non erano state proposte domande), senza limitarsi ad aderire alle difese della convenuta e delle altre parti chiamate in causa, ma proponendo una propria domanda d’accertamento di diritti patrimoniali, che è stata giudicata inammissibile, determinando la sua formale soccombenza. Per tale ragione non vi erano i presupposti perchè la signora S. dovesse essere condannata al pagamento delle spese in suo favore. La correttezza del regolamento delle spese nel primo grado, accertata dalla corte di merito, ha comportato il rigetto del suo appello, e il conseguente regolamento delle spese del giudizio di gravame.

Il rigetto dell’impugnazione principale assorbe il secondo motivo del ricorso incidentale proposto dal signor C., e condizionato all’accoglimento del ricorso principale, in punto di riconoscibilità della modella nella fotografia.

In conclusione i ricorsi riuniti devono essere rigettati; la ricorrente principale deve essere condannata al pagamento delle spese di ************************** s.p.a., ********************************, e Republic s.r.l., liquidate come in dispositivo. Nei rapporti tra ricorrente principale e ricorrente incidentale, entrambi soccombenti, le spese del giudizio di legittimità sono compensate.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione nei confronti d’Action Press Photo Agency s.n.c., Republic s.r.l., ************************** s.p.a., liquidandole per ciascuna di tali parti in complessivi Euro 7.400,00, di cui Euro 7.200,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge; compensa le spese del giudizio di cassazione tra la ricorrente principale e il signor C.P..

Redazione