L’errore terapeutico del dentista non è causa del danno biologico subito dal paziente se questo è dipeso dal mancato intervento di un dentista successivo

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La vicenda

La questione posta all’attenzione della Corte di appello di Palermo nasce da un lamentato inadempimento dell’appellante a carico di un dentista che non aveva adottato una corretta terapia canalare con ricostruzione attraverso perni in fibra e ceramica per la cura di una carie al morale inferiore destro della paziente. In ragione della lamentata non corretta esecuzione della terapia, la paziente aveva chiesto in primo grado la condanna al risarcimento del danno subito sia patrimoniale, per le spese che ella aveva sostenuto per i successivi interventi che aveva dovuto eseguire per rimediare all’errore del primo dentista, sia non patrimoniale (morale e alla salute) a causa dell’aumento della alitosi, dell’aumento dello spazio interdentale inferiore, della comparsa di una formazione cistica nella gengiva oggetto di trattamento e infine della asportazione forzata del dente cariato.

La domanda risarcitoria avanzata dalla attrice veniva accolta soltanto parzialmente in primo grado, in quanto seppure il tribunale riteneva sussistente un errore imputabile al primo dentista nella terapia canalare che egli aveva eseguito, il giudice di prime cure aveva altresì ritenuto che il danno avrebbe potuto essere eliminato attraverso successivo trattamento che l’attrice non aveva voluto eseguire. Riconducibile all’errore terapeutico posto in essere dal primo dentista soltanto il danno non patrimoniale subito dall’attrice, pari ad euro 500, relativo all’onorario costo di una ulteriore terapia canalare corretta; mentre non erano riconducibili causalmente all’errore del medico del primo dentista gli ulteriori danni lamentati dall’attrice quali tra tutti l’eliminazione del dente. Infatti, a detta del Tribunale, tale danno era invece imputabile al comportamento omissivo del secondo dentista cui si era rivolta la paziente attrice, il quale, omettendo di intervenire sul dente aveva determinato l’aumento dell’infezione, la quale era quindi individuabile come effettiva causa della successiva asportazione del dente stesso.

La paziente, non contenta della decisione del tribunale, proponeva, quindi, appello avverso la sentenza, rilevando come il giudice di primo grado avesse errato nella sua decisione avendo valutato soltanto le conclusioni della relazione del consulente tecnico d’ufficio e non tenendo invece in considerazione tutti gli elementi che erano emersi dall’istruttoria. Secondo l’appellante, invece, da detti elementi istruttori si poteva agevolmente ricavare che il primo dentista avesse volontariamente collocato il perno vicino al nervo facciale e che successivamente all’intervento la paziente aveva avuto un aumento della alitosi e dello spazio interdentale nell’arcata inferiore nonché che il secondo dentista si era semplicemente limitato ad eseguire una radiografia della zona oggetto del primo intervento dalla quale era appunto emersa la presenza di un corpo estraneo nella gengiva. L’appellante concludeva, quindi, evidenziando come dall’istruttoria non era emerso che l’intervento del secondo dentista potesse essere identificato come una causa idonea ad interrompere il nesso di causalità tra l’inadempimento del primo dentista e le lesioni subite dalla paziente.

La decisione

La corte di appello di Palermo ha, in primo luogo, rilevato come sia ormai costante orientamento della cassazione secondo cui il giudice di merito non deve motivare in maniera dettagliata e argomentata quando ritiene di aderire alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio che le parti non abbiano contestato in maniera specifica. Secondo la corte siciliana, infatti, nel caso di specie, l’appellante non aveva censurato le conclusioni del consulente d’ufficio in maniera puntuale e specifica adducendo argomentazioni scientifiche, ma si era semplicemente limitato a contestare genericamente le conclusioni senza fornire alcuna documentazione a sostegno delle proprie contestazioni. In secondo luogo, il giudice ha ritenuto infondate anche delle i rilievi dell’appellante circa la mancata valutazione del tribunale del resto del materiale probatorio emerso all’estero dell’istruttoria, in quanto le circostanze emerse erano relative a fatti non contestati o comunque privi di rilevanza per la decisione e le prove offerte dalla paziente, invece, non avevano dimostrato la fondatezza della sua domanda oltre i limiti di quanto era stata già accolta in primo grado.

Ciò detto, la corte d’appello di Palermo, ribadisce che nei giudizi aventi ad oggetto la responsabilità medica grava sul paziente danneggiato l’onere di provare l’esistenza del nesso di causalità fra la condotta del medico e il danno lamentato e in particolare di provare che la condotta del sanitario sia causa del danno secondo il principio del più probabile che non. In ragione di ciò, secondo il giudice d’appello, il mancato assolvimento del suddetto onere e quindi l’ipotesi dell’incertezza della causa che ha determinato il danno determinato il rigetto della domanda risarcitoria. Infatti, non è sufficiente dimostrare l’errore del sanitario ma è necessario accertare altresì la sussistenza del suddetto nesso di causalità: pertanto, trattandosi di accertamenti distinti, la dimostrazione dell’errore non determina automaticamente la dimostrazione anche del nesso di causalità (così come, di riflesso, la prova delle sue di causalità, non determina automaticamente anche la prova dell’errore del sanitario). Ebbene, secondo il giudice d’appello siciliano tali regole pacificamente applicate dalla giurisprudenza di legittimità in materia di responsabilità sanitaria valgono anche con riferimento ai dentisti e quindi all’attività odontoiatrica in quanto trattasi comunque di attività volta alla prevenzione, diagnosi e terapia medica e chirurgica delle patologie relative a denti, gengive, ossa mascellari ecc.

In considerazione di tutto quanto sopra, la corte d’appello di Palermo ha ritenuto che, nel caso di specie, l’appellante non abbia fornito la prova del nesso di causalità fra la condotta del dentista, che non aveva eseguito correttamente il trattamento sul dente oggetto di cura lasciandovi all’interno della gengiva un frammento del materiale utilizzato, e il danno che la stessa aveva subito consistente nella perdita obbligata del dente. Anzi, a detta del giudice d’appello, dall’istruttoria di primo grado era al contrario emerso che la perdita di detto dente era dipesa e dovuta alla mancata esecuzione di una terapia apposita da parte del secondo dentista che era intervenuto per porre rimedio all’errore terapeutico commesso dal primo dentista.

La Corte di appello di Palermo ha, quindi, rigettato l’appello e confermato integralmente la sentenza di primo grado, compensando le spese di giudizio di entrambi i gradi.

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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