Corte d’Appello Sezione penale Salerno 8/1/2009; Pres. D’Elicio F.

Redazione 08/01/09
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Corte d’Appello Salerno, sez. penale, 8 gennaio 2009

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

(omissis) è stato tratto a giudizio dinanzi al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Nocera Inferiore perché imputato del reato p. e p. dall’art. 572 c.p.c., accertato in (omissis) sino al 18.6.2001.
All’ esito del dibattimento il giudice adito, con sentenza emessa il 29 marzo 2007, ha affermato la responsabilità dell’imputato e gli ha irrogato la pena – sospesa – di mesi otto di reclusione, senza adottare alcun provvedimento in favore della costituita parte civile.
Il primo giudice ha rilevato che la ricostruzione della vicenda familiare cui si riferisce la contestazione è fondata esclusivamente sulla deposizione della moglie dell’imputato, ****, che ha riferito che, dopo alcuni anni di matrimonio, il comportamento del marito era stato improntato a sistematica prevaricazione nei suoi confronti, nel senso che la stessa era stata oggetto continuo di minacce, ingiurie, violenze e umiliazioni, aggiungendo che la situazione era precipitata quando l’imputato aveva iniziato una relazione stabile con un’altra donna, di origine polacca, che aveva portato con sé nell’abitazione familiare. Il GUP ha ritenuto pienamente attendibili le dichiarazioni rese dalla (omissis), perché connotate da coerenza logica interna, prive di particolare malanimo e, sostanzialmente, non contrastate da alcun elemento probatorio. Il primo giudice, quanto al trattamento sanzionatorio, ha riconosciuto l’imputato le circostanze attenuanti generiche, essenzialmente in ragione della sua incensuratezza, condannandolo alla pena di mesi otto di reclusione. Nulla è stato disposto sulla richiesta di risarcimento del danno della parte civile e sul pagamento delle spese processuali.

Avverso tale decisione ha proposto appello, in data 22 maggio 2007, da parte civile, (omissis) rilevando che il giudice di prime cure nulla aveva statuito in ordine alle richieste avanzate dalla costituita parte civile in primo grado e, in particolare, sul risarcimento del danno subito e sulla liquidazione delle spese legali.
All’ udienza indicata in epigrafe, svoltasi in costanza di rituale contumacia dell’imputato, esaurita la discussione, l Procuratore ******** e il difensore della parte civile hanno formulato le rispettive conclusioni, trascritte nel verbale in atti.

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’unico motivo posto a sostegno dell’atto di appello deve trovare accoglimento.
Come rilevato in narrativa, all’udienza del 29 marzo 2007, davanti al giudice di prime cure, si era costituita la parte civile richiedendo il risarcimento dei danni e la rifusione delle spese. In sede di decisione finale, però, il giudice di primo grado non ha adottato alcun provvedimento, con riferimento alla richiesta di risarcimento del danno e di pagamento delle spese processuali sostenute dalla parte civile.

Le risultanze processuali hanno dimostrato che l’appellante aveva subito dal marito comportamenti molto aggressivi sfociati, in qualche occasione, in percosse. Va rilevato che il reato di maltrattamenti in contesto familiare è caratterizzato da forti tensioni e ciò indipendentemente se le stesse sono ascrivibili ad entrambi i protagonisti della vicenda, tra i quali viene a crearsi un clima di reciproca insofferenza e intollerabilità. Infatti, anche una tale situazione deve essere comunque gestita con equilibrio, nel rispetto delle regole di civile convivenza e della dignità fisica e morale della persona e non legittima reazioni che insistono su condotte abitualmente proiettate alla aggressione, alla mortificazione e all’umiliazione della controparte (Cassazione penale , sez. VI, 27 maggio 2008, n. 35862).
Le emergenze processuali richiamate dalla sentenza impugnata offrono la prova del comportamento antigiuridico ascritto all’imputato, concretizzatosi in reiterati atti lesivi dell’integrità fisica e morale, della libertà e della dignità della vittima, sì da rendere abitualmente e progressivamente dolorose e mortificanti le relazioni tra gli stessi soggetti. I molteplici riferimenti alle ripetute aggressioni subite nel tempo dalla appellante sono sintomatici del regime di vita vessatorio e intollerabile a costei imposto dal marito. E, d’altra parte, le prevaricazioni di costui sulla moglie sono ben sintetizzate nella frase dalla stessa riferita al primo giudice in sede di dibattimento : "mi ha fatto soffrire sempre … non sono mai stata una giornata bene, però io l’ho fatto perché volevo bene ai figli".
In tal caso, il pregiudizio risarcibile rientra nella macroarea del danno non patrimoniale, come da ultimo definita dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nelle recenti decisioni n. 26972, 26973, 26974, 26975 dell’11 novembre 2008 ed è essenzialmente quello morale, dovendosi escludere, in difetto di specifica prova, il danno biologico permanete. Le risultanze processuali, infatti, non dimostrano in alcun modo la esistenza di lesioni o di altri esiti permanenti da valutare quale danno biologico.
In particolare, per quanto concerne il profilo del danno biologico, esso potrebbe competere esclusivamente in conseguenza di un’accertata compromissione dell’integrità psico-fisica causalmente dipendente dall’evento dannoso accertabile attraverso perizia medica o, quanto meno, documentata attraverso certificazione idonea. Si dovrebbe trattare, pertanto, di uno stato patologico del tutto autonomo, da non confondersi con quella afflittività sul piano psico-fisico del fatto reato, già ricompresa nella liquidazione del danno morale.
Tale categoria va meglio definita alla luce dei principi da ultimo affermati dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con le sentenze dell’11.11.08 nr. 26972, 26973, 26974, 26975.
La risarcibilità del danno non patrimoniale postula, sul piano dell’ingiustizia del danno, la selezione degli interessi dalla cui lesione consegue il danno. Selezione che avviene a livello normativo, negli specifici casi determinati dalla legge, o in via di interpretazione da parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona necessariamente presidiato dalla minima tutela risarcitoria.
Nell’ipotesi in cui il fatto illecito si configuri come reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, sofferto dalla persona offesa nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.
Va conseguentemente affermato che, nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula "danno morale" non individua più un’autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di danno, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.
In ragione della ampia accezione del danno non patrimoniale, in presenza del reato, è risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (come avverrà, nel caso del reato di lesioni colpose, ove si configuri danno biologico per la vittima, o nel caso di uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione del rapporto parentale), ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non presidiati da siffatti diritti, ma meritevoli di tutela in base all’ordinamento (secondo il criterio dell’ingiustizia ex art. 2043 c.c.), poiché la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal rango dell’interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di ritenere risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato. Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell’interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale.
Poiché la tutela risarcitoria è riconosciuta in conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall’ordinamento positivo, ivi comprese le convenzioni internazionali e cioè purché sussista il requisito dell’ingiustizia generica secondo l’art. 2043 c.c., è evidente che la previsione della tutela penale rappresenta un sicuro indice della rilevanza dell’interesse leso.
La recentissima giurisprudenza ha superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d’animo transeunte, e, nell’ipotesi (ricorrente nel caso in esame) di fatto costituente reato ha affermato la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, che comprende anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nella sofferenza morale determinata dal non poter fare.
Va presa in esame, quindi, anche la risarcibilità di profili di danno che, prima delle sentenze delle SSUU, costituivano l’oggetto tipico della categoria definita danno esistenziale rappresentata dalla forzosa rinuncia alle proprie abitudini di vita in conseguenza del fatto illecito dunque, nella modifica "in peius" della personalità del leso (il cd. "sovvertimento esistenziale")
Sotto tale profilo, nella individuazione dell’area del danno risarcibile, occorre considerare che non sono meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione "concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha spesso prestato tutela -in ambito civile- la giurisprudenza dei Giudici di Pace. Infatti, va condiviso il principio per cui, anche nell’ipotesi di maltrattamenti familiari (nei quali la condotta è -come nella fattispecie in esame- variegata, consistendo in offese reiterate alla dignità ed al decoro della appellante, alla serenità, in vessazioni e violenze e, da ultimo, nell’imposizione della presenza di un’altra donna) la risarcibilità non può fondarsi su un presunto "diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità". Va ribadito che al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale.
Proprio rispondendo ad uno dei quesiti dell’ordinanza di rimessione di febbraio 2008, n. 4712/2008 della Terza Sezione della Cassazione, le SSUU hanno ribadito il principio di "tipicità del danno non patrimoniale" secondo il quale, mentre per il risarcimento del danno patrimoniale, con il solo riferimento al danno ingiusto, la generalklausel dell’art. 2043 c.c. comporta un’atipicità dell’illecito, eguale principio di atipicità non può essere affermato in tema di danno non patrimoniale risarcibile che rimane tipico in quanto la struttura dell’art. 2059 c.c. limita il risarcimento del danno non patrimoniale ai soli casi previsti dalla legge. E tale è certamente la legge penale.
Riprendendo le categorie dei danni morale ed esistenziale delineate dalle cd "sentenze della cinquina" (Cass., 31.05.03, n. 8828; Cass., 31.05.03 n. 8827; Cass. 12.05.03, n. 7281; Cass. 12.05.03 n. 7283; Cass. 12.05.03 n. 7282) e rivisitate, da ultimo, dalle SSUU, va precisato che l’ambito che qui interessa è quello del pregiudizio sofferto dalla persona offesa nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica e cioè sia l’interesse alla integrità morale, sia quello alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana, la cui tutela sia ricollegabile a norme di rango costituzionale. Per tali ragioni, tanto il danno morale soggettivo, quanto il danno esistenziale, possono essere risarciti senza che possa ravvisarsi una duplicazione del risarcimento.
Nel caso di specie, inoltre, non si pone neppure un problema di ultrapetizione nel riconoscimento del risarcimento dei danni non patrimoniali di cui la appellante risulti aver sofferto in conseguenza del fatto illecito costituente reato posto a fondamento della sua domanda di danni, attesa la genericità (e quindi, onnicomprensività) della pretesa oggetto dell’atto di costituzione di parte civile (Cassazione civile , sez. III, 08 giugno 2007, n. 13391).
Quanto alla prova del danno non patrimoniale, correttamente distinguendo il profilo dell’onere probatorio, da quello della esistenza del danno, la giurisprudenza ritiene che trattandosi di danno-conseguenza, anche il pregiudizio morale deve essere dimostrato come qualsiasi altra domanda che si faccia valere in giudizio indipendentemente dal tipo di condotta illecita che l’abbia determinata.
Così, la parte lesa dovrà vedere dimostrata nel giudizio penale, sia l’esistenza del fatto illecito, che l’esistenza del pregiudizio subito rimettendosi, poi, al giudice per la concreta determinazione e monetizzazione del danno.
L’onere probatorio è agevolato dal fatto che la prova più fondarsi su elementi presuntivi della esistenza del danno morale. Infatti, in buona parte dei casi, secondo l’id quod plerumque accidit, le aggressioni fisiche e morali determinano generalmente un forte perturbamento valutabile in termini di danno morale (nella più ampia accezione sopra individuata).
Ed in tal senso tale riscontro probatorio risiede proprio nel fatto che l’imputato ha consapevolmente sottoposto la moglie, durante il periodo di convivenza matrimoniale, ad un regime di vita abitualmente vessatorio e violento, attraverso la sistematica commissione di più atti lesivi del suo patrimonio morale e della sua integrità fisica, fino ad offenderne la dignità ed il decoro, tanto da obbligarla, nell’ultimo periodo, a tollerare la presenza di un’altra donna nel domicilio coniugale. Il quadro generale, da valutare ai fini della prova concreta del pregiudizio, anche esistenziale, è quello di uno Stato durevole e di avvilimento e di umiliazione cui la persona offesa è stata sottoposta per un lunghissimo arco temporale.
Il danno morale da reato consiste, infatti, nell’ingiusto turbamento conseguente all’offesa ricevuta, ma l’area risarcibile attiene anche al pregiudizio non patrimoniale consistente nella "sofferenza morale determinata dal non poter fare".
Ai fini della liquidazione del pregiudizio subito, vertendosi in una ipotesi di certezza dell’esistenza del danno eziologicamente riconducibile all’offensività del reato, ma di impossibilità di determinazione del suo preciso ammontare, si dovrà, necessariamente, ricorrere al criterio equitativo ex art. 2056 e 1226 c.c.
Pertanto, la sua determinazione monetaria si attua attraverso un giudizio equitativo in base ad una serie di criteri (gravità del reato, entità dell’offesa arrecata, età del soggetto leso, rapporto di parentela, sensibilità dell’avente diritto ecc.) necessariamente influenzati dalla natura del danno non patrimoniale. Indipendentemente dalla adesione ad una delle tre linee di pensiero sulla natura di tale danno (afflittiva-sanzionatoria, che attribuisce alla riparazione del danno morale da reato natura di pena privata, risarcitoria, simile a quella del danno patrimoniale e satisfattiva volta ad alleviare le sofferenze patite, con una somma di denaro) la giurisprudenza ha enucleato una serie di parametri ai quali il giudice di merito deve attenersi nella valutazione discrezionale del danno.
Il criterio preferibile per addivenire ad una corretta determinazione e liquidazione del danno subito dalla vittima di un fatto avente rilevanza penale è quello della gravità del reato. Tale principio comporta che l’importo da liquidare a titolo di danno morale è direttamente proporzionale alla gravità del fatto. Il profilo della gravità viene, poi, in definito in concreto facendo riferimento all’elemento soggettivo del reato (intensità del dolo o gravità della colpa), alle modalità concrete della condotta dell’agente, oltre che alle circostanti aggravanti e a tutti quegli altri elementi rilevanti secondo la tesi sanzionatoria del danno morale. Non viene in rilievo, invece, l’entità dell’apporto causale della condotta del danneggiante nella determinazione dell’ evento, che deve essere invece considerata ai fini dell’applicazione della regola risarcitoria contenuta all’art. 1227 c.c. (Cassazione civile , sez. III, 25 ottobre 2002, n. 15103), profilo questo non risultante dagli atti del processo.
In tale ambito assume rilievo quindi anche la pena edittale prevista per il reato fonte di danno e quella oggetto di condanna (Cassazione civile , sez. III, 05 febbraio 1998, n. 1164).
Altro parametro da prendere in considerazione è quello della intensità delle sofferenze subite dalla vittima dell’illecito e ciò sulla base del principio intuitivo secondo cui esiste una proporzionalità necessaria tra l’intensità del patema d’animo e la misura della liquidazione del danno morale (Cass., 2 luglio 1997, n. 5944). Poichè sotto il profilo probatorio tale accertamento risulta non agevole trattandosi di profili meramente soggettivi la giurisprudenza ammette il riferimento al criterio della sofferenza dell’uomo medio oppure al livello morale ed intellettuale della vittima.
In altri casi la giurisprudenza ha ritenuto opportuno fare riferimento anche alle condizioni sociali e personali del danneggiato, alla cultura, alla professione esercitata, la posizione sociale e ciò al fine di meglio determinare la gravità dell’illecito penale e, conseguentemente, quantificare concretamente il danno (Cassazione civile , sez. III, 02 luglio 1997, n. 5944).
Sulla base dei parametri che precedono occorre considerare il (omissis) è stato condannato alla pena di mesi otto di reclusione, con il riconoscimento delle attenuanti generiche, partendo da una pena base di anni uno di reclusione. Allo stesso è stato contestato il reato di quell’articolo 572 c.p. per avere maltrattato la moglie esponendola abitualmente ad una serie di atti lesivi della integrità fisica e morale, tale da sottoporla ad un regime di vita intollerabile, infierendo abitualmente con minacce e violenza fisica. Il quadro che emerge è quello di un contesto sociale fortemente degradato e strettamente legato al lavoro della terra. La parte lesa ha riferito più volte di essere stata continuamente insultata, di essere stata costretta a dormire, talvolta, anche nella stalla e di essere giunta alla decisione di separarsi, di fatto, dal marito solo quando le è stato imposto di accettare la presenza di un’altra donna in casa.

Sulla base di tali elementi, e, quindi, della gravità dell’offesa, desunta anche dalla pena in concreto disposta dal primo giudice, dalle modalità della condotta dell’imputato, dall’intensità delle sofferenze subite e dalla reiterazione delle condotte, oltre che, in generale, nel contesto sociale e familiare, ritiene la Corte congruo determinare nella misura di € 15.000 il risarcimento dei danni in favore della parte appellante.
Vanno poste a carico del (omissis) anche le spese legali, nella misura indicata in dispositivo, sia con riferimento al giudizio di primo grado, che alla fase di gravame.

P.T.M.

letto l’articolo 605 c.p.p.;
in parziale riforma della sentenza n. 451 emessa dal Giudice Unico del Tribunale di Nocera Inferiore nei confronti di (omissis), in data 29 marzo 2007, accoglie l’appello proposto dalla parte civile (omissis) e condanna, (omissis) al risarcimento dei danni in favore della appellante che si liquidano in € 15.000, oltre spese legali, pari ad € 800 per il giudizio di primo grado ed € 700 per il giudizio di secondo grado e, quindi, complessivamente in € 1.500, oltre spese forfettarie, pari al 12,5%, CAP e IVA, come per legge;

Conferma per il resto l’impugnata sentenza.

Redazione