Art. 41bis e visto di censura per telegramma indirizzato ai difensori. La Consulta dichiara l’illegittimità

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La Corte costituzionale nella recente sentenza n. 18 ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (legge sull’ordinamento penitenziario) nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione a visto di censura la corrispondenza intrattenuta con i difensori.

Indice:

  1. Il fatto
  2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione
  3. Le argomentazioni sostenute dalle parti
  4. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta
  5. Conclusioni

Il fatto

L’imputato, condannato in primo grado alla pena di venticinque anni di reclusione perché ritenuto esponente di vertice di un’associazione di stampo mafioso, e attualmente detenuto in regime differenziato di cui all’art. 41-bis ordin. penit., proponeva ricorso per Cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale di Locri il quale aveva rigettato il reclamo del detenuto avverso il provvedimento attraverso il quale il Presidente del Tribunale ordinario di Locri aveva a sua volta disposto il trattenimento di un telegramma indirizzato dal detenuto al proprio difensore di fiducia, lamentando l’illegittimità della motivazione con cui il Tribunale aveva confermato il provvedimento di trattenimento.

La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione

In relazione al giudizio di legittimità che era scaturito a seguito del ricorso summenzionato, la Corte di Cassazione, sezione prima penale, sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in riferimento agli artt. 3, 15, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), nella parte in cui prevede, per i detenuti sottoposti al regime di cui al comma 2 e seguenti dello stesso art. 41-bis ordin. penit., la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, senza escludere quella indirizzata ai difensori.

In particolare, il giudice a quo, nell’addivenire alla decisione di adire la Consulta, nutriva dubbi circa la compatibilità, con i parametri costituzionali menzionati nell’ordinanza di rimessione, dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), ordin. penit., nella parte in cui non escludeva la corrispondenza diretta al difensore dal novero di quella sottoposta al visto di censura.

Tale dubbio, difatti, osservava la Sezione rimettente, impediva «di procedere al vaglio della legittimità della motivazione del provvedimento impugnato, giacché qualora il dubbio prospettato si rivelasse fondato, la stessa operazione di lettura e di controllo del contenuto della missiva risulterebbe, a monte, viziata», donde la rilevanza delle questioni formulate.

Ciò posto, il giudice a quo ricostruiva a tal proposito anzitutto il quadro sistematico nel quale si inserisce la disposizione censurata osservando che il controllo sulla corrispondenza dei detenuti e degli internati è disciplinato in via generale dall’art. 18-ter ordin. penit. il quale, tuttavia, esclude, al comma 2, ogni forma di controllo e di limitazione della corrispondenza indirizzata ai soggetti indicati dall’art. 103, comma 5, del codice di procedura penale, tra cui i difensori fermo restando che tale disciplina generale sarebbe, peraltro, derogata dall’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), ordin. penit., che prevede la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza dei detenuti e internati sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis ordin. penit., facendo eccezione soltanto per «quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia». Al di fuori di queste tassative ipotesi, la disposizione censurata – che, come ritenuto dalla giurisprudenza, si atteggerebbe a lex specialis rispetto all’art. 18-ter ordin. penit. (sono citate Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 17 maggio 2018, n. 51187, e 21 novembre 2012, n. 48365) – consentirebbe dunque, per la Suprema Corte, all’autorità preposta non solo di prendere visione della generalità della corrispondenza del detenuto o dell’internato, compresa quella con il proprio difensore, ma anche di bloccarne l’inoltro, ovvero di non procedere alla sua consegna al detenuto o all’internato, rilevandosi al contempo che tale conclusione non potrebbe essere revocata in dubbio dall’esistenza dell’art. 103, comma 6, cod. proc. pen. che vieta, tra l’altro, «ogni forma di controllo della corrispondenza tra l’imputato e il proprio difensore», in quanto quest’ultimo sia reso riconoscibile dal rispetto delle prescrizioni dettate dall’art. 35 delle Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, salvo che la corrispondenza stessa costituisca corpo del reato dal momento che, anche rispetto all’art. 103, comma 6, cod. proc. pen., la disposizione censurata si porrebbe in rapporto di specialità, su di essa prevalendo.

Orbene, così interpretata, per il giudice rimettente, la disposizione di cui all’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), ordin. penit. risulterebbe tuttavia in contrasto «non solo – e non tanto – [con la] libertà [e] segretezza della corrispondenza, diritti dichiarati inviolabili dall’art. 15 Cost. e che spettano ad ogni individuo in quanto tale e, quindi, anche ai detenuti, ma anche e soprattutto [con il] diritto alla difesa e [con] quello ad un equo processo, tutelati a livello costituzionale e sovranazionale» visto che sarebbe irragionevole equiparare il difensore agli interlocutori «“non qualificati” del detenuto e, in primo luogo, ai familiari» non potendo escludersi «a priori l’astratta, ed eccezionale, eventualità che un difensore accetti di assumere il ruolo di illecito canale di comunicazione tra il proprio cliente e l’organizzazione criminale di appartenenza dello stesso, tale possibilità non può nemmeno essere assunta a massima di esperienza», sì da legittimare una disciplina come quella censurata che finirebbe per «trattare in modo analogo situazioni differenti, in patente violazione del principio di eguaglianza, irragionevolmente comprimendo, altresì, il diritto di difesa».

La disciplina in parola sarebbe inoltre, sempre per i giudici di piazza Cavour, irragionevole se confrontata con quella dettata per i colloqui visivi e telefonici con i difensori sottratti – per espressa previsione dell’art. 41-bis ordin. penit. – al controllo auditivo e alla videoregistrazione che valgono invece per i colloqui con i familiari poiché, una volta che si ammetta che un difensore possa venir meno ai propri doveri deontologici e professionali, prestandosi a divenire un illecito canale di comunicazione tra il detenuto o l’internato e l’organizzazione criminale di appartenenza, un tale sviamento della funzione potrebbe ben verificarsi anche nel corso dei colloqui sottratti a qualsiasi controllo sicché la censura sulle missive indirizzate al difensore, e il loro eventuale trattenimento, finirebbero «per penalizzare irragionevolmente e inutilmente il diritto di difesa – anche solo attraverso l’irrimediabile ritardo che la sottoposizione a censura imprime all’inoltro e alla consegna della missiva – e quello ad un equo processo», senza riuscire però a «neutralizzare l’astratto pericolo che un ipotetico scambio di direttive e informazioni per mezzo del difensore avvenga con altro mezzo».

Le argomentazioni sostenute dalle parti

L’associazione “Italiastatodidiritto” presentava un’opinione scritta in qualità di amicus curiae argomentando a sostegno della fondatezza nel merito delle questioni sollevate.

L’opinione evidenziava in particolare come «il profilo più grave» della normativa censurata sarebbe costituito dalla presunzione di pericolosità del difensore sulla quale essa parrebbe fondarsi: presunzione che, per questa associazione, non solo mortificherebbe solennità e valenza del giuramento forense ma sarebbe anche irragionevole nella misura in cui riguarda la categoria forense e non altre figure, prive di analoghe stringenti prescrizioni deontologiche e professionali, quali i membri del Parlamento, per i quali il visto di censura non opera.

Richiamando sul punto quanto affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 212 del 1997 e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle sentenze 19 gennaio 2010, Montani contro Italia e 20 gennaio 2009, Zara contro Italia, l’amicus osservava inoltre che il diritto di conferire con il proprio difensore rappresenta un aspetto essenziale del diritto inviolabile di difesa e che, condizione essenziale per la sua garanzia, sarebbe stata la confidenzialità delle informazioni scambiate tra avvocato e parte assistita.

Novità editoriale:

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

La Consulta riteneva come, prima di entrare nel merito della questione, fosse opportuno procedere ad una preliminare ricostruzione, anche in prospettiva diacronica, del quadro normativo nel quale si colloca la disposizione censurata, in particolare con riguardo ai rapporti tra quest’ultima e la disciplina generale in materia di limitazioni e controlli alla corrispondenza dei detenuti e degli internati, dettata dalla legge sull’ordinamento penitenziario, il che era fatto nei seguenti termini: “Prima dell’entrata in vigore della legge 8 aprile 2004, n. 95 (Nuove disposizioni in materia di visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti), l’art. 18 ordin. penit. prevedeva genericamente la possibilità di sottoporre la corrispondenza di detenuti e internati a «visto di controllo» da parte dell’amministrazione penitenziaria o, a seconda dei casi, da parte della stessa autorità giudiziaria, sulla base di un provvedimento di quest’ultima. (…) Nel 1989, l’art. 103, comma 6, del codice di procedura penale è intervenuto a vietare espressamente il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza tra gli imputati – ancorché detenuti o internati – e i propri difensori, salvo che nell’ipotesi in cui l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato, e sempre che siano state osservate le formalità prescritte dall’art. 35 delle Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, finalizzate ad assicurare la riconoscibilità di tale corrispondenza per l’amministrazione penitenziaria. La disciplina sopravvenuta non concerneva invece, quanto meno in base al suo tenore letterale, la posizione dei detenuti o internati già condannati con sentenza definitiva. (…) Dopo l’introduzione del regime differenziato di cui all’art. 41-bis ordin. penit. ad opera del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, ci si chiese se il controllo della corrispondenza dei detenuti e internati soggetti a tale regime potesse essere disposto, anziché dall’autorità giudiziaria, dal Ministro della giustizia con il provvedimento applicativo del regime differenziato. Con sentenza n. 349 del 1993, questa Corte (cioè la Consulta ndr.) ritenne non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2, ordin. penit. che il giudice rimettente aveva formulato, tra l’altro, in riferimento all’art. 15 Cost., facendo leva sul presupposto ermeneutico secondo cui, sulla base della disposizione censurata, il Ministro avrebbe avuto la facoltà di disporre anche il controllo della corrispondenza del detenuto o internato sottoposto al nuovo regime penitenziario. Tale presupposto ermeneutico fu ritenuto erroneo da questa Corte (vale a dire la Corte costituzionale ndr.). «Poiché i diritti inviolabili dell’uomo» – argomentò la sentenza in parola – «rispondono ad un principio di valore fondamentale che ha carattere generale, la loro limitazione o soppressione (nei soli casi e modi previsti dalla Costituzione, o per i quali è disposta una riserva di legge) ha carattere derogatorio ad una regola generale e, quindi, presenta natura eccezionale: è questo il motivo per cui le norme che siano suscettibili di incidere ulteriormente su tali diritti, previste dall’Ordinamento penitenziario (che è appunto un tipico ordinamento derogatorio), non possono essere applicate per analogia e vanno interpretate in modo rigorosamente restrittivo». Rispetto, in particolare, al controllo sulla corrispondenza dei detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis ordin. penit., questa Corte osservò che «nulla è rinvenibile nella disposizione in esame che attribuisca al Ministro una specifica competenza in ordine alla sottoposizione a visto di controllo della corrispondenza dei detenuti, e che costituisca quindi deroga all’art. 18 dell’Ordinamento penitenziario (che […] riserva tale potere al giudice), e, quindi, elusione della garanzia d’inviolabilità delle comunicazioni sancita dall’art. 15 della Costituzione». (…)La legge 23 dicembre 2002, n. 279 (Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario) introdusse quindi il comma 2-quater nell’art. 41-bis ordin. penit. Nella sua versione originaria, la disposizione stabiliva che la sospensione delle regole di trattamento ordinario per effetto del provvedimento ministeriale di cui al precedente comma 2-bis «può comportare» la serie di misure di seguito elencate, tra cui quella – prevista alla lettera e), in questa sede censurata – della «sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia». Restava non chiarito espressamente come questa nuova disposizione si coordinasse con la previsione generale, poc’anzi menzionata, relativa al controllo della corrispondenza di cui all’art. 18 ordin. penit., nonché con i divieti di controllo della corrispondenza dell’imputato stabiliti dall’art. 103, comma 6, cod. proc. pen., di cui parimenti si è detto. (…)
Nel frattempo, la disciplina dello stesso art. 18 ordin. penit. era stata più volte ritenuta incompatibile con l’art. 8 CEDU da parte della Corte di Strasburgo, in ragione dell’inadeguatezza della base legale della limitazione del diritto alla riservatezza della corrispondenza del detenuto, non essendo stabiliti dalla legge né la possibile durata delle misure di controllo della corrispondenza, né i presupposti, l’ampiezza e le modalità di esercizio della discrezionalità delle autorità competenti a disporle (Corte EDU, sentenze 15 novembre 1996, Calogero Diana contro Italia, paragrafo 33; 15 novembre 1996, Domenichini contro Italia, paragrafo 33; grande camera, 6 aprile 2000, Labita contro Italia paragrafo 184; 9 gennaio 2001, Natoli contro Italia, paragrafo 46; nonché, con riferimento alla situazione normativa antecedente al 2004, sentenze 11 gennaio 2005, Musumeci contro Italia, paragrafo 58; 7 luglio 2009, Salvatore Piacenti contro Italia, paragrafo 19; 1° dicembre 2009, Stolder contro Italia, paragrafo 34).

Proprio per ovviare alle lacune di disciplina evidenziate dalla Corte EDU, la legge n. 95 del 2004 riformò la disciplina generale sulle limitazioni e i controlli della corrispondenza dei detenuti e internati, introducendo il nuovo art. 18-ter ordin. penit. e abrogando contestualmente i commi settimo e nono dell’art. 18 nella versione allora vigente, nonché il riferimento alla corrispondenza contenuto nel comma ottavo dello stesso articolo nella versione allora vigente (su tale vicenda normativa e sul «delicato punto di equilibrio raggiunto dal legislatore» con il nuovo art. 18-ter ordin. penit., in linea con le sollecitazioni della Corte EDU, sentenza n. 20 del 2017 di questa Corte). La nuova disposizione prevede, in particolare, la possibilità per l’autorità giudiziaria competente ai sensi del comma 3 – in presenza di «esigenze attinenti le indagini o investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto» – di disporre nei confronti di singoli detenuti o internati, per periodi non superiori a sei mesi, prorogabili per successivi periodi non superiori a tre mesi, tre distinte misure, di impatto decrescente rispetto al diritto alla libertà e segretezza della corrispondenza:
a) limitazioni nella corrispondenza epistolare e telegrafica e nella ricezione della stampa;
b) la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo;
c) il controllo del contenuto delle buste che racchiudono la corrispondenza, senza lettura della medesima (comma 1).
Il comma 2 dell’art. 18-ter ordin. penit. esclude, peraltro, l’applicazione di tali misure qualora la corrispondenza epistolare o telegrafica sia indirizzata, tra gli altri, «ai soggetti indicati nel comma 5 dell’articolo 103 del codice di procedura penale», e cioè ai difensori, agli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, nonché ai consulenti tecnici e ai loro ausiliari – soggetti, tutti, rispetto ai quali l’art. 103, comma 5, cod. proc. pen. vieta in via generale l’intercettazione delle conversazioni o comunicazioni con l’imputato. (…) La legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) ha, infine, modificato il comma 2-quater dell’art. 41-bis ordin. penit., disponendo che il provvedimento ministeriale applicativo del regime differenziato disciplinato dallo stesso art. 41-bis «prevede» – anziché, come in precedenza, «può comportare» – le misure elencate di seguito, tra le quali la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza di cui alla lettera e), che viene in questa sede in considerazione”.

Orbene, una volta terminato questo excursus normativo, il giudice delle leggi evidenziava come, proprio alla luce di tale disciplina giuridica, il legislatore non avesse mai espressamente chiarito quale rapporto intercorra tra la previsione della «sottoposizione a visto di censura della corrispondenza» dei detenuti e internati in regime di cui all’art. 41-bis ordin. penit. e la disciplina sui «controlli della corrispondenza» applicabile alla generalità dei detenuti e internati, contenuta oggi nell’art. 18-ter ordin. penit. e di conseguenza, a fronte di ciò, tale mancato chiarimento, ad avviso della Consulta, apriva due ordini di problemi.

In primo luogo, per la Corte di legittimità costituzionale, occorreva stabilire se, in base all’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), ordin. penit., la sottoposizione a «visto di censura» della corrispondenza – misura che, malgrado la differente denominazione, di fatto coincide con quella, menzionata nell’art. 18-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit., del «controllo della corrispondenza» – possa, e anzi debba (dopo la modifica apportata alla disposizione censurata dalla legge n. 94 del 2009), essere disposta direttamente dal Ministro della giustizia nel medesimo provvedimento applicativo del regime penitenziario differenziato di cui allo stesso art. 41-bis ordin. penit., ovvero continui a dover essere disposta dall’autorità giudiziaria indicata come competente dall’art. 18-ter, comma 3, ordin. penit..

Ebbene, in relazione a tale primo quesito, la Corte costituzionale denotava come la giurisprudenza di legittimità, sulla base delle medesime esigenze di una interpretazione costituzionalmente orientata di cui si era fatta carico la sentenza n. 349 del 1993, apparisse nettamente orientata in quest’ultimo senso affermando che la libertà di corrispondenza dei detenuti in regime speciale può essere limitata, in virtù di quanto stabilito dall’art. 15 Cost., solo con un provvedimento dell’autorità giudiziaria, specificamente motivato in ordine alla sussistenza dei presupposti indicati dai commi da 1 a 4 dell’art. 18-ter della legge n. 354 del 1975 come modificato dalla legge n. 95 del 2004 (Corte di Cassazione, sezione quinta penale, sentenza 22 febbraio 2019, n. 32452; in senso conforme, sezione prima penale, sentenza 17 maggio 2018, n. 51187; sezione prima penale, 20 giugno 2014, n. 43522; sezione prima penale, 21 novembre 2012, n. 48365).

Detto questo, da tale diritto vivente si desumeva, dunque, che, in linea di principio l’art. 18-ter, comma 3, ordin. penit., trova applicazione anche nei confronti di detenuti e internati sottoposti al regime penitenziario speciale di cui all’art. 41-bis ordin. penit..

Chiarito ciò, per il giudice delle leggi, restava però aperto un secondo ordine di quesiti cruciale rispetto alla soluzione delle questioni di legittimità costituzionale sottoposte nel caso di specie e cioè, da un lato, se anche rispetto a tutti i detenuti e internati in regime differenziato ex art. 41-bis ordin. penit. valga il divieto, posto in via generale dall’art. 18-ter, comma 2, ordin. penit., di disporre le misure previste dal comma 1 con riferimento alla corrispondenza epistolare o telegrafica con i soggetti indicati dall’art. 103, comma 5, cod. proc. pen., tra cui segnatamente i difensori del singolo detenuto o internato e, dall’altro lato, se, quanto meno in riferimento ai soli imputati in custodia cautelare sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis ordin. penit., continui a valere il divieto di ogni forma di controllo della corrispondenza fra costoro e i rispettivi difensori posto dall’art. 103, comma 6, cod. proc. pen..

Orbene, a fronte di ciò, si faceva presente come la soluzione affermativa a entrambi i quesiti – sostenuta del resto da numerose voci dottrinali – fosse alla base della circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017 intitolata «Organizzazione del circuito detentivo speciale previsto dall’art. 41-bis O.P.» atteso che l’art. 18.1 di tale circolare dispone espressamente che «[v]’è tassativo divieto di sottoporre a limitazioni e/o controlli la corrispondenza cd. “per giustizia”, ovvero la corrispondenza indirizzata ai soggetti indicati nel comma 5 dell’art. 103 del codice procedura penale», nonché a tutte le autorità indicate nell’art. 35 delle relative norme di attuazione, fermo restando che nello stesso senso, per la Corte, paiono implicitamente orientate anche alcune recenti decisioni della Corte di Cassazione le quali affermavano la legittimità di singole misure di controllo sul contenuto della corrispondenza del detenuto in regime differenziato ex art. 41-bis ordin. penit. con il proprio difensore in casi in cui non erano state osservate le formalità dettate per l’invio della corrispondenza “per ragioni di giustizia” dagli artt. 103 cod. proc. pen. e 35 norme att. cod. proc. pen. nonché dall’art. 16.4 della menzionata circolare del DAP (Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 22 giugno 2020, n. 23820; sezione prima penale, sentenza 20 febbraio 2019, n. 21737) dal momento che da tali decisioni, sempre per la Consulta, si può desumere a contrario che le misure in questione non sarebbero state legittime ove le predette formalità fossero state rispettate (cfr. Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 28 febbraio 2019, n. 27571, che rigettava il ricorso avverso un provvedimento di trattenimento della corrispondenza di un detenuto in regime differenziato ex art. 41-bis ordin. penit. poiché non risultava l’afferenza di tale corrispondenza a procedimenti nei quali risultasse depositata la nomina di quel difensore, con la significativa precisazione che – ove siano rispettate le formalità prescritte dalla legge per la corrispondenza con i difensori – resta ferma «l’impossibilità di accedere ai contenuti della comunicazione»), rilevandosi contestualmente inoltre che né argomenti in senso contrario potevano desumersi dalle sentenze citate nell’ordinanza di rimessione che concernevano ora il trattenimento di missive che non risultavano indirizzate al difensore (Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza n. 51187 del 2018; sentenza n. 48365 del 2012), ora il trattenimento di una busta, indirizzata dal difensore al detenuto, contenente però anche un cd-rom, ritenuto ricadere entro la diversa disciplina relativa del controllo degli oggetti (Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 30 settembre 2020-18 gennaio 2021, n. 1901).

Ebbene, a fronte di quanto sin qui enunciato, i giudici di legittimità costituzionale – una volta rilevato come il giudice rimettente muovesse, tuttavia, dal diverso presupposto interpretativo secondo cui la disposizione censurata, escludendo espressamente dalla sottoposizione a visto di censura soltanto la corrispondenza «con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia», si porrebbe quale lex specialis sia rispetto al comma 2 dell’art. 18-ter ordin. penit., sia rispetto all’art. 103, comma 6, cod. proc. pen. – ritenevano come, in difetto di un orientamento chiaro e consolidato della giurisprudenza di legittimità in senso contrario, idoneo ad assurgere a diritto vivente, la soluzione interpretativa assunta a base dell’ordinanza di rimessione apparisse essere non solo plausibile ma anche – a ben guardare – come la più conforme al dato letterale della disposizione censurata la quale, con riferimento specifico ai detenuti e internati sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis ordin. pen. (e senza distinguere tra condannati in via definitiva e imputati in custodia cautelare) prevede come misura ordinaria il visto di censura della corrispondenza, elencando in modo apparentemente tassativo le ipotesi di corrispondenza sottratta a tale visto, in deroga dunque alle altre disposizioni che prevedono divieti di controllo della corrispondenza con un più ampio novero di soggetti “qualificati” per la generalità dei detenuti o internati (art. 18-ter ordin. penit.), ovvero per la generalità degli imputati (art. 103, comma 6, cod. proc. pen.).

Tal che se ne faceva discendere l’ammissibilità delle questioni prospettate dal giudice rimettente il quale aveva – almeno implicitamente – escluso la possibilità di un’interpretazione conforme alla Costituzione della disposizione censurata (ciò che la giurisprudenza ormai costante della Consulta considera sufficiente ai fini dell’ammissibilità della questione: sentenza n. 221 del 2015 nonché, ex multis, sentenze n. 150, n. 59 e n. 32 del 2021) argomentando pianamente sulla base del suo dato letterale che costituisce il naturale limite dello stesso dovere del giudice di interpretare la legge in conformità alla Costituzione (sentenze n. 102 del 2021, n. 253 del 2020, n. 174 del 2019 e n. 82 del 2017), tenuto conto altresì del fatto che sulla scorta di siffatto dato letterale – nonostante le contrarie indicazioni contenute nella circolare del DAP poc’anzi menzionata – si era proceduto all’estensione del visto di censura alla corrispondenza con i difensori nel caso oggetto del giudizio a quo.

Ciò posto, la questione sollevata in riferimento all’art. 24 Cost. era stimata fondata avendo la Consulta da tempo riconosciuto che la garanzia costituzionale del diritto di difesa – qualificato come «principio supremo» dell’ordinamento costituzionale (sentenze n. 238 del 2014, n. 232 del 1989 e n. 18 del 1982) – comprende il diritto, ad esso strumentale, di conferire con il difensore (sentenza n. 216 del 1996), «allo scopo di predisporre le difese e decidere le strategie difensive, ed ancor prima allo scopo di poter conoscere i propri diritti e le possibilità offerte dall’ordinamento per tutelarli e per evitare o attenuare le conseguenze pregiudizievoli cui si è esposti» (sentenza n. 212 del 1997), essendo stato altresì evidenziato come tale diritto «assuma una valenza tutta particolare nei confronti delle persone ristrette in ambito penitenziario, le quali, in quanto fruenti solo di limitate possibilità di contatti interpersonali diretti con l’esterno, vengono a trovarsi in una posizione di intrinseca debolezza rispetto all’esercizio delle facoltà difensive» (sentenza n. 143 del 2013), rilevandosi al contempo come questi principi trovino precise corrispondenze nel diritto internazionale dei diritti umani.

In particolare, quanto al contesto europeo, si notava come fosse risalente l’affermazione da parte della Corte EDU secondo la quale l’esercizio del diritto alla riservatezza delle proprie comunicazioni – di per sé tutelato dall’art. 8 CEDU (sentenze 25 marzo 1992, Campbell contro Regno unito, paragrafo 54, nonché, recentemente, 24 maggio 2018, Laurent contro Francia, paragrafo 49) – è funzionale anche a esercitare il diritto alla difesa tecnica sancito dall’art. 6, paragrafo 3, lettera c), CEDU in capo ad ogni persona accusata di un reato; diritto il cui esercizio implica la possibilità di comunicare liberamente con il proprio avvocato (sentenze 20 giugno 1988, Schönenberger e Durmaz contro Svizzera, paragrafo 29 e, ancor prima, 21 febbraio 1975, Golder contro Regno Unito, paragrafo 45), come del resto espressamente riconosce, in altro contesto regionale di tutela dei diritti umani, l’art. 8, paragrafo 2, lettera d), della Convenzione americana sui diritti umani mentre, con riferimento in particolare ai colloqui tra detenuti e difensore, si faceva presente come la Corte di Strasburgo abbia osservato che, se un avvocato non possa conferire con il suo cliente e ricevere da lui istruzioni riservate al riparo della sorveglianza da parte dell’autorità, la sua assistenza tecnica perderebbe gran parte della sua utilità mentre la Convenzione mira a garantire diritti concreti ed effettivi (sentenza 28 novembre 1991, S. contro Svizzera, paragrafo 48; in senso analogo, più di recente, sentenza 27 novembre 2007, Zagaria contro Italia, paragrafo 36; grande camera, sentenza 12 maggio 2005, Öcalan contro Turchia, paragrafi 133 e 135) e ciò anche rispetto alla necessità di assicurare la tutela del detenuto contro eventuali abusi delle autorità penitenziarie (sentenze 30 gennaio 2007, Ekinci e Akalin contro Turchia, paragrafo 47; 25 marzo 1992, Campbell, paragrafo 47), tenuto conto altresì del fatto che, da un lato, «il diritto del detenuto a conferire con il difensore forma oggetto di esplicito e puntuale riconoscimento in atti sovranazionali, tra i quali la raccomandazione R (2006)2 del Consiglio d’Europa sulle “Regole penitenziarie europee”, adottata dal Comitato dei Ministri l’11 gennaio 2006, che riferisce distintamente il diritto stesso tanto al condannato (regola numero 23) che all’imputato (regola numero 98)» (sentenza n. 143 del 2013), dall’altro, identica raccomandazione è, infine, contenuta nella regola 61 delle “United Nations Standard Minimum Rules for the Treatment of prisoners” (le cosiddette “Mandela Rules”), adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 17 dicembre 2015, ove si sottolinea la necessità che ai detenuti – senza distinzione tra condannati in via definitiva e imputati – sia assicurata la possibilità di comunicare e di consultarsi con un legale di propria scelta o un avvocato d’ufficio «without delay, interception or censorship and in full confidentiality», precisandosi altresì che i colloqui orali possano svolgersi sotto la sorveglianza visiva, ma non auditiva, degli agenti penitenziari.

Non v’è quindi dubbio, per la Corte, che la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza con il proprio difensore, discendente dalla disposizione censurata, costituisca una vistosa limitazione del diritto in questione atteso che la procedura di visto comporta l’apertura della corrispondenza da parte dell’autorità giudiziaria o dell’amministrazione penitenziaria delegata, la sua integrale lettura e il suo eventuale “trattenimento” – ossia la mancata consegna al destinatario, sia questi il difensore o lo stesso detenuto o internato.

Da ciò deriva come tale procedura comporti dunque in ogni caso, oltre a un rallentamento della consegna della corrispondenza, il venir meno della sua segretezza fermo restando che ciò può determinare, altresì, l’impedimento radicale della comunicazione, sulla base del giudizio discrezionale dell’autorità che esercita il controllo, tenuto conto altresì del fatto che la giurisprudenza della Consulta considera, peraltro, che il diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni con il proprio difensore non sia assoluto, e sia soggetto a possibili bilanciamenti con altri interessi costituzionalmente garantiti, entro i limiti della ragionevolezza e della proporzionalità, e in ogni caso a condizione che non risulti compromessa l’effettività del diritto alla difesa (sentenza n. 143 del 2013, punto 6 del Considerato in diritto, e ulteriori pronunce ivi richiamate, riferite anche ad aspetti differenti del diritto di difesa), così come, analogamente, la Corte EDU considera in linea di principio ammissibili limitazioni al diritto in questione, purché fondate su un’idonea base legale, e purché proporzionate rispetto ai fini legittimi perseguiti dal legislatore (per tutte, ancora Corte EDU, Ekinci e Akalin contro Turchia, e Campbell, paragrafo 34).

Rispetto poi alla generalità delle limitazioni dei diritti fondamentali imposte ai detenuti o internati sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41-bis ordin. penit., si faceva presente come la giurisprudenza della Corte costituzionale sia costante nel ritenere che tali limitazioni – assai più onerose di quelle ordinariamente imposte ai detenuti e internati “comuni” – siano costituzionalmente legittime soltanto in quanto appaiano, da un lato, funzionali rispetto alla peculiare finalità del regime speciale in parola, che mira non già ad assicurare un surplus di punizione per gli autori di reati di speciale gravità, bensì esclusivamente a contenere la persistente pericolosità di singoli detenuti, «in particolare impedendo i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà» (sentenza n. 97 del 2020, punto 6 del Considerato in diritto); e, dall’altro, non risultino sproporzionate, in quanto eccessive rispetto a tale scopo legittimo, e irragionevolmente gravose rispetto ai diritti fondamentali di cui restano titolari anche le persone sottoposte al regime differenziato di cui all’art. 41-bis ordin. penit., ovvero siano tali da vanificare del tutto la funzione rieducativa della pena; o ancora si risolvano, addirittura, in trattamenti contrari al senso di umanità (così, con varie formulazioni, la stessa sentenza n. 97 del 2020, nonché sentenze n. 197 del 2021, n. 186 del 2018, n. 376 del 1997 e n. 351 del 1996).

È dunque, per il giudice delle leggi, sulla base di tali principi che deve essere vagliata la legittimità costituzionale della limitazione del diritto di comunicare liberamente, e in maniera confidenziale, con il proprio difensore, desumibile dalla disposizione censurata in relazione ai detenuti e internati in regime differenziato di cui all’art. 41-bis ordin. penit..

Precisato ciò, i giudici di legittimità costituzionale evidenziavano – una volta fatto presente che la stessa Corte costituzionale, esaminando alcuni anni or sono la previsione, introdotta dalla legge n. 94 del 2009, di rigidi limiti quantitativi settimanali ai colloqui con il difensore dei detenuti e internati in regime differenziato ex art. 41-bis ordin. penit., ne dichiarò l’illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 24 Cost., osservando che tale disciplina realizzava un irragionevole decremento di tutela di un diritto fondamentale (quello alla difesa tecnica), cui non faceva riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango (quello alla salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza) posto che i colloqui con i difensori – diversamente da quelli con i familiari e conviventi o con terze persone – restano sottratti all’ascolto e alla videoregistrazione, i limiti di cadenza e di durata normativamente stabiliti risultavano suscettibili di penalizzare la difesa, ma non valevano «ad impedire, nemmeno parzialmente, il temuto passaggio di direttive e di informazioni tra il carcere e l’esterno, né a circoscrivere in modo realmente significativo la quantità e la natura dei messaggi che si paventano scambiabili, per il tramite dei difensori, nell’ambito dei sodalizi criminosi», sottolineandosi contestualmente come l’eventualità che persone pur «appartenenti ad un ordine professionale (quello degli avvocati), tenute al rispetto di un codice deontologico nello specifico campo dei rapporti con la giustizia e sottoposte alla vigilanza disciplinare dell’ordine di appartenenza», si prestino a fungere da tramite fra il detenuto e i membri dell’organizzazione criminale, «se non può essere certamente esclusa a priori, neppure può essere assunta ad una regola di esperienza, tradotta in enunciato normativo apparendo, sotto questo profilo, la situazione significativamente diversa da quella riscontrabile in rapporto ai colloqui con persone legate al detenuto da vincoli parentali o affettivi, ovvero con terzi non qualificati» (sentenza n. 143 del 2013) – che analoghe conclusioni si imponevano rispetto alla disposizione ora all’esame giacché, come la generalità delle misure previste dall’art. 41-bis, comma 2-quater, ordin. penit., anche il visto di censura della corrispondenza contemplato dalla lettera e) mira essenzialmente a impedire che il detenuto o l’internato possano continuare a intrattenere rapporti con l’organizzazione criminale di appartenenza, e a svolgere così ancora un ruolo attivo all’interno di tale organizzazione, in particolare impartendo o ricevendo ordini o istruzioni rivolti a, o provenienti da, altri membri del sodalizio e, quindi, sotto questo profilo, per la Corte, non può escludersi in assoluto che tali ordini o istruzioni possano essere trasmessi anche attraverso l’intermediazione di un difensore sicché l’estensione alle comunicazioni con i difensori del visto di censura potrebbe, in astratto, ritenersi misura funzionale a ridurre il rischio di un tale evento.

Riguardata, però, nel contesto delle altre misure previste dal comma 2-quater dell’art. 41-bis ordin. penit., sempre ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, la disposizione in esame si appalesa del tutto inidonea a tale scopo dal momento che il temuto scambio di informazioni tra difensori e detenuti o internati potrebbe comunque avvenire nel contesto dei colloqui visivi o telefonici, oggi consentiti con il difensore in numero illimitato, e rispetto al cui contenuto non può essere operato alcun controllo, tenuto conto altresì del fatto che la misura – che incide sul diritto fondamentale del detenuto o internato in misura ancora più gravosa rispetto a quella giudicata costituzionalmente illegittima dalla menzionata sentenza n. 143 del 2013, non ponendo meri limiti quantitativi ma potendo addirittura impedire che talune comunicazioni giungano al proprio destinatario – appariva essere, per il giudice delle leggi, certamente eccessiva rispetto allo scopo perseguito visto che sottopone a controllo preventivo tutte le comunicazioni del detenuto con il proprio difensore e ciò in assenza di qualsiasi elemento concreto che consenta di ipotizzare condotte illecite da parte di quest’ultimo; in effetti, come osservava anche l’amicus curiae, la disposizione censurata si fonda su una generale e insostenibile presunzione – già stigmatizzata dalla sentenza n. 143 del 2013 – di collusione del difensore con il sodalizio criminale finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso, trattandosi di un  ruolo che, per la Corte, per risultare effettivo, richiede che il detenuto o internato possa di regola comunicare al proprio avvocato, in maniera libera e riservata, ogni informazione potenzialmente rilevante per la propria difesa, anche rispetto alle modalità del suo trattamento in carcere e a violazioni di legge o di regolamento che si siano, in ipotesi, ivi consumate.

Infine, si rilevava come il vulnus al diritto di difesa risulti essere particolarmente evidente nei confronti dei detenuti meno abbienti dato che, qualora il detenuto sia stato trasferito in una struttura penitenziaria distante dalla città in cui ha sede il proprio difensore di fiducia, la corrispondenza epistolare potrebbe divenire il principale mezzo a disposizione per comunicare con lo stesso difensore mentre i detenuti provvisti – anche in ragione della propria posizione apicale nell’organizzazione criminale – di maggiori disponibilità economiche potrebbero assai più agevolmente sostenere i costi e gli onorari connessi ai viaggi del proprio avvocato finalizzati allo svolgimento dei colloqui.

Da ciò se ne faceva inferire l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata per contrasto con l’art. 24 Cost., nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione a visto di censura la corrispondenza intrattenuta con i difensori e, di conseguenza, era dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione a visto di censura la corrispondenza intrattenuta con i difensori.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante in quanto la Consulta, con tale pronuncia, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), della legge 26 luglio 1975, n. 354 [che, come è noto, dispone che la “sospensione delle regole di trattamento e degli istituti di cui al comma 2 (ossia l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza ndr.)  prevede: (…) la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia”] nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione a visto di censura la corrispondenza intrattenuta con i difensori.

Tale provvedimento, quindi, si pone nell’ottica di tutelare il diritto di difesa, definito dalla nostra Costituzionale come inviolabile, da eventuali forme di controllo (censure) nei confronti della corrispondenza che il detenuto, sottoposto al regime carcerario differenziato, intrattenga con il proprio legale.

Fermo restando la piena condivisibilità di una sentenza di tal genere in quanto diretta a tutelare l’inviolabilità del diritto di difesa, in ossequio a quanto sancito dall’art. 24, co. 2, Cost., va da sé che, per effetto di tale decisione, non può ritenersi più consentita una sottoposizione a visto di censura in tale caso, e quindi nell’ambito del rapporto intercorrente tra difensore, di fiducia o d’ufficio che sia, e l’assistito, sebbene quest’ultimo sia sottoposto a questo particolare regime restrittivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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