Corte Costituzionale 21/7/2000 n. 319

Redazione 21/07/00
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. – Il Tribunale di Palermo solleva, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, primo e secondo comma (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), in relazione all’art. 10 dello stesso regio decreto, nella parte in cui detta norma – per diritto vivente prevede, in caso di fallimento di società, anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili pure se abbiano perso tale qualità, per trasformazione del tipo sociale, da oltre un anno.

Il Tribunale di Milano solleva invece questione di legittimità costituzionale della stessa norma, sempre con riferimento al parametro di cui all’art. 3 Cost., non esplicitamente evocato ma desumibile chiaramente dalla motivazione dell’ordinanza, nella parte in cui non contiene la fissazione di un termine ragionevole – che si assume comunque dover essere diverso dal termine annuale previsto dall’art. 10 dello stesso regio decreto – entro il quale possa essere dichiarato il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, dopo che essi abbiano perso tale qualità a seguito di trasformazione societaria.

Il Tribunale di Bologna, infine, solleva, in riferimento ancora all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 10 e 147, primo e secondo comma, della legge fallimentare (R.D. n. 267 del 1942) in quanto tali norme impongono – sempre secondo il diritto vivente – la declaratoria di fallimento delle società e dei loro soci illimitatamente responsabili senza limiti di tempo, anche dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese, a fronte del termine di preclusione annuale fissato dall’art. 10 per l’imprenditore individuale che abbia cessato l’attività di impresa.

I tre giudizi, comportando la risoluzione di questioni sostanzialmente identiche, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.

2. – Le ordinanze di rimessione muovono tutte dalla pronuncia con cui questa Corte, nel dichiarare non fondata una analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 del R.D. n. 267 del 1942 (legge fallimentare), ha affermato che "la disposizione denunciata va interpretata nel senso che, a seguito del fallimento della società commerciale di persone, il fallimento dei soci illimitatamente responsabili defunti o rispetto ai quali sia comunque venuta meno l’appartenenza alla compagine sociale può essere dichiarato solo entro il termine, fissato dagli artt. 10 e 11 del R.D. n. 267 del 1942 (legge fallimentare), di un anno dallo scioglimento del rapporto sociale" (sent. n. 66 del 1999).

I rimettenti escludono, per motivi diversi, che l’interpretazione adeguatrice sopra riferita sia direttamente applicabile alle diverse fattispecie sottoposte al loro giudizio. Rilevano peraltro – sotto profili non del tutto coincidenti – come la previsione di un termine per la declaratoria di fallimento dell’imprenditore individuale e dell’ex socio (secondo l’interpretazione contenuta nella sent. n. 66 del 1999) e la mancanza invece di qualsiasi termine per la declaratoria di fallimento delle società commerciali e dei soci illimitatamente responsabili, pur dopo la perdita della responsabilità illimitata di questi ultimi a seguito della trasformazione del tipo sociale, comporti una irragionevole disparità di trattamento fra situazioni omogenee, così risultando lesiva dell’art. 3 Cost.

3. – Nella sent. n. 66 del 1999 questa Corte ha osservato che, così come l’assoggettabilità a fallimento dell’imprenditore cessato o defunto postula, in applicazione del generale principio di certezza delle situazioni giuridiche, la fissazione di un limite temporale entro cui debba seguire la dichiarazione di fallimento – limite fissato negli artt. 10 e 11 del R.D. n. 267 del 1942 (legge fallimentare) in un anno dalla cessazione dell’impresa (o dalla morte dell’imprenditore)-, analogamente ed a maggior ragione deve essere circoscritta entro un prestabilito limite temporale l’ammissibilità del fallimento dell’ex socio, la cui sottoposizione alla procedura fallimentare prescinde del tutto dalla sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 1 e 5 del R.D. n. 267 del 1942, che vanno accertati solo nei confronti della società.

In coerenza all’affermazione, costante nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le leggi "in linea di principio non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne) ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali" (cosi, ex plurimis, sent. n. 200 del 1999 e sent. n. 65 del 1999) si è individuato, in via interpretativa, il limite temporale all’ammissibilità del fallimento dell’ex socio all’interno della stessa legge fallimentare, e precisamente nella norma dettata dagli artt. 10 ed 11, attribuendo quindi ad essa, in considerazione della sua ratio, una portata generale e non limitata al solo imprenditore individuale.

La giurisprudenza dei giudici ordinari, successiva alla citata sentenza di questa Corte, ha tuttavia mostrato un’evidente contrarietà ad abbandonare l’interpretazione restrittiva da lungo tempo consolidata in sede di legittimità Gli stessi rimettenti – come si è detto – muovono dal presupposto che l’art. 10 del R.D. n. 267 del 1942 non sia suscettibile di diretta applicazione al di fuori della fattispecie espressamente esaminata nella sent. n. 66 del 1999, con ciò stesso implicitamente negando il carattere generale della norma, affermato invece nella predetta sentenza. Da qui l’opportunità – onde evitare il perpetuarsi di una grave incertezza interpretativa – che l’esame delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, per molti versi connesse a quelle affrontate nella richiamata sent. n. 66 del 1999, venga questa volta condotto sulla base della diversa interpretazione della denunciata normativa, consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità ed assunta dai rimettenti quale diritto vivente.

4. – Alla luce di tale premessa, è da ritenersi innanzitutto fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 del R.D. n. 267 del 1942, sollevata dal Tribunale di Bologna. Il termine annuale, previsto da tale norma, oltre il quale non può darsi declaratoria di fallimento, nel caso di impresa collettiva decorre appunto secondo il diritto vivente – non già dalla cessazione dell’attività o dallo scioglimento della società medesima, bensì dal compimento della fase liquidatoria, che non coincide con la chiusura formale della liquidazione ma con la liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società, sicché questa si considera esistente, e dunque assoggettabile a fallimento, finché rimangono rapporti, attivi o passivi, da definire.

È evidente peraltro che la norma stessa, così interpretata, risulta sostanzialmente inapplicabile, atteso che il termine di un anno entro il quale può essere dichiarato il fallimento della società, nonché il fallimento in estensione dei suoi soci illimitatamente responsabili, inizia a decorrere solamente dal momento in cui, essendo stato definito ogni rapporto passivo che fa capo alla società stessa, non può nemmeno ipotizzarsi l’esistenza dello stato di insolvenza, costituente il presupposto della dichiarazione di fallimento.

Va chiarito, a tale proposito, che rientra sicuramente nella discrezionalità del legislatore individuare diversamente, per l’impresa individuale e per quella collettiva, il "dies a quo" del termine entro il quale il fallimento dev’essere dichiarato dopo la cessazione dell’impresa, così come prevedere, eventualmente, in riferimento alle due fattispecie, termini diversi. La discrezionalità del legislatore incontra peraltro un limite nel principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., il quale postula che la norma con la quale viene fissato un termine non sia congegnata in modo tale da vanificare completamente la ratio che presiede alla fissazione di quel termine, rendendolo così del tutto inutile.

Va perciò dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 del R.D. n. 267 del 1942 – risultando assorbita in tale pronuncia la censura relativa all’art. 147 del R.D. n. 267 del 1942 – nella parte in cui prevede che il termine di un anno dalla cessazione dell’impresa, entro il quale può intervenire la dichiarazione di fallimento, decorra, per l’impresa collettiva, dalla liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società, invece che dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese.

5.- Parimenti fondate, nei limiti di seguito precisati, sono le questioni sollevate dai Tribunali di Palermo e Milano.

Questa Corte, come si è detto, ha affermato nella sent. n. 66 del 1999 che il generale principio di certezza delle situazioni giuridiche in considerazione delle conseguenze che dalla declaratoria di fallimento discendono, non solo per chi ne è colpito ma anche per i terzi che con lui siano entrati in rapporto – impone che l’ammissibilità del fallimento dell’ex socio sia ristretta entro un congruo limite temporale, così come previsto, in ragione di una identica esigenza, dagli artt. 10 e 11 del R.D. n. 267 del 1942 per il fallimento dell’imprenditore deceduto o che abbia cessato l’attività di impresa.

Tale affermazione va ora ulteriormente precisata – con riguardo all’ipotesi, cui le questioni si riferiscono, di fallimento del socio che abbia perso la responsabilità illimitata a seguito di trasformazione del tipo sociale – nel senso che deve ritenersi la necessità di un limite temporale alla assoggettabilità al fallimento del socio di società commerciale, allo stesso modo e per le medesime ragioni già illustrate nella sent. n. 66 del 1999, in tutti i casi di perdita, per qualsiasi causa, della responsabilità illimitata.

Poiché, secondo l’interpretazione prospettata dai rimettenti, la norma di cui agli artt. 10 e 11 del R.D. n. 267 del 1942 non può intendersi riferita – come si è visto – anche al fallimento in estensione del socio, ne consegue l’illegittimità costituzionale dell’art. 147, primo comma, del R.D. n. 267 del 1942, nella parte in cui prevede che il fallimento della società produce il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, pur dopo che sia decorso un anno dal momento in cui costoro abbiano perso per qualsiasi causa la responsabilità illimitata.

Va precisato, ancora una volta, che ben potrebbe il legislatore – nel bilanciamento tra le opposte esigenze di tutela dei creditori e di certezza delle situazioni giuridiche – fissare, per la assoggettabilità al fallimento dei soci illimitatamente responsabili, un termine diverso da quello annuale previsto dagli artt. 10 e 11 del R.D. n. 267 del 1942. Laddove evidente appare che, da parte di questa Corte, il rilevato vizio di illegittimità costituzionale non possa essere sanato in altro modo che uniformando, sul punto, la disciplina del fallimento del socio illimitatamente responsabile a quella dettata per l’imprenditore individuale o collettivo dai menzionati artt. 10 e 11 del R.D. n. 267 del 1942.

6.- Restano assorbite, in quanto prive di autonoma rilevanza nei giudizi "a quibus", le censure relative all’art. 147, secondo comma, del R.D. n. 267 del 1942.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui non prevede che il termine di un anno dalla cessazione dell’esercizio dell’impresa collettiva per la dichiarazione di fallimento della società decorra dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 147, primo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui prevede che il fallimento dei soci a responsabilità illimitata di società fallita possa essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal momento in cui essi abbiano perso, per qualsiasi causa, la responsabilità illimitata.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 luglio 2000.

Redazione