L’art. 73, co. 5, d.P.R., 9 ottobre 1990, n. 309 non è in contrasto con l’art. 3 Cost.

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Scopo del presente scritto è quello di esaminare la sentenza con cui la Consulta ha recentemente ritenuto non illegittima costituzionalmente la disposizione legislativa di cui all’art. 73, co. 5, d.P.R., 9 ottobre 1990, n. 309 (vale a dire la sentenza n. 26 del 2016[1]).

La Corte costituzionale è pervenuta a siffatta conclusione giuridica rilevando innanzitutto l’inammissibilità della questione sollevata in quanto si sarebbe chiesto in sede di giustizia costituzionale «un intervento additivo in materia penale, in assenza di soluzioni costituzionalmente obbligate».

In particolare, i giudici di legittimità costituzionale – partendo dal presupposto secondo cui sono «inammissibili questioni formulate con un petitum che «[…] per la ampiezza della sua portata additiva […] non si configura come unica soluzione costituzionalmente obbligata (sentenze, n. 81 e n. 30 del 2014) », (sentenza n. 241 del 2014), (…) quando «il petitum formulato si connota per un cospicuo tasso di manipolatività, derivante anche dalla “natura creativa” e “non costituzionalmente obbligata” della soluzione evocata (sentenze  n. 241, n. 81 e n. 30 del 2014; ordinanza n. 190 del 2013)», (sentenza n. 241 del 2014), tanto più in materie rispetto alle quali è stata riconosciuta ampia discrezionalità del legislatore (sentenza n. 277 del 2014)» – sono giunti alla conclusione alla stregua del quale è «fuor di dubbio che si rientri in una materia rispetto alla quale deve riconoscersi un ampio margine di libera determinazione al legislatore, posto che si chiede alla Corte di intervenire sulla configurazione del trattamento sanzionatorio di condotte individuate come punibili (ex plurimis, sentenze n. 185 del 2015; n. 68 del 2012, n. 47 del 2010, n. 161 del 2009, n. 22 del 2007 e n. 394 del 2006)».

Inoltre, si è ritenuto come non vi fosse alcuna ragione per ritenere il legislatore «vincolato a configurare intervalli edittali differenziati a seconda della natura della sostanza, nel caso di reati di lieve entità» atteso che non sussisterebbe più, sempre ad avviso della Corte, «alcuna esigenza di mantenere una simmetria sanzionatoria tra fatti di lieve entità e quelli non lievi» e ciò in ragione del fatto che «il fatto di lieve entità di cui al testo censurato dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 costituisce una fattispecie autonoma di reato, e non più una circostanza attenuante del fatto non lieve».

In terzo luogo, un altro vulnus argomentativo, riscontrato nell’ordinanza di rimessione, sarebbe consistito nel fatto che il rimettente si sarebbe limitato «ad affermare la necessità di una differenziazione dell’intervallo edittale, senza però indicare quale sarebbe quella costituzionalmente obbligata» mentre invece, per un verso, il sindacato di legittimità costituzionale «può investire le pene scelte dal legislatore solo se si appalesi una evidente violazione del canone della ragionevolezza, in quanto ci si trovi di fronte a fattispecie di reato sostanzialmente identiche, ma sottoposte a diverso trattamento sanzionatorio (ex plurimis, tra le pronunce più recenti, sentenze n. 325 del 2005, n. 364 del 2004; ordinanza n. 158 del 2004)», per altro verso, se «non si riscontra una sostanziale identità tra le fattispecie prese in considerazione, e si rileva invece […] una sproporzione sanzionatoria rispetto a condotte più gravi, un eventuale intervento di riequilibrio di questa Corte non potrebbe in alcun modo rimodulare le sanzioni previste dalla legge, senza sostituire la propria valutazione a quella che spetta al legislatore».

In quarto luogo, è stato ritenuto il vulnus costituzionale lamentato dal rimettente non «rimediabile con una mera dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, il cui unico effetto sarebbe quello di eliminare del tutto l’ipotesi di lieve entità» giacchè, a «differenza della questione decisa da questa Corte con la sentenza n. 32 del 2014, (…) nel presente giudizio non viene lamentato un vizio procedurale della legge, sicché deve escludersi, in questo caso, ogni «reviviscenza» (rectius: «ripresa di applicazione») delle disposizioni precedenti, che possa colmare il vuoto determinato da una eventuale pronuncia meramente ablativa della Corte costituzionale».

Orbene, esaminati i tratti salienti, che connotato la sentenza in commento, lo scrivente reputa, a suo umile avviso, quanto meno in parte non condivisibile tale articolato iter argomentativo per le seguenti ragioni.

Quanto al primo aspetto sollevato, non pare che il Tribunale di Reggio Calabria abbia prospettato un intervento della Consulta di tipo additivo in quanto, come almeno trapela nella parte in cui è stata formulata la questione di legittimità costituzionale, è stato semplicemente stimato illegittimo costituzionalmente l’art. 73, co. V, d.P.R., 9 ottobre 1990, n. 309 in quanto «non distingue – nel trattamento sanzionatorio – tra fatti di lieve entità aventi ad oggetto sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I e fatti di lieve entità aventi ad oggetto sostanze stupefacenti o psicotrope appartenenti alla differente tabella II dell’art. 14 del D.P.R. 309/90»[2].

Veniva chiesto (almeno questa è l’impressione di chi scrive) un semplice provvedimento demolitorio della norma in questione e quindi, se si può sicuramente discute l’opportunità, come vedremo da qui a poco, su un intervento rescindente e rescissorio di questa portata giuridica, non può però ritenersi, ad avviso di chi scrive, una richiesta di questo tipo non contenente una unica soluzione costituzionalmente obbligata.  

Difatti, sempre ad avviso di chi scrive, si domandava nel caso di specie semplicemente l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, co. 5, d.P.R. n. 309 nella sua integralità senza però domandare al contempo una rideterminazione della pena da compiersi in sede di giustizia costituzionale.

Tra l’altro, anche a voler concedere che venisse chiesta una possibile rideterminazione del trattamento sanzionatorio, va comunque rilevato che, secondo il diritto vivente, è consentito «censurare la discrezionalità del legislatore in ordine alla individuazione delle condotte punibili ed alla determinazione del trattamento sanzionatorio soltanto nel caso in cui la stessa sia stata esercitata in modo manifestamente irragionevole, arbitrario o radicalmente ingiustificato»[3] o quando le scelte legislative si traducano «in un uso distorto della discrezionalità»[4] sempreché il raffronto tra fattispecie normative, finalizzato a verificare la ragionevolezza delle scelte legislative, abbia «ad oggetto casistiche omogenee, risultando altrimenti improponibile la stessa comparazione (ex plurimis, ordinanze n. 41 del 2009, n. 71 del 2007 e n. 30 del 2007)»[5].

Ebbene, venendo a trattare l’ultimo requisito richiesto, ossia il raffronto tra le fattispecie normative (in questo caso trattasi di ipotesi di reato contenute in norme giuridiche a loro volte contemplate in una stessa disposizione legislativa), la valutazione, compiuta nella sentenza in commento, ovvero, come esposto prima, la considerazione alla stregua della quale non vi sarebbero più fattispecie di reato sostanzialmente identiche (poiché il fatto di lieve entità di cui al testo censurato dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 costituisce una fattispecie autonoma di reato, e non più una circostanza attenuante del fatto non lieve) non si palesa, ad avviso di chi scrive, condivisibile alla luce delle seguenti considerazioni.

In  primo luogo, la configurazione del fatto di lieve entità, da circostanza attenuante a reato autonomo, non ha determinato una riscrittura della condotta ivi prevista essendo quest’ultima rimasta sempre la stessa.

Ciò si evince ad esempio da alcune delle pronunce in cui la Cassazione, nell’affermare la natura di reato autonomo di questa condotta deviante, ha postulato tuttavia che, «nell’ipotesi “lieve” in materia di stupefacenti, sia rimasta inalterata la scelta del rinvio ad altra figura di reato, contenuta nello stesso articolo, con l’aggiunta un profilo qualitativo (la lieve entità, appunto) che specializza la condotta punibile limitandosi il rinvio alla sola «conformazione dei “fatti” cui si connette la previsione punitiva»[6].

Tra l’altro, ancor prima che venisse modificato l’art. 73, co. 5, d.P.R. n. 309 del 1990 per effetto dell’articolo 2, comma 1, lettera a), del D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla Legge 21 febbraio 2014, n. 10, al di là della natura di tale fatto come circostanza attenuante, veniva comunque rimarcato come i fatti in questione fossero connotati sempre dalla stessa obiettività giuridica stante il fatto che gli elementi citati dall’art. 73, co. 5, d.P.R. n. 309 (vale a dire: i mezzi, la modalità, le circostanze dell’azione, la qualità e quantità delle sostanze), che sono sempre stati previsti anche prima della riforma appena citata, non mutavano (e non mutano tutt’ora ndr.) per l’appunto «nell’obiettività giuridica e nella struttura, le fattispecie previste dai primi commi dell’articolo, ma attribuiscono ad esse una minore valenza offensiva»[7].

Del resto, sempre la Cassazione, seppur in una specifica occasione, proprio alla luce della medesima identità che connota ambedue le fattispecie delittuose, paventava, prima che assumesse piena vigenza la decisione della Corte Costituzionale con cui sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi gli articoli 4-bis e 4-vicies ter, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (vale a dire la nota sentenza n. 32 del 2014), il rischio che si sarebbe venuta a configurare una «una disciplina in materia di stupefacenti che punirà con pene diverse i fatti-reato riconducibili al primo comma quando riguardino le tabelle inclusive delle droghe “pesanti” e quelli di cui alle tabelle delle droghe “leggere” di cui al quarto comma»[8] ma che al contempo «punirà in maniera indifferenziata, sia per le droghe leggere che per quelle pesanti, i “fatti di lieve entità”»[9].

D’altronde, come evidenziato nella stessa sentenza n. 32 del 2014, la Consulta ebbe modo di rilevare che «le modifiche introdotte nell’ordinamento (ossia quelle dichiarate costituzionalmente illegittime ndr.) apportano una innovazione sistematica alla disciplina dei reati in materia di stupefacenti, sia sotto il profilo delle incriminazioni sia sotto quello sanzionatorio, il fulcro della quale è costituito dalla parificazione dei delitti riguardanti le droghe cosiddette “pesanti” e di quelli aventi ad oggetto le droghe cosiddette “leggere”, fattispecie differenziate invece dalla precedente disciplina».

Se però «la differenzazione sanzionatoria per i fatti commessi a “droghe pesanti” e droghe leggere” ha, per l’effetto della sentenza n. 32, valenza costituzionale»[10] o quanto meno un loro riconoscimento di ordine sistematico che, in quanto tale, dovrebbe travalicare le singole figure delittuose, e considerato che i fatti che rimarcano, come appena visto, devono essere sempre gli stessi (rilevando, come criterio discretivo tra le due fattispecie delittuose, solo l’entità dello spaccio) va da sé che, non l’aver riproposto tale “differenzazione sanzionatoria”, anche per l’ipotesi prevista dal quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309, non può che determinare una legislazione irragionevole proprio perché si va a trattare un fatto analogo (spaccio di sostanze stupefacenti) in modo diverso a seconda se questo sia di lieve entità o meno.

Invero, l’esigenza, di mantenere una simmetria sanzionatoria tra fatti di lieve entità e quelli non lievi, si palesa evidente proprio perché, avendo acquisito la differenzazione sanzionatoria tra i fatti commessi a “droghe pesanti” e “droghe leggere” una rilevanza se non costituzionale quanto meno di ordine sistematico, una tale distinguo avrebbe dovuto essere osservato anche nel caso di lieve entità dato che, come già visto prima, i fatti commessi a “droghe pesanti” e “droghe leggere” previsti nei primi due commi dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 sono gli stessi di quelli previsti dal quinto comma dello stesso articolo.

Da ultimo, l’altro aspetto giuridico, trattato nella pronuncia in argomento, è stato quello secondo cui il vulnus costituzionale lamentato dal rimettente non poteva essere rimediato con una mera dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 in quanto l’unico effetto sarebbe stato quello di eliminare del tutto l’ipotesi di lieve entità.

Difatti, secondo la Consulta, a differenza della questione decisa da questa Corte con la sentenza n. 32 del 2014, nel giudizio sottoposto al suo scrutinio giurisdizionale, non veniva lamentato un vizio procedurale della legge e quindi doveva escludersi ogni «reviviscenza» delle disposizioni precedenti che potessero colmare il vuoto determinato da una eventuale pronuncia meramente ablativa della Corte costituzionale.

Il tema sollevato è sicuramente degno di un’attenta riflessione.

Indubbiamente, da questo passaggio argomentativo, trapela la più che ragionevole preoccupazione dei giudici costituzionali circa gli effetti, che un eventuale accoglimento della questione proposta, avrebbero comportato sul piano pratico.

Sul punto, chi scrive, non entrando ovviamente nel merito di tale passaggio argomentativo (giuridicamente ineccepibile), si permette però di svolgere alcune riflessioni che potrebbero essere prese almeno in parte in considerazione per eventuali questioni di legittimità costituzionale che potrebbero essere sollevate nel futuro sullo stesso tema giuridico.

Una prima opzione interpretativa potrebbe essere quella di emettere una pronuncia di incostituzionalità sopravvenuta che «si ha nel caso in cui la Corte, ritenendo che la dichiarazione di illegittimità costituzionale, pur garantendo alcuni valori, produrrebbe effetti negativi rispetto ad altri ugualmente meritevoli di tutela a livello costituzionale, differisce l’efficacia della decisione al fine di ridurre o eliminare tali effetti, indicando il termine a partire dal quale la norma deve ritenersi incostituzionale»[11].

In tal modo, infatti, verrebbe garantito al legislatore – per evitare evidenti ricadute pratiche (ma non solo), che l’abolizione di un reato di questo tipo potrebbe comportare (ad esempio: si verrebbe difatti a determinare un irragionevole trattamento tra coloro che hanno commesso reati di spaccio di lieve entità rispetto a coloro che invece hanno commesso gli stessi fatti, ma per entità non lieve)  – il tempo necessario per rintrodurre, anche con decreto legge, un “nuovo” art. 73, co. 5, d.P.R., 9 ottobre 1990, n. 309 in cui il trattamento sanzionatorio ricalchi proporzionalmente quello già previsto dai commi 1 e  2 del medesimo articolo.

Una seconda opzione ermeneutica potrebbe essere quella volta a ravvisare pure in questo caso una reviviscenza dell’art. 73, co. 5, d.P.R. n. 309 del 1990 così come era previsto prima che venisse sostituito dall’articolo 4-bis del D.L. 30 settembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni in Legge 21 febbraio 2006, n. 49.

Difatti, l’art. 73, co. 5, d.P.R. n. 309 è stato modificato per effetto del decreto-legge 20 marzo 2014, n. 36 convertito, con modificazioni in Legge 16 maggio 2014 n. 79, vale a dire quel provvedimento con cui il legislatore ha ritenuto di dover intervenire a seguito dell’emissione di questa pronuncia ravvisando di conseguenza, seppur non esplicitamente, una stretta correlazione tra le norme dichiarate costituzionalmente illegittime e quella appena citata.

Essendo tale decreto legge emesso solo per far fronte alla straordinaria necessita’ ed urgenza di ripristinare (…) la disciplina normativa vigente alla data di pubblicazione della citata sentenza della Corte costituzionale, e tenuto conto, come dedotto da questa stessa disciplina giuridica, che la citata pronuncia di incostituzionalita’ e’ fondata sul ravvisato vizio procedurale dovuto all’assenza dell’omogeneita’ e del necessario legame logico-giuridico tra le originarie disposizioni del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, e quelle introdotte dalla legge di conversione 21 febbraio 2006, n. 49, in carenza dei presupposti di cui all’articolo 77, secondo comma, della Costituzione, e non gia’ sulla illegittimita’ sostanziale delle norme oggetto della pronuncia, va da sé, ad avviso di chi scrive, che il conseguente intervento volto a modificare l’art. 73, co. 5, d.P.R. n. 309 – unicamente «se non per l’ulteriormente ridotta forbice edittale, che passa da una pena compresa tra un minimo di un anno di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa e un massimo di cinque anni di reclusione ed Euro 26.000 di multa, a una pena compresa tra un minimo di sei mesi di reclusione ed Euro 1.032,00 di multa e un massimo di quattro anni di reclusione ed Euro 10.329 di multa»[12] – è stato posto in essere solo come effetto riflesso di questa invalidità procedurale così come accertata in questa pronuncia della Corte costituzionale.

Da ciò dovrebbe discendere, come logico corollario, che la modifica di questa norma sembra essere stata fatta, non tanto per assicurare assicurare la continuita’ della sottoposizione al controllo del Ministero della salute delle predette sostanze e il rispetto delle convenzioni internazionali in base alle quali sono state aggiornate le relative tabelle, nonche’ la continuita’ e la funzionalita’ dell’assetto autorizzativo, distributivo e di prescrizione e dispensazione di medicinali, quanto piuttosto per  emendare una disposizione da ritenersi illegittima come conseguenza della decisione emessa dalla Consulta in punto di rito.

Se però la scelta legislativa è stata di questo tipo, al di là del fatto che si sarebbe dovuto, ad avviso di chi scrive, rideterminare una statuizione normativa similare a quella prevista nella versione originaria e non rideterminare il trattamento sanzionatorio in modo unitario, si potrebbe sostenere, in virtù del rapporto di dipendenza che lega le norme dichiarate costituzionalmente illegittime con quella che è stata emendata ex lege nel 2014 (vale a dire il quinto comma dell’art. 73), che il vizio formale, che ha indotto la Consulta a dichiarare illegittime le prime, possa riverberarsi anche su quella in commento in guisa tale da determinare una reviviscenza eguale a quella che ha indotto la Corte costituzionale ha emettere la sentenza n. 32 del 2014.

Se difatti delle norme vengono dichiarate illegittime per un vizio formale, e poi si interviene il legislatore per emendare altre per effetto della declaratoria di illegittimità che ha “colpito” le prime, o vi sono delle ragioni diverse che impongono la modifica delle seconde, o queste non possono che essere le medesime che hanno indotto la Consulta a far caducare le altre per tali motivi e che rendono necessario l’intervento del legislatore per evitare altre future censure di illegittimità costituzionale.

Tal che, alla luce di queste considerazioni, si potrebbe sollevare una questione di legittimità costituzionale chiedendo un intervento additivo della Consulta nel senso che venga ripristinato il trattamento sanzionatorio, prima che l’art. 73, co. 5, d.P.R. n. 309 del 1990 venisse modificato per effetto dell’articolo 4-bis del D.L. 30 settembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni in Legge 21 febbraio 2006, n. 49, vale a dire le pene della reclusione da uno a sei anni e della multa da lire cinque milioni a lire cinquanta milioni per le droghe c.d. “pesanti”, ovvero le pene della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da lire due milioni a lire venti milioni per le droghe c.d. “leggere”.

In tal caso permarrebbe però sempre il problema delle tabelle visto che quelle originariamente previste dal d.P.R. n. 309 del 1990 (così come erano previste nel d.m. Sanità del 27/07/1992) non corrispondono a quelle attualmente vigenti ma in tal caso, come è stato fatto anche a seguito della pronuncia n. 32 del 2014, potrebbe soccorrere il Governo con decreto legge.

Da ultimo, gli effetti in malam partem, che una eventuale pronuncia di questo tipo potrebbe comportare, dovrebbe ritenersi consentiti in quanto queste conseguenze si verrebbero a determinare non a causa dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, ma in ragione dell’automatica riespansione di una norma precedentemente in vigore la quale costituisce semplicemente «una reazione naturale dell’ordinamento – conseguente alla sua unitarietà – alla scomparsa della norma incostituzionale»[13].

In conclusione, pur con i rilievi critici tracciati nel presente scritto, difficilmente si sarebbe potuto emettere una sentenza diversa da quella in commento (specie per le criticità di ordine procedurali che sono emerse nella fattispecie in esame( ma permangono comunque dubbi sulla legittimità costituzionale dell’art. 73, co. 5, d.P.R. n. 309 del 1990 e non è detto che nel futuro questa norma possa essere soggetta ad altri scrutini di legittimità dinnanzi la Corte costituzionale.

 


[1]Per un articolato commento di questa pronuncia, vedasi: G. MARINO, Droghe leggere: non spetta alla Corte Costituzionale stabilire le pene, in Diritto & Giustizia, 12 febbraio 2016.

[2]Trib. min. Reggio Calabria, dott. R. Di Bella, ord. rimessione 5 febbraio 2015, in www.dirittopenalecontemporaneo.it.

[3]Corte Cost., sentenza ud. 8 febbraio 2010 (dep. 12 febbraio 2010), n. 47, in www.giurcost.org.

[4]Corte cost., sentenza ud. 13 luglio 2005 (dep. 26 luglio 2005), n. 325, in www.giurcost.org.

[5]Corte Cost., sentenza ud. 18 maggio 2009 (dep. 22 maggio 2009), n. 161, in www.giurcost.org.

[6]Ibidem.

[7]Cass. pen., Sez. Un., sentenza ud. 24 giugno 2010 (dep. 5 ottobre 2010), n. 35737, in CED Cass. pen., 2010.

[8]Cass. pen., sez. III, sentenza,  ud. 25 febbraio  2014 (dep. 7 marzo 2014), n. 11110, in Guida al diritto, 2014, 13, 90.

[9]Ibidem.

[10]Trib. min. Reggio Calabria, dott. R. Di Bella, ord. rimessione 5 febbraio 2015, in www.dirittopenalecontemporaneo.it.

[11]M. BELLOCCI e T. GIOVANNETTI, Il quadro delle tipologie decisorie nelle pronunce della Corte costituzionale,  QUADERNO PREDISPOSTO IN OCCASIONE DELL’INCONTRO DI STUDIO CON LA CORTE COSTITUZIONALE DI UNGHERIA, Palazzo della Consulta, 11 giugno 2010, in http://www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/STU%20219_Tipologia_decisioni.pdf.

[12]Cass. pen., sez. IV, sentenza ud. 24 ottobre 2014 (dep. 28 novembre 2014), n. 49754, in Rivista penale, 2015, 2, 161.

[13]Corte cost., sentenza ud. 8 novembre 2006 (dep. 23 novembre 2006), n. 394, in www.giurcost.org. Per l’irrilevanza di una eventuale pronuncia in malam partem per una questione giuridica di questo tipo, vedasi: P. VELLECA, E’ legittima l’equiparazione tra droghe pesanti e droghe leggere prevista dall’art. 73 co. 5 d.p.r. 309/1990?Parola alla Corte Costituzionale, in http://easyius.it/corte-cost-232016-la-impossibilita-per-la-corte-costituzionale-di-sostituirsi-al-legislatore/.

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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