All’avvocato, l’onere di provare l’attività per cui chiede il compenso

Redazione 22/06/18
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L’onere di provare lo svolgimento di attività professionale legale, per la quale si chiede il pagamento del compenso, incombe sullo stesso professionista avvocato.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con ordinanza n. 15930 del 18 giugno 2018, respingendo il ricorso di un avvocato, che aveva chiesto la condanna di un cliente, calciatore professionista, al pagamento dei compensi professionali maturati per l’assistenza legale in occasione della stipula di un contratto lavorativo.

Orbene, sia il Tribunale che la Corte d’Appello respingevano la domanda, ritenendo che in realtà l’attività svolta dall’attore andasse inquadrata in quella di procuratore sportivo e non di avvocato. Avverso la statuizione il legale proponeva ricorso in Cassazione, denunciando come i giudici di merito avessero privato di rilievo probatorio la parcella inviata al cliente convenuto, il quale tra l’altro non si era costituito, se non tardivamente nel giudizio di primo grado. Per cui sarebbe stato il convenuto, a detta del ricorrente, a dover dimostrare circostanze contrarie a quanto emergeva dalla fattura, anche alla luce della tardiva costituzione.

Il motivo di gravame non ha trovato tuttavia accoglimento in Cassazione, secondo la quale i giudici di merito avrebbero fatto corretta applicazione del principio per cui l’onere di provare lo svolgimento di attività professionale di cui si chiede il compenso, grava sullo stesso professionista. Ed il principio, già affermato dalla Corte di legittimità in via generale, è suscettibile di estensione anche all’attività legale.

La parcella ha valore probatorio solo in assenza di contestazioni

La Corte ha altresì chiarito che la parcella predisposta, ancorché corredata dal parere del relativo Consiglio dell’Ordine, nel giudizio eventualmente intentato dal professionista per il recupero del compenso, può non assumere valore probatorio. La parcella d’avvocato, in altri termini, costituisce una dichiarazione unilaterale assistita da una presunzione di veridicità, che può però essere posta a fondamento della decisione solo laddove le “poste” o le voci in essa riportate non siano interessate da specifiche contestazioni dal cliente. Ma non anche – è il caso di specie – nella diversa ipotesi in cui la controparte, nell’ambito di un giudizio di cognizione ordinario, sia rimasta contumace.

Contumacia del cliente convenuto, non è “non contestazione”

Infatti non può attribuirsi alcuna rilevanza all’iniziale mancata costituzione del convenuto, posto che il principio di non contestazione, ex art. 115 c.p.c. come novellato dalla Legge n. 69/2009, presuppone l’avvenuta costituzione della controparte. Ne deriva, dunque, che proprio in ragione dell’iniziale mancata costituzione del cliente, in base ai principi di ripartizione dell’onere della prova, incombeva sul legale l’onere di dimostrare l’effettivo svolgimento dell’attività svolta nell’interesse del convenuto e la sua corrispondenza a quanto riportato in fattura, la quale può assumere presunzione di veridicità in quanto risulti dimostrata l’effettiva sussistenza di un mandato professionale riconducibile ad un incarico di natura legale. Alla luce di tutto ciò, il ricorso dell’avvocato è rigettato.

 

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